Nella foresta di Belaveža, al confine tra Russia e Polonia, è scoppiato un conflitto che non ha precedenti in questa regione e, probabilmente, in tutto il blocco dei paesi europei post-socialisti.

Il dittatore bielorusso Aleksandr Lukašenko, con l’evidente aiuto tecnico e militare della Russia e il suo sostegno politico, ha usato i migranti – attirati e condotti in Bielorussia dall’Afghanistan, dalla Siria e da altri paesi orientali – per creare un “conflitto ibrido” ai confini dell’Unione europea. La violenza delle forze di sicurezza di Minsk era già diventata evidente con la repressione delle proteste di massa cominciate nel 2020. Ora i migranti sono usati dai bielorussi come ostaggi, e il governo polacco ha chiuso a doppia mandata il confine. Tenendo conto di tutto questo, è più che pro­babile che le perdite di vite umane saranno enormi.

L’Unione Sovietica tra il 1990 e il 1991 si è sciolta diventando un’Unione Sovietica più piccola, fatta di entità nazionali che conservano il marchio di fabbrica totalitario

A me pare che questo conflitto, consumato nelle gelide foreste di un territorio di con­fine, sia anche il segnale di un’altra verità: la dis­soluzione dell’Unione Sovietica è tutt’altro che conclusa.

“L’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche (Urss) come soggetto di diritto internazionale e realtà geopolitica ha cessato di esistere”, stabilisce l’accordo di Belaveža del 1991. Oggi, più di trent’anni dopo, questa frase andrebbe corretta.

Come soggetto di diritto internazionale l’Unione Sovietica è in effetti scomparsa, anche se in Russia c’è ancora un movimento non ufficiale che nega la legittimità dell’accordo di Belaveža e di conseguenza considera l’Urss un’entità ancora esistente (chi fa parte di questo movimento continua a usare i simboli, il denaro e i passaporti sovietici).

Tuttavia, come realtà geopolitica – intesa come insieme delle pratiche fondamentali della cultura politica e delle idee sul rapporto tra i diritti dell’uomo e i diritti dello stato – l’Unione Sovietica “è più viva di tutti i vivi”, come usavano dire del leader comunista Lenin gli agenti della propaganda sovietica citando un verso del poeta Vladimir Majakovskij. Penso che non sia un’esagerazione sostenere che l’Unione Sovietica – con l’ovvia eccezione dei tre paesi baltici, Lettonia, Estonia e Lituania – tra il 1990 e il 1991 si sia sciolta in diverse piccole repubbliche socialiste, diventando un’Unione Sovietica più piccola, fatta di entità nazionali che conservano il germe fatale della loro nascita, il marchio di fabbrica totalitario. Nella maggior parte di queste repubbliche si è mantenuta una continuità nelle classi dirigenti e nelle strutture di potere, scivolate facilmente verso l’autoritarismo.

A prendere le redini delle ex repubbliche sovietiche sono stati – sempre con l’eccezione dei paesi baltici – i rappresentanti delle passate élite sovietiche: segretari di partito, ministri e generali del Kgb (i servizi segreti sovietici) portatori di una visione del mondo autoritaria. Praticamente in nessuno di questi paesi ci sono stati movimenti alternativi e democratici in grado di plasmare e realizzare un nuovo ordine democratico.

Cominciamo dalle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale: Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Tagikistan. Tutte e quattro sono guidate da regimi autocratici, diversi per grado di libertà e caratterizzati dai prevedibili tratti del dispotismo orientale: statue dorate dei governanti che s’improvvisano autori di libri sacri, città ribattezzate in loro onore e così via.

Passiamo alle ex repubbliche sovietiche trans­caucasiche: Georgia, Armenia e Azerbaigian. In Geor­gia e in Armenia tardive rivoluzioni liberali avevano già avuto luogo nel novecento, ma la tensione generale nella regione e il coinvolgimento nei continui conflitti militari non hanno permesso a questi paesi di affrancarsi completamente dall’eredità dell’autoritarismo sovietico.

Infine arriviamo alle ex repubbliche sovietiche europee: Ucraina, Bielorussia e Moldova. In Moldova il conflitto in Transnistria non si è ancora risolto; l’Ucraina è in uno stato di guerra non dichiarata con la Russia ormai da sette anni; e la Bielorussia di Lukašenko, dittatore che nel 2020 ha brutalmente represso le proteste pacifiche dei cittadini, sta gradualmente perdendo la sua indipendenza per diventare un’appendice politica di Mosca.

