Il 18 aprile, mentre la polizia faceva irruzione nell’accampamento messo in piedi dai manifestanti alla Columbia university di New York, gli studenti di Yale, in Connecticut, seguivano minuto per minuto dagli smartphone quello che succedeva. Se i giovani a New York erano disposti a farsi arrestare, l’avrebbero fatto anche loro. La mattina dopo hanno montato le tende nel campus. In una videochiamata su Zoom lo stesso giorno, duecento ragazzi iscritti a vari atenei hanno parlato di come dare seguito alle proteste della Columbia. “Abbiamo discusso di come allargare la protesta ed esprimere la nostra solidarietà. Abbiamo immaginato cosa sarebbe successo se gli accampamenti si fossero moltiplicati ovunque”, dice Soph Askanase, una ragazza di ventun anni che studia al Barnard college, un istituto femminile collegato alla Columbia.

Nei giorni successivi è nato quello che gli storici hanno già definito uno dei movimenti studenteschi più importanti nella storia recente degli Stati Uniti. Anche se le autorità sperano che le tensioni possano ridursi a maggio, quando finiranno le lezioni, la protesta sta mettendo in grande difficoltà gli amministratori delle università, schiacciati tra gli inviti a contrastare la retorica antisemita e la necessità di garantire la libertà d’espressione degli studenti. “La torre d’avorio poggia su un terreno instabile”, sottolinea Steven Mintz, docente di storia all’università del Texas a Austin. “Le fondamenta sono molto più fragili di quanto sembrino. E sulla facciata sono comparse grosse crepe”.

Le manifestazioni hanno attirato l’attenzione dei mezzi d’informazione solo negli ultimi giorni, ma in realtà sono il risultato di mesi di attivismo e tensioni nei campus. Le proteste sono cominciate pochi giorni dopo l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre e l’inizio delle operazioni israeliane nella Striscia di Gaza, con gli studenti che facevano una richiesta chiara agli amministratori: mettere fine ai rapporti finanziari con i produttori di armi. Quell’attivismo è cresciuto costantemente nei mesi successivi. Quando gli atenei hanno dato risposte considerate insufficienti (o non hanno dato risposte) gli studenti hanno usato tattiche più radicali. La rivolta sempre più decisa è stata favorita dai social network e dagli smartphone, che hanno permesso ai manifestanti di comunicare e condividere le strategie in un modo che sarebbe stato impensabile per i movimenti universitari del passato. Storici come David Cortright, dell’università di Notre Dame, credono che queste proteste si possano già paragonare a quelle più significative degli ultimi sessant’anni, tra cui la campagna contro l’apartheid in Sudafrica e le manifestazioni di Occupy Wall street del 2011.

Una differenza però è che oggi le amministrazioni universitarie hanno meno strumenti del passato per placare i manifestanti. Gli esperti infatti sottolineano che la proposta di cancellare gli investimenti legati alla produzione di armi non solo è difficilmente attuabile, ma rischia anche di non produrre effetti positivi. Inoltre gli studenti potrebbero avere difficoltà a creare consenso intorno alla loro battaglia. Alcuni, per esempio, hanno deciso di non unirsi alla protesta per via di tattiche e slogan che potrebbero essere considerati antisemiti.

“Martin Luther King parlava di ‘tensione creativa’, quando la calma superficiale viene alterata e i poteri sono costrette a prestare attenzione”, spiega Cort­right. “Ma in termini di efficacia, una delle regole fondamentali è costruire un’ampia coalizione e non alienarsi potenziali sostenitori. È importante non scegliere uno slogan che allontani i possibili alleati”.

Figli dell’attivismo

La vita di chi oggi frequenta l’università è stata segnata da ondate di protesta. La rappresentante degli studenti della Columbia, Teji Vijayakumar, sottolinea che chi oggi è all’ultimo anno, come lei, facevano le elementari ai tempi di Occupy Wall street e le medie quando migliaia di persone scesero in piazza contro le armi e contro i provvedimenti voluti da Donald Trump per impedire l’ingresso nel paese alle persone provenienti da paesi a maggioranza musulmana. E avevano appena cominciato le superiori quando è esploso il movimento Black lives matter.

