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Erdoğan sfida gli alleati occidentali per nascondere i suoi errori

Nel quartiere di Eminönü a Istanbul, Turchia, 15 ottobre 2021. (Moe Zoyari, Bloomberg/Getty Images)

Con alleati come questi, chi ha bisogno di nemici? Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ci ha abituati alle sue uscite provocatorie, come quando ha messo in dubbio la sanità mentale del presidente francese Emmanuel Macron.

Ora però sembra essersi superato, annunciando pubblicamente l’intenzione di espellere dieci ambasciatori da Ankara, tra cui quelli di Stati Uniti, Francia e Germania, ovvero i principali partner della Turchia. Sette dei dieci ambasciatori in questione rappresentano paesi della Nato, l’alleanza militare di cui la Turchia fa parte. È un fatto senza precedenti.

Il “crimine” di cui sono accusati gli ambasciatori è quello di aver firmato, il 18 ottobre, una dichiarazione con cui si chiede ad Ankara di liberare un noto prigioniero politico, Osman Kavala, leader della società civile detenuto da quattro anni nonostante un’assoluzione e una serie di sentenze della giustizia internazionale. L’iniziativa collettiva degli alleati della Turchia ha scatenato la collera di Erdoğan.

La rabbia del presidente turco ha due motivazioni distinte, una internazionale e l’altra interna. La prima è legata all’idea di Erdoğan secondo cui la Turchia è diventata una potenza che deve essere rispettata in quanto tale. Ankara non accetta più lezioni morali e paternalistiche da parte dagli occidentali sui diritti umani. “Impareranno a conoscere la Turchia”, ha dichiarato Erdoğan alla folla per giustificare la sua decisione.

La lira turca è in caduta libera a causa della politica monetaria erratica del governo

Il problema è che su questo tema Erdoğan non ha la coscienza pulita. Il caso di Kavala è emblematico di una macchina repressiva che ha ignorato ogni limite dopo il fallito colpo di stato del 2016. Kavala, imprenditore e filantropo, è accusato di sovversione, ma nemmeno la giustizia asservita al regime riesce a dimostrare la fondatezza dell’accusa. Fatto ancora più imbarazzante, nel dicembre 2019 la corte europea dei diritti umani, nominata dal Consiglio d’Europa di cui fa parte anche la Turchia, ha chiesto la “liberazione immediata” di Kavala. All’inizio di ottobre una nuova udienza di un tribunale turco ha negato la libertà al prigioniero, spingendo gli ambasciatori a intervenire.

Sul fronte interno, invece, Erdoğan deve affrontare una situazione economica preoccupante. La lira turca è in caduta libera a causa della politica monetaria del governo. L’inflazione è ripartita a grande velocità, mentre la popolazione vede ridursi il suo potere d’acquisto. In quest’ottica non c’è niente di meglio di un capro espiatorio straniero da accusare di complotti contro la Turchia.

È una manovra classica degli uomini politici in difficoltà. Il partito di Erdoğan ha perso i comuni di Istanbul e Ankara a beneficio dell’opposizione e sa benissimo che le prossime elezioni generali, in programma nel 2023, saranno combattute. Per questo continua a gettare benzina sul fuoco del nazionalismo, a rischio di tirarsi la zappa sui piedi provocando una crisi inutile con paesi che tra l’altro sono i principali partner economici della Turchia.

Erdoğan incarna a meraviglia una corrente che aspira a un mondo postoccidentale, e da anni si giostra in un pericoloso equilibrismo: un piede nella Nato, uno a Mosca e un terzo a Kabul o a Tripoli. Per farlo bisogna essere molto agili e molto abili.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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