Possiamo quindi affermare che l’Unione Sovietica esiste e opera ancora. Esiste sotto forma di un insieme di trasformazioni democratiche fallite e della persistente eredità della politica comunista del novecento, come della contaminazione radioattiva dei luoghi dopo il disastro della centrale nucleare di Černobyl, che è durata decenni. Probabilmente gli imperi hanno un periodo di declino prima della morte. Non scompaiono nel momento in cui viene firmato un trattato come quello di Belaveža: continuano a esistere come un insieme di metodi politici, peccati del passato, crimini lasciati impuniti, apatia sociale generalizzata. Per far sparire tutto questo per sempre è necessaria una grande opera di cambiamento.

Si dà quasi per scontato che il crollo dell’Unione Sovietica sia avvenuto senza spargimenti di sangue, al costo di poche vite. Se così fosse, il tentato colpo di stato dell’agosto 1991, che mirava a deporre il presidente sovietico Michail Gorbačëv, e il trattato del dicembre 1991 si collocherebbero nel contesto delle rivoluzioni di velluto dell’Europa orientale, che davvero non hanno causato spargimenti di sangue o, comunque, hanno fatto poche vittime, come nel caso dei coniugi Ceaușescu in Romania.

Ma purtroppo non è vero. I settant’anni di politica del Partito comunista sovietico hanno lasciato un’eredità esplosiva.

Gabriella Giandelli

Basti pensare alle deportazioni di interi popoli sotto la dittatura di Stalin (ceceni, ingusci, tartari di Crimea, carachi e molti altri) e al loro successivo ritorno in una patria distrutta, in case occupate e con santuari devastati: tutto questo generò un’esigenza di giustizia e autonomia che si sarebbe manifestata anni dopo. Un conto molto salato da pagare per Mosca.

Inoltre, quando le autorità sovietiche hanno agilmente ridisegnato i confini storici in funzione del contesto, quando hanno creato, abolito o subordinato le repubbliche autonome dell’Urss, che erano di rango inferiore rispetto alle altre repubbliche dell’Unione Sovietica, non hanno fatto altro che creare future dispute territoriali e speranze d’indipendenza.

E poi c’erano anche dei vecchi conflitti nazionali che risalivano all’epoca pre-sovietica, come quello tra l’Azerbaigian e l’Armenia.

Mosca ha creato questo campo minato di conflitti e, grazie al suo potere autoritario, li ha congelati fino alla fase finale della perestrojka, cioè fino a quando sono cominciati i tumulti nazionali praticamente in ogni repubblica, autonoma o dell’Unione Sovietica. Questi conflitti, che continuano a esplodere con enorme facilità, sono stati riportati alla luce e innescati dal crollo dell’Unione Sovietica.

Proprio per questo la storia post-sovietica è una storia di conflitti, scontri etnici, conquiste territoriali, massacri di civili.

Le guerre civili in Georgia (1991-1993) e in Tagikistan (1992-1993); le guerre in Nagorno Karabakh tra Armenia e Azerbaigian (1992-1994, 2020); il conflitto osseto-inguscio del 1992 e le due guerre in Cecenia (1994-1996, 1999-2009), combattute direttamente sul territorio della Federazione Russa; le guerre in Abkhazia (1992-1993) e Ossezia del Sud (1991-1992, 2008); e infine quella in Transnistria (1991-1992) sono tutte avvenute con l’ingerenza della Russia. L’annessione armata della Crimea (2014) e l’aggressione russa del 2014 nell’Ucraina orientale, tuttora in corso, sono solo gli ultimi episodi di un elenco ancora incompleto dei conflitti armati post-sovietici.

Il prezzo è stato di centinaia di migliaia di morti, milioni di profughi, città distrutte, rapporti tra paesi compromessi per decenni e il dilagare di una violenza rimasta impunita: tutti ostacoli sulla già difficile strada verso la democrazia.

Per inciso, fin dalla presidenza di Boris Eltsin la Russia era diventata, per così dire, la responsabile e la beneficiaria di molte delle guerre sopra citate. Le usava per creare focolai di tensione controllata nelle sue ex repubbliche da poco indipendenti e per influenzare le loro politiche estere e interne.

Oggi questo meccanismo si ripete con l’Unione europea. L’aggressione russa all’Ucraina è in corso a meno di mille chilometri dai confini europei. Dalla Crimea alla frontiera del più vicino stato che fa parte della Nato, la Turchia, ci sono 260 chilometri. È una vicinanza straordinaria in senso sia militare sia socio­politico.

