12 dicembre 2016 17:11

È da poco sceso il sole e su fino al ventesimo piano cominciano a risuonare le colonne dei clacson isterici per il calcio d’inizio del superclásico. Jorge Miyagui si muove freneticamente nell’odore intenso delle vernici. Passa dall’uno all’altro dei suoi quadri, mélange militanti di simboli precolombiani e manga giapponesi, tradizione cattolica e cultura pop come i putti con maschere di Guy Fawkes.

D’improvviso si ferma e guarda fuori delle finestre: “Questa città di notte sembra New York, di giorno torna a essere Lima”, dice con una venatura strana nella voce.

Alziamo anche noi lo sguardo. Tanti grattacieli si stagliano all’orizzonte, un reticolo di luci nell’aria perennemente grigia e ora buia della metropoli. Sono gli hotel lussuosi di Miraflores, dove a quest’ora cominciano ad accalcarsi i turisti occidentali, e più a est le torri di San Isidro, dove si fanno gli affari, sovrastate dai 140 metri del Banco de la Nación. L’edificio più alto dell’intero paese, ma ancora per poco.

Solo sfiorato dalla crisi economica globale, il Perù oggi ha un reddito del 125 per cento più alto rispetto a quello di quindici anni fa, pari a una crescita media annua del 5,6 per cento. Sulle gambe di questa corsa senza precedenti, nei prossimi trenta mesi a Lima, che produce da sola il 49 per cento del pil nazionale, saranno inaugurati 19 nuovi grattacieli tra i 75 e i 220 metri, per investimenti che superano il miliardo di dollari statunitensi.

Quasi ventimila persone vivono senza luce e servizi igienici adeguati. Anche l’acqua potabile manca

Si misurano in verticale le ambizioni del Perù moderno e, da questa piccola mansarda, possiamo coglierne con chiarezza i contorni.

Tuttavia, quando il sole restituisce i colori alla cartolina, il giorno rivela allo sguardo tutto ciò che ne è stato escluso: sono le catapecchie variopinte che sorgono nelle sterminate periferie, inerpicate sulle pendici delle colline che contornano il centro, casa dei due milioni di disoccupati e sottoccupati della città, di più di un milione di poveri e indigenti, gli emarginati, lasciati fuori dalla distribuzione di una ricchezza che finisce per più della metà nelle mani dei più ricchi – l’80 per cento della popolazione peruviana si spartisce meno della metà del reddito dell’intero paese.

Per arrivare a Pamplona Alta, appendice del quartiere operaio di San Juan de Miraflores, bisogna prendere un autobus, un colectivo e un mototaxi, finché le strade diventano tracciati polverosi nella terra rossa del cerro San Francisco. Il colle è un fazzoletto di terreni occupati, disordinate invasiónes popolari generate nel corso dei decenni dalla pressione migratoria sulla città e dalle condizioni economiche precarie.

Quasi ventimila persone vivono senza luce e servizi igienici adeguati. Anche l’acqua potabile manca, e viene venduta per tre soles peruviani dalle poche autocisterne che si avventurano su queste coste, a un prezzo dieci volte più alto di quello pagato dai limeñi collegati alle reti idriche. A fine mese, l’acqua assorbe anche più di un terzo del budget di famiglie che guadagnano in media tra i 250 e i 400 soles – l’equivalente di 80-120 dollari statunitensi.

Il muro della vergogna
A Pamplona Alta si rovesciano i significati della verticalità relativi alla Lima che raccoglie i frutti della crescita economica. Più si sale verso la vetta di Vista Hermosa più gli insediamenti si fanno recenti e le condizioni di vita estreme. Tra le capanne in pietra e lamiera battute dal vento vige un complesso equilibrio di sopravvivenza, il cui peso ricade interamente sulle spalle delle donne: sono loro che curano i figli e gli anziani, che si procurano il cibo e l’acqua scarpinando per chilometri sui terreni scoscesi.

In cima, queste abitazioni precarie sorgono a ridosso di un muro alto tre metri e lungo dieci chilometri, che le sovrasta e rende impossibile valicare il poggio. “Abbiamo cominciato a costruire il muro negli anni ottanta, durante le prime occupazioni del colle”, spiega l’artista Elke McDonald, che vive sul versante opposto. “Pochi anni fa i nostri vicini sono arrivati fino alla cima e potevamo vedere i loro tetti: per evitare sconfinamenti abbiamo pensato che fosse arrivato il momento di finire l’opera”.

Il quartiere operaio di San Juan de Miraflores, Lima, il 4 aprile 2016. (Mariana Bazo, Reuters/Contrasto)

È stato definito il “muro della vergogna”, perché separa i poveri di Vista Hermosa dai ricchi abitanti di Las Casuarinas, la più esclusiva gated community di Lima e forse dell’intero Perù, dove si vive in ville con piscina dal valore di milioni di dollari. “Fin dall’inizio abbiamo voluto creare un’area dove vivere in pace, con grandi giardini e solo siepi a separarli”, racconta McDonald, residente di Las Casuarinas dal 1958. “Oggi possiamo camminare senza paura di essere assaliti, i bambini vanno in bicicletta e nessuno gliela ruba, dormiamo a porte aperte sicuri che nessuno entrerà in casa nostra!”.

Ognuna delle trecento famiglie di Las Casuarinas investe 320 soles al mese, quanto un intero stipendio dall’altra parte del muro, per mantenere un apparato di sicurezza privato che tenga fuori i visitatori indesiderati – gli abitanti poveri delle zone circostanti. “Ma noi difendiamo solo la nostra proprietà”, ribatte McDonald, che accetta di rispondere alle nostre domande “per fare chiarezza, e mettere le cose nella giusta prospettiva”.

Per affrontare il problema delle diseguaglianze e frenare la trasmissione della povertà di generazione in generazione, nel 2005 il governo peruviano ha lanciato la versione nazionale dei conditional cash transfer, qui chiamati Juntos. Si tratta di un “versamento in contanti condizionato” che prevede pagamenti mensili di cento soles in favore di genitori poveri, perlopiù madri. Per non perdere il sussidio, le donne devono assicurarsi che i figli frequentino l’85 per cento delle lezioni scolastiche in un anno e che si sottopongano regolarmente a controlli medici e nutrizionali. “In paesi come il Brasile, i conditional cash transfer sono stati importanti nell’accesso all’istruzione e nella conseguente riduzione delle disuguaglianze”, spiega dal suo ufficio di Washington Branko Milanović, a lungo capo economista alla Banca mondiale.

Le donne peruviane impiegano la maggior parte delle loro giornate impegnate in lavori domestici non retribuiti

Il cuore dell’attività di Juntos pulsa ad Ayacucho, regione meridionale del Perù dove i tassi di povertà superano abitualmente il 60 per cento e arrivano a punte del 95. È qui che undici anni fa sono stati messi in opera i progetti pilota iniziali, prima che il programma fosse gradualmente esteso a tutta la nazione.

Il viaggio da Lima dura più di dieci ore, sull’unica strada che collega queste remote zone rurali alla capitale. Costruita meno di vent’anni fa, la vía de Los Libertadores ha rotto un isolamento secolare e oggi la percorrono madri vestite in abiti tradizionali e lavoratori a cottimo di ritorno dopo giorni lontano da casa.

Fuori dai finestrini scorrono impervi passaggi andini, cangianti paesaggi che, dietro ogni tornante, sembrano nascondere interi nuovi ecosistemi – un idillio rotto solo dai ricorrenti slogan “Keiko presidente”, epigrafi delle elezioni nazionali che di recente hanno dato la maggioranza in parlamento a Keiko Fujimori, figlia dell’ex autocrate Alberto, presidente del Perù dal 1990 al 2000.

Una volta arrivati incontriamo Jorge Huamantinco, responsabile locale del programma. “Gestiamo quasi 49mila beneficiari, oltre 700mila a livello nazionale, ma all’inizio abbiamo viaggiato a cavallo e camminato fino alle aree più sperdute della selva amazzonica, dove le comunità non parlano castigliano ma solo quechua e ci cacciavano, perché non credevano che il governo potesse fare qualcosa per loro”, ricorda e aggiunge con orgoglio: “Oggi, ci sono ragazzi di quelle stesse zone che hanno finito l’università e trovato un lavoro ben pagato”.

Mentre parliamo una giovane donna entra negli uffici, guardandosi intorno incerta. Scopriamo che suo figlio ha una grave disabilità e non ci sono scuole attrezzate per accoglierlo: sta quindi perdendo molte lezioni e questo potrebbe portare alla revoca del sussidio. Marycruz Paredes, incaricata delle relazioni con i beneficiari, la ascolta attenta e le parla con tono gentile, fino a tranquillizzarla. “Quando vengono qui mi parlano di qualsiasi cosa: dai figli che non hanno voglia di studiare ai problemi con il marito su chi deve gestire il denaro”, dirà più tardi.

Secondo Huamantinco, “le madri rappresentano il 99,9 per cento dei partecipanti al programma, perché loro passano tutto il giorno con i figli e quindi conoscono meglio i loro bisogni, mentre i mariti lavorano”. Le statistiche rivelano che le donne peruviane impiegano la maggior parte delle loro giornate impegnate in lavori domestici non retribuiti.

Queste attività occupano mediamente 40 ore alla settimana, così che non rimane molto tempo per trovare un’occupazione pagata: una situazione che rende intere famiglie dipendenti dai guadagni irregolari, che spesso gli uomini spendono prima di varcare la soglia di casa. “Ma offrendo sussidi direttamente alle madri noi rafforziamo le donne in comunità dove fino a poco tempo fa era impensabile che queste potessero avere un reddito”, chiosa Huamantinco.

Una morale conservatrice
Non tutti sono però pronti a sottoscrivere un’immagine così ottimistica. “Questi programmi aiutano davvero le donne più povere a uscire dalla loro condizione di vulnerabilità?”, si chiede Maxine Molyneux, docente di sociologia allo University College London. “La risposta è no: un piccolo stipendio in cambio di maggiori responsabilità domestiche non fa altro che confermare il loro stato di dipendenza economica e, al tempo stesso, rafforza la divisione di genere del lavoro, che assegna alle donne la responsabilità quasi esclusiva sui figli”.

Nel mondo dei conditional cash transfer le donne beneficiarie sono viste attraverso la lente di una morale conservatrice, che le fissa prima di tutto nel ruolo di madri e finisce per spogliarle dell’autonomia di cittadine nel momento in cui sono trasformate in strumenti utili ad aumentare l’efficacia delle politiche governative. Il denaro offerto non serve così a sottrarre le beneficiarie dalla povertà ma a disciplinare il loro il comportamento fino a renderlo virtuoso secondo i dettami della razionalità economica, incentivando investimenti sulla salute e sul capitale umano dei figli.

Negli ultimi anni alcune voci critiche – tra cui quella del premio Nobel per l’economia Angus Deaton – hanno sottolineato che, nonostante gli economisti abbiano evidenziato risultati positivi dei conditional cash transfer nel breve periodo, non sappiamo molto sulla loro capacità di ridurre la povertà in via permanente. Tuttavia questi programmi, complessivamente poco costosi per le finanze pubbliche (cifre tra lo 0,04 e lo 0,8 per cento del pil), continuano a essere molto popolari: oggi nella sola America Latina si contano 129 milioni di beneficiari in 18 diversi paesi.

La fila per ricevere il cibo a Pamplona Alta, nella periferia di Lima, agosto 2015. (Mariana Bazo, Reuters/Contrasto)

Secondo Molyneux, “un numero sempre maggiore di paesi con livelli estremi di disuguaglianza sceglie questi programmi invece di introdurre una tassazione più progressiva e affrontare il deficit di offerta scolastica e sanitaria”. Così i conditional cash transfer, che trovano il loro antesignano nel subsidio único familiar introdotto nel 1981 nel Cile di Pinochet, decretano lo spostamento del welfare dei paesi emergenti da strutture basate su princìpi universalistici a “sistemi di sicurezza sociale stratificati, che differenziano la qualità dei servizi in base alle capacità di spesa”.

Usciti dalla sede di Juntos camminiamo adagio per Ayacucho, rallentati dall’aria rarefatta delle Ande, incontrando un Perù molto diverso da quello che prende forma nei tramonti di Lima. Un lungo murale sulla via per plaza de Armas ne illustra il peculiare mito delle origini, attorno alla chiave di volta rappresentata dall’arrivo dei conquistadores guidati da Pizarro, che misero a ferro e fuoco queste terre prima di scendere sulla costa a fondare la Ciudad de los Reyes, oggi Lima.

Negli anni peggiori l’esercito non si faceva scrupolo a giustiziare dieci campesinos pur di eliminare tre terroristi

L’arrivo degli europei è punto d’inizio di oltre cinque secoli di violenza, che trova una rappresentazione senza soluzione di continuità – dagli eccidi degli inca fino alle scene sanguinose della storia recente, con il conflitto lungo vent’anni, dal 1980 al 2000, tra l’esercito peruviano e le milizie di Sendero luminoso – gruppo rivoluzionario fondato in questa città dal professore maoista Abimael Guzmán.
Tra le scrostature, il murale lascia solo intuire le pagine più recenti, una tragedia che il resto del Perù ha faticosamente provato a rimuovere dal suo immaginario collettivo. Ma ad Ayacucho la memoria molti la coltivano in silenzio e la tiene in vita l’Asociación nacional de familiares de secuestrados, detenidos y desaparecido del Perú (Anfasep), un’associazione di campesinas guidate da Angélica Mendoza de Ascarza, di 86 anni.

Dal 2 luglio del 1983 mama Angélica, come tutti la chiamano affettuosamente, chiede di sapere cos’è successo a suo figlio Arquímedes, arrestato in quella notte dalle forze di sicurezza locali e mai tornato a casa. Ai cancelli delle stazioni di polizia, negli anni mama Angélica ha trovato attorno a sé molte altre donne in cerca di risposte sui loro familiari scomparsi. Il loro infaticabile e disperato impegno ha contribuito a spingere il governo peruviano a istituire nel 2001 la Comisión de la verdad y reconciliación, una commissione d’inchiesta per fare luce sui lunghi anni del conflitto civile.

“Il rapporto finale della commissione è il documento più importante della storia politica peruviana moderna”, ci aveva avvertito Jorge Myiagui: 69.280 vittime documentate (oltre 55mila delle quali proprio ad Ayacucho e nelle regioni limitrofe), almeno 15mila desaparecidos, per tre quarti civili, poveri e di etnia quechua – i discendenti dell’antica stirpe degli inca.

Oltre la metà delle vittime è attribuibile a Sendero luminoso, ma “negli anni peggiori, l’esercito non si faceva scrupolo a giustiziare dieci campesinos pur di eliminare tre terroristi”.

Il conflitto tra i senderisti e l’esercito causò almeno 500mila sfollati. Molti fuggirono a piedi, camminando per interi giorni sulle montagne fino ad arrivare a Lima: tuttora, quasi il 40 per cento dei 3,4 milioni di immigrati che vivono nella metropoli proviene da queste zone martoriate: Ayacucho, Junín, Apurímac, Huancavelica.

Secondo Miyagui, “la società peruviana contemporanea è una società postcoloniale e frutto di un conflitto. Nel nostro passato si ritrovano le radici di un razzismo che non è rivolto verso una minoranza, ma contro la maggioranza della popolazione, cioè i peruviani di origine indigena”.

Esistenze semplici e violate
Tra chi è fuggito al conflitto, pochi hanno trovato nella città dei conquistadores una vita migliore, per lo stigma di una pelle e di una lingua che, agli occhi delle élite inurbate, significavano povertà e terrorismo. Queste paure sono state vinte erigendo muri, dietro i quali ancora oggi vivono in povertà i vulnerabili, marginalizzati dalle ossessioni per la sicurezza e lasciati indietro dal progresso. Sono queste storie ad aggiungere un punto di domanda alle statistiche sui risultati del paese nella lotta alla povertà, troppe volte indistinguibile dalla lotta contro i poveri.

Saliamo per le scale spoglie del museo della memoria di Ayacucho e ci fermiamo di fronte alle vicende semplici di esistenze violate, che annodano in un filo rosso i segmenti scompigliati della storia di questo paese. A ridosso dell’ingresso, una parete raccoglie primi piani dei volti ormai anziani delle fondatrici dell’Anfasep: nuovi fiocchi neri appaiono giorno dopo giorno. Saranno in molte a non conoscere mai la verità sulla sorte dei loro familiari. Ma qui chi è morto si è solo sottratto all’inferno dei viventi.

È osservando queste espressioni scavate dalla fatica di una quotidiana sofferenza, così simili a quelle di tante persone incontrate lungo la strada, che credo di capire cosa c’era in quella venatura strana nella voce di Jorge Myiagui: un affetto profondo e un’indignazione nel petto, impossibile da mandare giù.

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