Le sospensioni hanno solo rafforzato la determinazione degli studenti

Vijayakumar ricorda di aver partecipato alla marcia delle donne a Washington a 13 anni, preoccupandosi di scrivere sul braccio un numero da contattare in caso di emergenza. “Per le generazioni precedenti il college è stato un momento di consapevolezza politica, mentre per me quel momento è arrivato alle elementari, durante la crisi finanziaria, è continuato negli anni del liceo, con la presidenza Trump e poi con la pandemia quando ho cominciato a frequentare l’università”, racconta Vijayakumar. “Le persone della mia età non hanno mai vissuto tempi normali”.

Con lo scoppio della guerra nella Striscia di Gaza, le università sono diventate una nuova linea del fronte. Alla Brown university, un altro ateneo d’élite, le proteste contro Israele sono scoppiate quasi subito dopo il 7 ottobre. In autunno la polizia ha arrestato 61 studenti durante due manifestazioni. Proteste simili sono state organizzate simultaneamente in diverse università. Ariela Rosenzweig, che era tra gli arrestati, spiega che in questi mesi i manifestanti sono rimasti in contatto anche grazie al coordinamento dell’organizzazione Students for justice in Palestine (Sjp). “Ci conosciamo tutti. Abbiamo amici in altri campus. Pensiamo che il nostro paese e le nostre istituzioni, dal governo alle università, non possano essere complici dell’occupazione, dell’apartheid e del genocidio”.

A novembre gli amministratori della Columbia hanno sospeso le attività locali di Students for justice in Palestine e Jewish voice for peace, che avevano indetto due manifestazioni non autorizzate per sostenere la causa palestinese.

Secondo Askanase le sospensioni hanno solo rafforzato la determinazione degli studenti. Nel giro di pochi giorni i ragazzi hanno formato una coalizione chiamata Cu apartheid divest, il cui nome è un riferimento al movimento che negli anni ottanta aveva costretto l’università newyorchese a sospendere i rapporti con il Sudafrica dell’apartheid. La nuova coalizione ha ottenuto il sostegno di novanta gruppi del campus. “Abbiamo capito che l’amministrazione continuava a non ascoltarci, anche se urlavamo e imploravamo”, racconta Askanase. “Bisognava alzare i toni”.

La notte prima del lancio della Cu apartheid divest, Askanase e alcuni amici sono rimasti svegli fino alle quattro per preparare un manifesto di 1.800 parole pubblicato il 14 novembre dal Columbia Spectator, il giornale dell’ateneo. Hanno scritto che l’amministrazione aveva “sottovalutato” la loro “determinazione”. “Non ci fermeremo fino a quando la Columbia non rinuncerà agli investimenti legati a Israele e al suo apartheid, fino a quando la Palestina non sarà libera e tutti i popoli oppressi del mondo non otterranno la libertà”.

Molti professori hanno criticato l’aggressività della polizia

Tende e bagni

Nelle settimane successive c’è stata almeno una manifestazione al mese. Durante la pausa invernale gli studenti sono rimasti in contatto attraverso i social network, e con l’inizio del nuovo semestre hanno ricominciato a incontrarsi negli appartamenti fuori dal campus, per non farsi notare. Lasciavano i telefoni e i computer in un’altra stanza temendo di essere controllati.

Nel frattempo le proteste si stavano intensificando anche in altre università. A febbraio Rosenzweig e altri venti studenti della Brown hanno organizzato uno sciopero della fame di otto giorni per sostenere le loro rivendicazioni. La ragazza racconta che alcuni colleghi hanno avuto l’idea dopo aver scoperto che questa strategia era stata usata ai tempi delle contestazioni contro l’apartheid in Sudafrica, negli anni ottanta. “Abbiamo pensato di ripercorrere i passi di chi ci ha preceduti”, sottolinea Rosenzweig, che è ebrea.

Anche alla Columbia gli studenti hanno preso spunto dal passato. Askanase racconta che si sono informati sugli accampamenti del 1968 contro la guerra in Vietnam e su quelli del 1985 contro l’apartheid in Sudafrica, ripercorrendo anche la storia delle Pantere nere e leggendo le opere dell’attivista afroamericana Angela Davis.

Poi si sono concentrati sugli aspetti pratici: comprare le tende, da mangiare, maschere e dispositivi medici, allestire i bagni e immaginare come rispondere ai probabili arresti e alle sospensioni. “Abbiamo ordinato bagni da campeggio. Non sono particolarmente comodi ma sono utili”, spiega Askanase.