Potremmo dire, insomma, che la cortina di ferro, come simbolo del conflitto tra occidente e oriente, sta tornando, solo che ora si trova più a est. Il confine tra Russia e Ucraina è un campo di battaglia: ci sono trincee, filo spinato, rapporti dal fronte, vittime nell’esercito ucraino. E la Polonia sta rafforzando il confine con la Bielorussia e impone la chiusura dei valichi di frontiera, sigillando i suoi confini e aumentando la presenza della polizia. L’Europa, già di per sé vittima di divisioni e lacerata dal covid-19, si sta concentrando di nuovo sui suoi confini, che stava dimenticando, e si trova così a dover affrontare una situazione di tensione tra ovest ed est a cui non era preparata.

In questo momento in Russia è in corso anche un altro attacco, stavolta diretto non allo spazio, ma al tempo. La procura generale della Federazione Russa ha chiesto la chiusura di Memorial, la più antica, autorevole e influente organizzazione della società civile russa.

Ci sono due Memorial: l’associazione storico-educativa, impegnata a preservare la memoria delle repressioni staliniane e di altri crimini del periodo sovietico; e il centro per i diritti umani, che indaga su violazioni e abusi nella Russia di oggi, soprattutto quelli commessi durante le due guerre cecene: esecuzioni sommarie, torture, rapimenti, pulizia etnica.

Gabriella Giandelli

Creata nel 1989, Memorial è diventata la principale garanzia perché non tornino le repressioni sovietiche del passato ed è la più importante iniziativa civile russa, impegnata a tramandare la memoria delle vittime di quelle violenze. L’esistenza stessa di Memorial è stata percepita da molti come un segnale, la dimostrazione che le pagine della storia sovietica erano chiuse per sempre.

Tuttavia, in Russia Memorial è stata dichiarata “agente straniero” già da diversi anni (il centro per i diritti umani dal 2013, l’associazione dal 2016).

Questa formula è mutuata dal diritto degli Stati Uniti, ma nel contesto russo ha una connotazione storicamente repressiva: molte vittime del tempo di Stalin erano accusate di essere agenti dei servizi di spionaggio stranieri e di forze politiche ostili all’Unione.

La corte suprema russa ha accusato Memorial proprio di violazione sistematica della normativa sugli agenti stranieri, che è costruita in modo tale da essere praticamente impossibile da rispettare: chi è accusato deve apporre la dicitura “agente straniero” su tutti i suoi materiali, i testi, le lettere e le pagine web.

Memorial è nata negli ultimi anni della perestrojka. E la storia della sua creazione nasconde anche un significato sociale e simbolico: mostra tutte le opportunità mancate di quell’epoca.

La perestrojka e la glasnost svelarono l’esigenza, che già da tempo esisteva nella società sovietica, di diffondere la verità sul passato e di restituire giustizia alle vittime dei crimini sovietici.

Tuttavia, il Partito comunista dell’Unione Sovietica e il Kgb si opponevano all’emergere d’iniziative indipendenti su questi temi e non desideravano che il processo diventasse incontrollabile, perciò giocarono d’anticipo, impegnandosi ad arginarne il campo d’azione. Riconobbero l’esistenza di un gran numero di vittime, la necessità di rendere pubblici i loro nomi ed erigere monumenti in loro onore, ma contemporaneamente fecero in modo di mantenere il discorso solo sui crimini sovietici del periodo staliniano. Non sollevarono mai la questione della responsabilità legale degli organizzatori e degli esecutori dei crimini di massa sovietici. Ciò di cui erano preoccupati era essenzialmente la segretezza degli archivi del Kgb.

Dopo la creazione di Memorial si aprirono due strade: tra i suoi fondatori erano confluite anche persone che volevano stabilire una linea radicale e conflittuale, contrarie a collaborare direttamente con le autorità, favorevoli allo scioglimento del Kgb, al libero accesso ai suoi archivi, a perseguire penalmente i responsabili e alla politicizzazione del movimento. Ma è proprio il libero accesso agli archivi, come dimostra la storia di molti paesi post-sovietici, la chiave per ripristinare lo stato di diritto e per identificare ed escludere dalla politica chi ha collaborato con i servizi segreti, un processo che ha preso il nome di lju­stratsija.

