In Italia non esiste una banca dati istituzionale e pubblica in cui periodicamente sono registrati i femminicidi compiuti nel paese. Non esiste, cioè, un sito internet dove monitorare in modo puntuale e verificato la situazione, nemmeno dopo un anno. I dati ufficiali ci sono, ma si trovano in report a cura dell’Istat e del ministero dell’interno, aggiornati con tempistiche diverse e compilati senza la stessa metodologia.

Sul sito del ministero dell’interno c’è un report aggiornato ogni settimana. Riguarda più in generale gli omicidi volontari, con una parte specifica dedicata alla “violenza di genere”. I dati sono classificati in base al sesso delle vittime e alla relazione con il presunto colpevole. Nel 2023 sono 106 le donne uccise, di cui 87 in ambito familiare e affettivo. Nel corso degli anni in Italia questi numeri non sono cambiati molto e sono in linea con quelli di altri paesi europei. La parola femminicidio però non compare in questi rapporti, ed è solo dal 2019 che l’Istat ha cominciato a usarla all’interno del sistema informativo sulla violenza contro le donne e in particolare nei report annuali pubblicati in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne ogni 25 novembre.

Le stesse statistiche però non sono presenti nella banca dati IstatData, né nella sezione sulla violenza contro le donne né in quella legata alla giustizia penale, in cui sono indicati i delitti denunciati in Italia e ci si aspetterebbe di leggere quanti degli omicidi volontari commessi sono stati dei femminicidi. Qui il fenomeno diventa invisibile.

Contare in modo omogeoneo e sistematico i casi di violenza contro le donne, e in particolare i casi di femminicidio, è uno degli impegni previsti anche dall’Agenda 2030, in cui uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile è rendere il mondo un posto in cui “le donne e le ragazze godono di piena uguaglianza e tutte le barriere economiche e sociali alla loro emancipazione sono state rimosse”. Per questo motivo, nel marzo 2022 è stato approvato un nuovo documento curato dall’agenzia Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) e dall’ente per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile (Un women) che contiene nuovi indicatori per rendere omogeneo il conteggio dei femminicidi nel mondo. Nel documento si legge che questi ultimi sono “la forma più brutale ed estrema della violenza contro le donne, che coinvolge tutte le regioni e i paesi a livello mondiale”.

Tra i nuovi indicatori (53 in totale), ce ne sono diversi che includono la modalità con cui è avvenuto l’omicidio, se il corpo è stato abbandonato per strada, se è mutilato, se la donna è stata denudata, ma anche se è stata vittima di tratta, di violenza sessuale, di altro tipo di oppressione anche sul luogo di lavoro, se era incinta, le caratteristiche dell’autore, come i precedenti penali, storie di violenza pregressa, e molto altro. L’Onu raccomanda anche di valutare il tipo di rapporto esistente tra chi subisce la violenza e chi la commette al di là della sfera affettiva, dal momento che forme di violenza e oppressione sulle donne possono essere commesse anche da conoscenti, colleghi, amici, sconosciuti, militari e agenti di polizia.

Definire un fenomeno è il primo passo per capire come misurarlo e quali azioni intraprendere a livello politico. Come indicato dall’Istat nel suo ultimo rapporto, relativo al 2021, i nuovi indicatori internazionali saranno presi in considerazione per costruire le future statistiche, a mano a mano che saranno disponibili i dettagli sui reati a partire dalle informazioni comunicate dalla polizia e dal ministero dell’interno. La classificazione riguarderà i dati dei prossimi anni, mentre il confronto storico resta possibile solo con i dati disponibili, e cioè quelli che riguardano la relazione tra autore e vittima.

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L’associazione Ondata, che si occupa di sensibilizzare le istituzioni sulla pubblicazione di dati aperti (cioè in formati trasparenti, accessibili e riutilizzabili), ha collaborato con altre organizzazioni che si occupano di violenza contro le donne per chiedere che i dati pubblicati settimanalmente in pdf dal ministero fossero rilasciati anche in formato aperto, e questo succede effettivamente da settembre. “È importante perché consente in modo più diretto e semplice di individuare eventuali tendenze, però ancora ci sono dei passi da fare. Al momento i dati sono pubblicati solo su base nazionale e non disaggregati per regione o provincia, anche se ci sarebbe la possibilità di averli”, spiega il presidente di Ondata, Andrea Borruso. “Se i dati sono poco leggibili, anche le azioni, le idee, le proposte per cambiare la situazione probabilmente non potranno essere incisive”.

I dati sulla violenza contro le donne sono importanti perché mostrano una differenza di genere nella frequenza e nelle modalità con cui è commessa, anche a livello mondiale. Secondo l’Unodc, nel 2020 47mila donne sono state uccise dai loro partner o da familiari, una ogni undici minuti, il 58 per cento di tutti gli omicidi di donne avvenuti quell’anno. Solo il 10 per cento dei casi di omicidio volontario in cui la vittima è un uomo è avvenuto in ambito domestico. Nel 2021 in Italia la percentuale di omicidi compiuti in ambito familiare riguarda nell’86 per cento dei casi le donne e nel 26 per cento gli uomini, secondo i dati del ministero dell’interno.

In Italia il femminicidio non è un reato previsto dal codice penale, come invece avviene in tutti i paesi dell’America Latina (ad esclusione di Haiti e Cuba), ma nel 2013 la legge 119, conosciuta come “legge sul femminicidio”, ha introdotto il reato di omicidio volontario aggravato dal rapporto di parentela o convivenza con la vittima di sesso femminile.

L’importanza delle parole

La parola femminicidio entra nel dizionario della lingua italiana nel 2001 e solo dal 2006 l’Istat ha cominciato a fare ricerche periodiche “sulla sicurezza delle donne”. L’ultima risale al 2018.

Prima, l’unica parola esistente per indicare l’uccisione di una donna era “uxoricidio”, cioè l’uccisione di una donna in quanto moglie, e fino all’abrogazione del delitto d’onore nel 1981 era considerato meno grave rispetto ad altre forme di omicidio.

Secondo la psicologa e criminologa Anna Costanza Baldry, che nel libro Orfani speciali (Franco Angeli 2017) ha approfondito il fenomeno dei bambini e delle bambine rimasti orfani dopo che il padre aveva ucciso la madre, “il femminicidio può essere inquadrato come una forma di espressione del potere e del controllo dell’uomo sulla donna, cioè di condotte basate sulla disuguaglianza di genere e solo in alcuni casi, seppure molto meno frequenti, è riconducibile a particolari disagi mentali di cui la violenza può essere un’espressione”.

Questa precisazione diventa necessaria quando sui mezzi d’informazione, per riferirsi agli atti di violenza omicida contro una donna, partner, figlia o parente, sono usate parole come “raptus” e “follia”, lasciando intendere che si tratti di casi isolati relativi alla salute mentale dei singoli individui.

Grazie agli archivi è possibile rintracciare la prima volta che sulle pagine di un quotidiano italiano compare la parola “femminicidio”: è il 4 aprile 1977, su La Stampa, in un editoriale dal titolo “La tentazione del femminismo armato”, firmato dalla giornalista femminista e militante radicale Maria Adele Teodori. Ne scriveva per denunciare una serie di episodi di violenza contro le donne mettendo in evidenza il desiderio di prevaricazione maschilista per cui le donne “vanno negate come persona e come identità”.

Come ricostruisce Baldry nel suo libro, a livello internazionale il termine “femminicidio” fu usato nel 1976, quando l’attivista e studiosa sudafricana Diana Russell testimoniò al tribunale internazionale sui crimini contro le donne a Bruxelles, in Belgio, affermando che gli omicidi di donne e ragazze assumevano una forma decisamente misogina. Nel 1992, nel libro scritto insieme alla studiosa britannica Jill Radford, Femicide. The politics of woman killings, la definizione comprendeva “l’uccisione misogina delle donne da parte degli uomini”. Nel 1993 Jane Caputi, professoressa della Florida Atlantic university, esperta di studi di genere e coautrice con Russel di un articolo su questo tema, amplia la dimensione politica e descrive i femminicidi come “forma di terrorismo patriarcale”.

Alle definizioni nell’ambito della ricerca e dell’attivismo seguono quindi le azioni dei governi, che cominciano a porre attenzione ai femminicidi all’interno dei propri programmi contro la violenza sulle donne, ma contandoli in modo disomogeneo.

Anche all’interno dell’Unione europea – come fanno notare gli autori dell’inchiesta più recente sul femminicidio in Europa, promossa dallo European journalism network – non ci sono dati ufficiali dopo il 2018 e l’istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige), l’ente che dovrebbe condurre ricerche e monitorare le politiche in materia di violenza contro le donne, ha avviato un’indagine nel 2020, ma i risultati non saranno pubblicati prima del 2024. “Ciò significa che l’Ue non avrà il quadro completo di un fenomeno cruciale che tocca metà della sua popolazione per un periodo di circa cinque anni”, scrivono i giornalisti.

La Spagna, che si definisce il “primo paese a contare tutti i tipi di femminicidio”, dal 2022 include nelle statistiche anche gli omicidi avvenuti al di fuori delle relazioni di coppia. Nel luglio 2023 in Belgio è stata approvata una legge che distingue tra diversi tipi di femminicidio e definisce le forme di violenza che possono precederlo, come la violenza sessuale o psicologica.

In Italia passi avanti sono stati fatti con l’approvazione all’unanimità della legge 53/2022 proposta dalla senatrice del Partito democratico Valeria Valente, presidente della prima commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, istituita nel 2017 e rinnovata nel luglio 2023 con la presidenza di Martina Semenzato (Noi moderati). La prima relazione pubblicata dalla commissione nel novembre 2021 contiene un’indagine molto approfondita sul fenomeno, compresi i problemi di definizione e come fare per superarli, ma è ferma ai dati del biennio 2017-2018. La legge dovrebbe quindi essere uno strumento in più per consentire una raccolta dati regolare rispetto alla violenza di genere in Italia, anche se non ha ancora visto piena attuazione.

Il database dell’osservatorio promosso dal basso dalle attiviste di Non una di meno (Numd), che conta “femminicidi, lesbicidi e transcidi”, è attualmente lo strumento migliore per monitorare la situazione in Italia. Si tratta di un lavoro di raccolta di “controdati”, come li ha definiti la ricercatrice e professoressa del Massachusetts institute of technology, Catherine D’Ignazio. Sono dati complementari o alternativi a quelli ufficiali, fondamentali per avviare un dibattito e una discussione su problemi o fenomeni sottovalutati da governi e istituzioni. Nell’ultimo rapporto relativo al 2023 l’osservatorio riporta 94 femminicidi, un transcidio, nove suicidi di donne, uno di una persona trans e sei morti in fase di accertamento. La donna più giovane aveva tredici anni, la più anziana 95. Inoltre, ci sono stati sedici tentati femminicidi e almeno sei persone sono state uccise perché presenti in quei momenti. Solo nel 3,7 per cento dei casi il colpevole non conosceva la persona che ha ucciso, e in almeno undici casi su ventisette l’arma da fuoco usata era legalmente detenuta.

Il database dell’osservatorio permette di visualizzare la distribuzione geografica del fenomeno. Sicilia, Emilia-Romagna e Lombardia sono le prime regioni per numero di casi sul totale.

In un libro che sarà pubblicato dalla Mit presse, ma che è già disponibile per la consultazione online, D’Ignazio mette in evidenza come la storia del movimento femminista e la ricostruzione dei casi di femminicidio siano profondamente legate. Quando nel 2015 il movimento Ni una menos (Non una di meno) invase le piazze e le strade delle città dell’America latina, a partire dall’Argentina, le donne chiedevano di fermare la violenza maschilista e più diritti, ma, scrive D’Ignazio, “tra le richieste c’era anche quella di istituire un registro ufficiale delle vittime di violenza, e di creare statistiche ufficiali e aggiornate sui femminicidi, perché si possono progettare politiche pubbliche efficaci solo comprendendo bene la portata del problema”.

Quando i dati ufficiali mancano, è difficile accedervi o non riportano informazioni complete che possano mostrare elementi in comune ai vari casi di femminicidio, chi contesta le azioni e le iniziative contro la violenza sulle donne può far leva più semplicemente sui propri pregiudizi e su una cultura patriarcale diffusa in cui lo stigma ricade sulle vittime. Nel 2018, nell’ultima indagine dell’Istat sugli stereotipi di genere, si legge che per il 39,3 per cento della popolazione italiana la donna è responsabile della violenza subita perché avrebbe potuto evitarla.

La disponibilità e soprattutto l’accessibilità dei dati può cambiare il punto di vista delle istituzioni, spingendole ad agire, ma anche quello di cittadini e cittadine.

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