Il 14 aprile gli studenti hanno deciso una data: l’occupazione del campus doveva cominciare tre giorni dopo, quando la rettrice Minouche Shafik sarebbe stata impegnata nelle audizioni al congresso di Washington. I manifestanti hanno pensato che per l’amministrazione sarebbe stato più difficile coordinarsi in assenza della rettrice. Tra i loro obiettivi c’era disturbare i preparativi per le cerimonie di laurea.

Alle otto di sera del 16 aprile Askanase ha preparato un grande striscione su cui era scritto: “Accampamento in solidarietà con Gaza”. A quel punto lei e gli altri si sono sparsi per il campus, portandosi dietro le tende e scambiandosi messaggi sulla posizione delle guardie di sicurezza. In quella serata fredda, hanno aspettato il momento per passare all’azione. Askanase ha guardato per l’ennesima volta un video su YouTube che spiegava come montare una tenda.

Non avevano un’organizzazione centralizzata, non c’era un leader, ma il messaggio era unico: le università devono smettere di investire nei produttori di armi e nelle aziende che commerciano regolarmente con Israele.

Alla Brown gli studenti hanno preparato un documento di cinquanta pagine in cui si ricordano i provvedimenti presi dagli atenei per tagliare i rapporti economici con i produttori di sigarette (2003), con le compagnie petrolifere (2020) e con le imprese che commerciavano con il Sudan durante la crisi del Darfur (2006). “Questa nuova generazione non permetterà che i soldi versati all’università siano usati in modo palesemente sbagliato”, spiega Nour Abaherah, che ha partecipato allo sciopero della fame.

Secondo Chris Marsicano, che insegna scienze dell’educazione al Davidson college ed è un esperto di bilanci delle università, il modo in cui gli atenei investono il proprio denaro complica la possibilità di soddisfare le richieste degli studenti. Il primo problema è che è quasi impossibile sapere dove vanno a finire i soldi: gli atenei cercano di tenere il più possibile segrete queste informazioni. Secondo Marsicano, più trasparenza comporterebbe una serie di complicazioni: per esempio l’imbarazzo di scoprire che un’azienda finanziata dall’università è una concorrente diretta di una società di proprietà di un consigliere d’amministrazione universitario; oppure la possibilità che informazioni su un piano per vendere o acquistare azioni influenzino l’andamento di quel titolo.

La polizia interviene per arrestare i manifestanti. New York, 22 aprile 2024 (Fatih Aktas, Anadolu/Getty)

“Quando le sovvenzioni sono consistenti, nell’ordine delle decine di milioni di dollari, ci sono motivi legali e pratici per non dichiarare il modo in cui vengono investite”, aggiunge Marsicano.

Molti gruppi studenteschi chiedono la fine di questa segretezza. Quelli della Columbia pretendono che l’università garantisca “una totale trasparenza su tutti gli investimenti finanziari”, una prospettiva piuttosto improbabile. Secondo gli esperti, disinvestire da enti e aziende legate a Israele sarebbe praticamente impossibile. Le università hanno pochi legami diretti con le aziende israeliane e con quelle che producono armi: gran parte delle transazioni avviene attraverso i fondi indicizzati, fondi cioè che comprendono una grande varietà di investimenti. Marsicano spiega che può essere estremamente difficile scoprire quali aziende sono incluse o legate a queste enormi strutture. Oggi Israele è all’avanguardia nello sviluppo dell’energia fotovoltaica, nelle tecnologie contro la crisi climatica e nell’industria farmaceutica.

Anche Mintz sostiene che le complicazioni associate al disinvestimento sono uno dei motivi per cui gli amministratori universitari non possono facilmente mettere fine alle proteste. Negli anni sessanta e settanta gli studenti avevano proposto soluzioni più praticabili, come la creazione di un programma per gli studenti afroamericani. “Inoltre ai tempi del Vietnam era più facile, per i dirigenti universitari, schierarsi contro la guerra. Oggi la situazione è molto più complessa”, sottolinea Mintz.

Legami profondi

Il giorno dopo l’allestimento delle tende, gli amministratori della Columbia hanno chiesto l’intervento della polizia di New York, sostenendo che gli studenti avevano infranto diverse regole del campus, erano stati sospesi e avevano occupato abusivamente uno spazio privato (trespassing).

Askanase racconta che mentre gli agenti si avvicinavano alle tende, loro si sono disposti in due cerchi, scandendo lo slogan “Trasparenza e disinvestimento!” e cantando “canzoni di protesta”. La ragazza riferisce che tutti gli studenti, uno per uno, sono stati caricati su un autobus e portati in cella.