In Russia non poteva che vincere la linea moderata: ci si sarebbe concentrati sugli aspetti commemorativi, sulla “rielaborazione del passato” secondo una versione mutilata e limitata, sulla ricerca storica e sull’istruzione, senza impegnarsi in politica. È interessante notare che questa linea non è stata cambiata nemmeno dopo il 1991, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando si aprirono più opportunità sociali e politiche, i sondaggi dimostravano l’esistenza di una significativa disponibilità ad accoglierle da parte della società e c’era il desiderio di punire legalmente i colpevoli e di fare davvero i conti con il passato.

Nell’ex Repubblica Democratica Tedesca (o Germania Est) furono soprattutto i dissidenti, e non i politici della Germania Ovest, a battersi per l’apertura degli archivi della Stasi, il ministero per la sicurezza statale, compiere il processo di ljustratsija e condannare penalmente i responsabili delle violazioni dei diritti umani. Questo esempio mostra quanto possano essere imponenti e decisivi gli atti di “elaborazione del passato” se si trasformano in azioni politiche.

In trent’anni Memorial ha compiuto un lavoro colossale per tutelare la memoria delle vittime: le sue banche dati digitali, che contengono più di tre milioni di nomi, sono diventate un fantastico strumento per semplificare le ricerche negli archivi e riavvicinare il passato al presente. Poi Memorial ha promosso la celebrazione di cerimonie civili come quella del 30 ottobre, la giornata della memoria delle vittime della repressione politica, il più importante evento politico e culturale che oggi unisce la società civile russa.

Tuttavia, le principali opportunità di cambiamento, che avrebbero potuto far emergere una cultura politica democratica in Russia e favorire l’alternanza al potere, fallirono miseramente tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta, quando la società civile di fatto rinunciò a politicizzare e a dare seguito legale alla rielaborazione del passato, com’era invece successo nella Germania Est. Se quel tentativo non fosse stato abbandonato, forse le vecchie élite sovietiche e gli organi di sicurezza dello stato non avrebbero ripreso il potere.

Gabriella Giandelli

Memorial disturba l’attuale regime autoritario russo non in quanto potenziale protagonista di cambiamenti politici, ma perché oggi al governo serve una visione completamente diversa del passato sovietico, come strumento di legittimazione del regime di Vladimir Putin.

Non sarebbe esagerato dire che nella Russia di oggi il passato è una questione politica.

L’eredità simbolica del passato viene strumentalizzata per consolidare la nazione, per creare non una maggioranza politica (in Russia non ci sono libere elezioni), bensì una maggioranza ideologizzata, indottrinata e, in questo senso, apolitica.

Ma torniamo alla frase principale dell’accordo di Belaveža: “L’Unione Sovietica come soggetto di diritto internazionale e come realtà geopolitica ha cessato di esistere”. Questa formulazione ammette l’esistenza di una terza realtà dell’Urss, non legale o geopolitica, ma simbolica, costituita da oggetti culturali resi ideologicamente sacri. Una realtà non regolamentata.

L’Unione Sovietica è stata un’incredibile produttrice di simboli, probabilmente l’unico settore in cui è sempre riuscita a superare gli obiettivi di produzione.

Monumenti, strutture architettoniche, canzoni, film, libri, cerimonie solenni: l’Urss ne ha prodotti in massa, creando un orizzonte culturale chiuso, composto da culti che si completavano a vicenda. Il culto della rivoluzione, il culto del socialismo, il culto della vittoria nella seconda guerra mondiale: la religione sovietica era politeista, composta da molti altari e pantheon di eroi.

Ma verso la fine degli anni ottanta tutto questo complesso aveva smesso di essere nutrito, andava scarnificandosi giorno dopo giorno. Finché è crollato. È morto.

Si può anche supporre che l’Unione Sovietica sia caduta non semplicemente a causa dell’erosione politica. È crollata sotto il peso eccessivo di un carico simbolico che gravava sulla coscienza individuale e collettiva. L’esperienza viva dei simboli come risorsa psichica si era ormai esaurita e si era trasformata nel suo contrario: in cinismo. Gli eroi dei testi un tempo considerati sacri diventavano protagonisti delle barzellette, l’ultima fede nel futuristico progetto socialista era morta nelle lunghe file fuori dei negozi, che negli anni ottanta erano all’ordine del giorno in ogni città sovietica.

Oggi però, a trent’anni di distanza, l’apparato simbolico sovietico sta vivendo una rinascita, postmoderna.

