Cominciamo da una piccola ma fondamentale verità: se davvero il turbamento che il cosiddetto utero in affitto suscita “non ha nulla a che fare con l’omosessualità o l’eterosessualità” (come ha scritto, tra gli altri, Beppe Grillo), come mai è emerso solo ora, di fronte a singoli casi di maternità surrogata cui sono ricorse coppie omosessuali, e non davanti alla massa di casi che ha riguardato e ancora riguarda un numero ben più ampio di coppie eterosessuali?
Perché tante straziate riflessioni sullo scarso valore attribuito a creature viventi non ci hanno travolto altre volte, per esempio di fronte alle stragi di bambini lungo i nostri confini, allo sfruttamento del lavoro minorile che arricchisce i nostri outlet, agli orfani in vendita nel cuore delle nostre città o almeno di fronte al ricorso a tutte le tecniche di fecondazioni assistite cui ricorrono da decenni – e, va detto, comprensibilmente – coppie di tutti i tipi, le appartenenze sociali, le patologie? Perché questo improvviso tormento? La risposta possibile è una sola: l’omofobia.
Affermarlo non mira a infierire sull’ipocrisia di singoli pensatori e di intere istituzioni che si ergono a difesa di bambini su cui hanno tollerato abusi di ogni tipo, ma a compiere un’operazione di verità e di progresso che riguarda tutti. La rivoluzione femminista ha cominciato davvero a vincere (per quanto parzialmente e chissà quanto provvisoriamente) quando ha smascherato il maschilismo non solo esibito e rivendicato ma anche quello, molto più diffuso, che si annidava dietro modi di dire, motti di spirito, forme di pensiero che si presumevano innocenti. Allo stesso modo ci aiuterebbe riconoscere l’omofobia dove tenta di nascondersi: dietro certi discorsi apparentemente neutrali, dietro tante fervide elucubrazioni umanitarie.
In questi anni, quando la pratica non si è manifestata così vistosamente legata alle coppie omosessuali, tutto questo tormento non si è provato
A questo punto potrei anche io confessare che la maternità surrogata suscita dubbi, che le sue modalità provocano resistenze, che le relazioni che mette in campo non appaiono abbastanza trasparenti – e che d’altro canto quello che ho letto e ascoltato mi sembra persuasivo.
Ma è più importante ricordare come in tutti questi anni, quando la pratica non si è manifestata così vistosamente legata alle coppie omosessuali, tutto questo tormento non si è provato, tutto questo tempo dedicato a discutere la questione non si è trovato. E allora, a meno di non riconoscere pubblicamente agli omosessuali lo straordinario merito di aver palesato all’intera opinione pubblica questa difficile realtà, di averla strappata al suo silenzioso automatismo ginecologico, di aver generato una discussione così appassionata e partecipata, una spiegazione dobbiamo darcela. Siccome di tutta questa gratitudine non c’è la minima traccia, la ragione è una sola: l’omofobia.
Se dopo i fatti di Colonia abbiamo visto convertirsi al valore dell’inviolabilità del corpo femminile perfino sottoculture finora chiassosamente poco sensibili al tema, di fronte alle transazioni finanziarie connesse alla maternità surrogata anche i liberisti più integri sono apparsi come accalorati anticapitalisti, scoprendo di colpo che il denaro non può comprare ogni cosa. Tutti a occupare Wall street, allora? Ma quando mai!
Si tratta di posizioni e affermazioni compiute in nome dell’eccezionalità della questione che provoca turbamento e, va ripetuto, non di fronte a immensi fenomeni consolidati ma a una nascente, problematica possibilità. Ma questa sensazione di eccezionalità non è semplice doppiopesismo, ignoranza o ipocrisia: è appunto omofobia. Solo riconoscendola ovunque si manifesti, possiamo guarirne – ammesso che voglia farlo una società che si rifiuta perfino di renderla sanzionabile con una legge specifica. Eppure, paradossalmente, la discussione in corso e perfino certe sue becere tonalità possono aiutarci.
La superiorità della famiglia naturale e della sua esclusiva capacità di procreare sono esibiti come un’arma impropria
È un lavoro lungo, come in passato ogni volta che è stato chiesto non di cambiare un’idea o un regime ma nientemeno che la mentalità. Occorre molta pazienza (la pazienza dei laici, che hanno atteso secoli, pagando anche qualche prezzo non irrilevante, perché si affermassero piccole e grandi verità) ma può servire anche una certa asprezza. È necessaria la misura e va apprezzato ogni progresso possibile (come quello della nuova legge sulle unioni civili, per essere chiari) ma non bisogna ritrarsi di fronte ad argomenti che possono apparire provocatori o politicamente scorretti.
Un esempio? Vogliamo, di fronte a tante banalizzazioni sulle famiglie naturali, affrontare il fatto che – secondo le poche ipotesi statistiche disponibili – il 10 per cento dei bambini non è effettivamente (o, come si dice in modo tassativo, biologicamente) figlio di quello che si ritiene suo padre? Sono note queste cifre? Cambiano qualcosa? Forse non molto, se riteniamo che effettivamente vale meno di affettivamente (un terribile caso di cronaca italiana ha recentemente materializzato questo sentimento). La possibilità che da qui nasca la tentazione di screening di massa del dna fa spavento: l’effetto non sarebbe tanto stabilire la sicurezza della paternità quanto demolire la libertà delle donne.
È tutta una sfera che andrebbe trattata con tale attenzione da meritare, piuttosto, il silenzio. Perché qui si tocca il cuore più faticoso e meraviglioso delle relazioni umane, una bolla di intimità e soggettività che nessuna polemica giornalistica o articolazione biopolitica dovrebbe violare. Però certo, visto che la certezza, l’affidabilità, la superiorità della famiglia naturale e della sua esclusiva e imprescindibile capacità di procreare (a proposito, cosa accadrà? verrà proibito il matrimonio tra allegri sessantenni?) sono esibiti come un’arma impropria, qualche risposta realistica anche se lacerante può essere utile. Non per vendicarsi di un continuo ricatto sociale e sentimentale ma per aprire una riflessione vera, per indicare un cammino. Che del resto è appena cominciato.
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