Quando lei è stata rilasciata, poche ore dopo, un amico le ha detto che era già stato creato un nuovo accampamento nel campus. “È stato un momento bellissimo”, ricorda Askanase. “Ero onorata e sorpresa. Non avevo idea che ci avrebbero sostenuti in quel modo”.

Secondo Thai Jones, professore della Columbia che si occupa di movimenti sociali radicali, ciò che è accaduto in seguito ricorda l’evoluzione delle proteste nel 1968, quando gli studenti della Columbia occuparono alcuni edifici per contestare la guerra in Vietnam, dando vita a un movimento nazionale che portò alla chiusura di centinaia di campus. Jones pensa che sia ancora troppo presto per capire se le manifestazioni a sostegno dei palestinesi avranno lo stesso impatto di quelle del 1968: “Tuttavia, in questo momento si stanno creando forti legami tra i campus, mentre le immagini degli studenti arrestati possono favorire la nascita di un movimento di massa”.

Quando la notizia degli arresti alla Columbia è arrivata sullo smartphone di Adam Nussbaum, uno studente di 23 anni di Yale, l’occupazione del suo campus era stata già decisa. Ma il numero di partecipanti e sostenitori è cresciuto grazie alle comunicazioni frenetiche tra i gruppi delle due università. “Molti di noi hanno amici alla Columbia, quindi semplicemente ne abbiamo parlato con loro”, racconta Nussbaum. “È successo tutto in modo spontaneo”.

Ma le autorità di New York sostengono che dietro la protesta ci sia anche altro. Dopo gli arresti alla Columbia, il sindaco Eric Adams ha paragonato la situazione a quella vissuta durante le manifestazioni di Black lives matter del 2022, ricordando che all’epoca in città erano arrivate persone da fuori con l’obiettivo di “seminare il caos”. “Siamo convinti che stia succedendo anche stavolta”, ha detto il sindaco.

Verso le elezioni
Sinistra spaccata

Negli Stati Uniti molti commentatori si chiedono come le proteste nei campus potrebbero condizionare il clima politico in vista delle elezioni presidenziali di novembre. “Le tensioni renderanno più evidenti le spaccature emerse a sinistra dopo l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre e l’inizio della guerra israeliana nella Striscia di Gaza”, scrive il Los Angeles Times. Alcuni politici del Partito democratico hanno condannato la decisione dei rettori di chiamare la polizia nei campus per reprimere mobilitazioni pacifiche, mentre altri, tra cui il presidente Joe Biden, hanno messo l’accento sul pericolo di aggressioni contro gli studenti ebrei.

Il Partito repubblicano sta cercando di alimentare queste divisioni accusando i democratici di aver trasformato le università di élite del paese, tra cui la Columbia, Harvard e Yale, in bastioni dell’ideologia radicale e d’incoraggiare l’antisemitismo. Dopo l’inizio delle manifestazioni, politici conservatori di primo piano come lo speaker della camera Mike Johnson e il senatore Tom Cotton hanno chiesto a Biden di far intervenire la guardia nazionale per riportare l’ordine nei campus.

“La situazione è delicata per il presidente non solo perché rischia di perdere consensi tra gli elettori più giovani, ma anche perché alimenta una percezione di caos nel paese”, scrive il New York Times. In questi anni i democratici hanno cercato di porsi come il partito della stabilità che vuole difendere il paese dalle derive distruttive del trumpismo, e anche per questo hanno vinto le ultime elezioni presidenziali del 2020. “A luglio a Chicago si terrà la convention del Partito democratico, in cui Biden verrà formalmente scelto come candidato alle presidenziali. È possibile che i manifestanti usino quell’occasione per contestare le politiche della Casa Bianca sulla guerra di Israele nella Striscia di Gaza”. ◆


Dopo le prime contestazioni, i giornali e le tv hanno rip0rtato casi di aggressioni nei confronti di alcuni studenti ebrei. Qualche manifestante avrebbe intonato lo slogan “dal fiume al mare”, che si riferisce alla creazione di uno stato palestinese dal fiume Giordano al mar Mediterraneo, e che secondo alcuni è offensivo perché implica la cancellazione di Israele. Una studente ebrea di Yale ha detto di essere stata colpita con l’asta di una bandiera. Jonathan Greenblatt, presidente della Anti-defamation league, ha raccontato su X di aver visto ragazzi e ragazze “esplicitamente minacciati e in alcuni casi aggrediti fisicamente” nel campus.