Sugli scaffali dei negozi russi sono apparsi prodotti con confezioni che rimandano agli anni dell’Urss, con nostalgia per la fantomatica qualità del cibo sovietico. Il culto della “grande guerra patriottica” è diventato la principale giustificazione della politica estera aggressiva e militarista di Mosca, una fonte di perversa morale pubblica che glorifica il diritto dei forti. È ricreato il pantheon degli eroi sovietici, le cui gesta, reali o inventate dagli agenti della propaganda, dovrebbero rendere il passato sacro, immutabile e indiscutibile.

Allo stesso tempo, il dibattito storico è criminalizzato: alcuni argomenti, come la seconda guerra mondiale, stanno diventando tabù, dominio commemorativo dello stato.

Perché sta succedendo?

Ci troviamo davanti a un paradosso interessante in cui confluiscono tempo, storia e politica.

Il progetto sovietico (in ciascuna delle epoche della sua esistenza) respingeva il passato e si legittimava attraverso il futuro e un obiettivo avveniristico e profetico: l’edificazione del comu­nismo.

Il passato forniva la spiegazione per tutti i mali e i problemi del presente sovietico, di ogni presente; il futuro, invece, era il serbatoio di tutto il bene, che sembrava già realizzato, già avvenuto.

Questa legittimazione attraverso il futuro (“Le cose più importanti succederanno nel futuro”) durò fino alla fine dell’Unione Sovietica. La Russia di Putin ha invece un rapporto completamente diverso con il tempo. La Russia di Putin è un progetto conser­vatore.

Del futuro non si parla con chiarezza: non è definito e non è desiderato. È un insieme di cose che sarebbe meglio evitare; porta la corruzione, l’epidemia del liberalismo, il virus dei diritti umani. Il futuro manca totalmente di tratti positivi e non lo si vuole raggiungere, non si vuole vivere nel tempo.

Al contrario, l’era sovietica acquisisce sempre di più le fattezze di un’età dell’oro, un periodo di grandi vittorie, in cui l’Urss aveva un ruolo di primo piano nel definire gli equilibri geopolitici. Non è un caso che Vladimir Putin una volta abbia definito il crollo dell’Unione Sovietica come “la più grande catastrofe geo­politica del ventesimo secolo”.

In questa logica, qualsiasi ex repubblica dell’Urss che costruisce un discorso storico a sé, che parla di occupazione sovietica o di crimini, che ha condotto o conduce un processo per liberarsi del comunismo, come l’Ucraina, in cui sono stati abbattuti migliaia di monumenti a Lenin, si ritrova inevitabilmente a essere considerata nemica della Russia. Ma non per rispetto a Lenin, ai politici russi non importa niente di lui. L’obiettivo è un altro: l’aspirazione a uno spazio simbolico unito, all’assenza di ogni critica storica che rischi d’indebolire o minacciare l’impostazione del discorso pubblico sull’autoritarismo, diventato ormai uno strumento politico interno ed esterno.

Probabilmente avremo a che fare ancora per decenni con la post-esistenza dell’Unione Sovietica, con il lungo crollo dell’impero nelle nostre teste e non solo sulla mappa geografica.

Negli anni novanta i riformatori dell’economia speravano che sarebbe bastato il libero mercato per portare la Russia verso la democrazia e creare una società libera. Invece è nata un’economia semifeudale, in cui il diritto alla proprietà privata può essere negato in qualsiasi momento dalle autorità, prima controllate dagli oligarchi e poi dai servizi di sicurezza. Autorità che hanno privatizzato il potere statale. È qui che nasce il loro bisogno di creare la nostalgia politica dell’Urss, il ritorno ai simboli sovietici: questi elementi servono infatti per plasmare una maggioranza filogovernativa e manipolare politicamente gli stati vicini.

Inoltre la storia del crollo dell’Unione Sovietica mostra che certi cambiamenti, anche se giganteschi, non garantiscono di per sé un mutamento del corso politico. Quello che serve è un complesso di misure per “una giustizia di transizione” che, trent’anni fa, la società civile russa non ha avuto il coraggio di pre­tendere.

Chiedersi se avrà il coraggio di farlo in futuro rimane una domanda aperta, perché in Russia la lezione del 1991 non è ancora stata imparata. ◆ ab

Sergej Lebedev

È uno scrittore russo. Questo articolo è uscito sul settimanale danese Weekendavisen con il titolo Fremtiden er nostalgisk. Fa parte di una serie sui trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica realizzata in collaborazione con Voxeurop.

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Questo articolo è uscito sul numero 1447 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati