Cultura Suoni
Pompeii
Cate Le Bon (mexican summer)

Il mio viaggio immaginario ascoltando il nuovo disco di Cate Le Bon potrebbe svolgersi così: sognare sulla riviera francese, finire in un lurido albergo abbandonato e alla fine, farmi avvolgere da lenzuola profumate mentre le ceneri del Vesuvio mi sommergono rendendomi immortale. Visioni fredde e remote, che risultano anche intime perché nascono da una memoria collettiva condivisa. L’ultimo lavoro dell’artista gallese esiste grazie a questo antagonismo tra lo svelare e il nascondere, che crea una strana alchimia. Da Reward del 2019, Le Bon ha lasciato respirare di più le sue composizioni; si è trasformata in produttrice e arrangiatrice per non cedere a compromessi. Il suono di Pompeii è ironico ed evanescente. In pezzi come Harbour o Cry me old trouble Le Bon salda la loro sfarzosità alle melodie esitanti che li animano. Il risultato finale è una musica in totale divenire, una ricerca costante di uno stato mentale per autoaffermarsi. Paragonate a Reward, queste canzoni riempiono più spazio ma restano in qualche modo dei pezzi d’accompagnamento, uniti da una dedizione reverenziale all’obliquo come diretto, agli spasmi come forma di controllo.

Stephen Axeman,
Under the Radar

Time skiffs

Negli ultimi dieci anni, attraverso i loro progetti solisti gli Animal Collective hanno continuato a ritagliarsi strade d’avanguardia all’interno del loro percorso pop. Il primo disco insieme dal 2016, intitolato Time skiffs, vede gli sperimentatori di Baltimora deporre le loro credenziali eclettiche. Dopo Painting with (2016) e l’album visuale Tangerine reef (2018), realizzato senza Panda Bear, questo undicesimo disco presenta una serie febbrile di paesaggi sonori accompagnati da testi sotto forma di flusso di coscienza, un po’ come succedeva all’epoca di Strawberry jam e Merriweather post pavilion. Ancora una volta i Beach Boys s’incontrano con i sintetizzatori in brani come Walker e Dragon slayer, mentre inflessioni prog s’insinuano in Passer-by e il Brian Eno di Another green world affiora nel singolo Prester John. Time skiffs ha fatto risorgere l’istinto libero degli Animal Collective.

C. Hamilton-Peach,
The Line of Best Fit

Lucifer on the sofa
Spoon (Oliver Halfin)

Tra le band che possono essere considerate parte della coorte indie rock statunitense di prima o seconda generazione, ci sono molti gruppi (Pavement, Modest Mouse, White Stripes, Death Cab for Cutie) che non sono riusciti a reggere il peso degli anni o hanno limitato molto la produzione. I texani Spoon invece sono ancora qui, in pieno controllo dello stile che li ha contraddistinti nei loro nove album precedenti. Ma se Hot thoughts (2017) era un disco costruito sui sintetizzatori, Lucifer on the sofa è aggressivo e ricco di chitarre. Il disco comincia con Held, una cover degli Smog di Bill Callahan, e si chiude con la titletrack, tra i sassofoni stralunati che accompagnano il diario di un viaggio notturno. In The hardest cut dei vicini ficcanaso bussano alla porta del narratore, mentre la chitarra del leader Britt Daniel e la batteria di Jim Eno colpiscono forte come non mai. Gli altri brani del disco sono meno cupi, con un volume più alto e diversi ritornelli da ricordare. Il secondo singolo Wild cavalca una spirale di chitarre e pianoforte, mentre la ballata Astral jacket è guidata da un piano elettrico e da chitarre acustiche, con una melodia memorabile. Gli Spoon si avvicinano ai trent’anni di carriera. E a dire la verità se la passano proprio bene.

Chad Swiatecki,
The Austin Chronicle

Bach: Suite inglesi n. 1-3, concerto BWV 1052

Qualche mese fa Vladimir Ashkenazy, 84 anni, ha annunciato il suo ritiro. Avrebbe potuto risparmiarsi anche questo disco. Il suo recente album delle Suite francesi aveva un suono spartano, secchissimo, ma si poteva pensare che fosse una scelta estetica. Ora ecco le Suite inglesi, tecnicamente più esigenti, per toglierci ogni illusione: le dita del maestro non sono più quelle di una volta. Era un mago della sonorità e delle mezze tinte, ora il suo tocco è di un’aggressività sempre tesa, ci sono errori del testo, le mani non sono mai insieme, ornamenti e tempi sono improponibili: uno dei più grandi pianisti del novecento è diventato irriconoscibile. La registrazione del concerto invece è del 1965, e ci permette di ritrovare l’artista che conoscevamo: rigore senza durezza, eleganza del suono, calcolo millimetrico del tocco.

Paul de Louit,
Diapason

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1447 - 11 febbraio 2022

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