Gli studenti accampati nelle università del paese respingono con forza le accuse di antisemitismo e dichiarano che alcuni episodi sono stati creati ad arte da sabotatori infiltrati. Molti professori universitari, ex studenti e rappresentanti di organizzazioni per i diritti civili hanno condannato l’aggressività della polizia, sottolineando che i timori sulla presenza di agitatori esterni sono infondati e che le contestazioni sono largamente pacifiche. “Quando ci sono molte proteste vuol dire che la democrazia è in salute”, dice Greg Jobin-Leeds, esperto di movimenti sociali. “In questo momento stiamo assistendo a una limitazione dei diritti democratici. È molto preoccupante”.

Con la pausa estiva ormai alle porte, gli studenti dicono che useranno il tempo libero per organizzarsi in vista dell’autunno. “Questo movimento combatte per una causa molto importante”, sottolinea Rosenzweig. “Non credo che si fermerà”.

Nei prossimi mesi i manifestanti potranno esprimere il loro malcontento in altri scenari. In estate si terranno le convention del Partito democratico e del Partito repubblicano, in cui verranno scelti formalmente i candidati alle elezioni presidenziali di novembre. Molti commentatori pensano che i due eventi saranno segnati da una forte contestazione.

Per ora gli studenti non vogliono rivelare le loro prossime mosse, per non dare un vantaggio agli amministratori delle università. Ma quelli che a Yale hanno occupato Beinecke plaza dicono di voler trasformare il loro movimento in una più ampia campagna, “Occupy Yale”, che oltre a cancellare i legami con l’industria degli armamenti chiede all’università di investire nelle strutture dell’area dove sorge l’università.

Insegnare a parlarsi

Intanto, mentre le proteste rendono più caotica la fine dell’anno accademico, alcuni vorrebbero che le cose tornassero alla normalità. Cameron Ofogh, un ragazzo di 22 anni che studia alla George Washington university, non partecipa alle manifestazioni ed è convinto che la maggior parte degli studenti si stia comportando come lui. Racconta che il 25 aprile qualche centinaio di giovani, tra cui alcuni provenienti da altre scuole della zona, hanno piantato trenta tende formando un accampamento a favore della Palestina. La George Washington university ospita 26mila studenti.

Ofogh rispetta il fatto che le persone, su entrambi i fronti, abbiano opinioni forti, ma vorrebbe che gli slogan e le occupazioni lasciassero il posto al dialogo. “Nessuno ascolta l’altro, non è un rapporto civile. Credo che tutto questo stia succedendo perché le università non hanno insegnato alle persone a parlarsi tra loro”.

Nussbaum non è d’accordo. Pensa che il suo movimento sia la prova della forza degli studenti e della loro capacità di cambiare il mondo: “Si aprono possibilità che prima erano impensabili”. ◆ as

Ultime notizie

◆ Il 29 aprile 2024 Minouche Shafik, rettrice della Columbia university di New York, ha annunciato che se gli studenti rifiutano di lasciare l’accampamento di protesta nel campus saranno sospesi: la mobilitazione a sostegno del popolo palestinese va avanti da due settimane e un po’ alla volta si è estesa a decine di altri atenei del paese. Il 29 aprile un gruppo di manifestanti ha occupato la Hamilton hall, uno degli edifici più noti dell’università. La tensione è alta alla University of California a Los Angeles, dove ci sono stati scontri tra i gruppi di studenti filopalestinesi e sostenitori di Israele. In alcuni campus è intervenuta la polizia, arrestando nel complesso almeno 675 persone.

◆ Ci sono state manifestazioni anche in altri paesi. A Parigi, in Francia, gli studenti della Sorbona sono scesi in piazza e quelli di Sciences Po hanno piantato una decina di tende. Accampamenti sono nati anche all’università di Sydney e di Melbourne, in Australia, e a Warwick e Leicester, nel Regno Unito. Il 16 aprile vicino all’università Sapienza di Roma ci sono stati scontri tra studenti e polizia, durante una protesta per chiedere che fossero bloccati i progetti di collaborazione accademica tra l’ateneo e alcune università israeliane. Due persone sono state arrestate. Bbc


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Questo articolo è uscito sul numero 1561 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati