“Ero paralizzata”, racconta la donna, ripensando al giorno in cui è stata violentata durante un’esercitazione militare, qualche estate fa. Era stata una giornata di addestramento lunga e calda, in marcia sulle colline, portando zaini pesanti e mangiando le razioni di cibo dell’esercito. Il gruppo stava affinando le capacità di spostamento, cercando di capire come muoversi da un posto all’altro il più velocemente possibile avendo a disposizione solo una bussola e qualche punto di riferimento, il tutto evitando imboscate e serpenti.

Quella notte si è addormentata e si è svegliata con un uomo sdraiato accanto a lei, che la penetrava con un dito e poi passava rapidamente allo stupro. “Volevo urlare, spingerlo via”, mi dice. “E non so dire perché, ma il mio corpo non reagiva”. A un certo punto, dopo che lui ha finito, lei è riuscita a muoversi di nuovo (la donna ha chiesto di restare anonima perché teme ritorsioni). L’uomo si è allontanato e lei si è riaddormentata, anche se non ricorda quando. Al mattino ha fatto colazione e poi ha vomitato.

Non riusciva a capire perché non avesse reagito all’aggressione. Sembrava in contraddizione con il suo addestramento, con le ore passate a imparare a sopravvivere e a combattere contro ogni tipo di minaccia. Da bambina, sua madre le diceva: “Sei una ragazza e sei minuta, quindi sei un bersaglio facile”. Aveva ascoltato l’avvertimento della madre ed era orgogliosa di essere combattiva e atletica. Giocava a basket, a baseball, a football americano, a calcio e faceva corsa campestre. A volte gareggiava con i maschi. “Nessuno si aspetta di vivere una situazione simile”, ha detto. “Ma tutti immaginano come reagirebbero, e io ho sempre pensato che avrei lottato e sarei riuscita a scappare”. Si vergognava di se stessa per non aver fatto nulla. “Non è da me”, dice. “Non so perché, ma il mio corpo non ha proprio reagito”.

Le settimane successive allo stupro sono state estenuanti: le esigenze dell’allenamento si sono sommate allo stress dell’aggressione. È caduta in depressione e ha perso dieci chili. Aveva il terrore di addormentarsi. “Mi sentivo come se non potessi fidarmi del mio corpo”.

Piangeva per notti intere. Aveva sempre dormito sul fianco, ma non si sentiva più sicura in quella posizione. Se si addormentava, era solo per un’ora o due per poi svegliarsi di nuovo in lacrime. Il cuore le batteva forte e le lenzuola erano impregnate di sudore.

Quando gli amici e i superiori hanno scoperto come aveva reagito durante lo stupro, sono rimasti sconcertati e confusi. Non hai fatto nulla? Non hai detto nulla? Ti sei bloccata? “Provavo a urlare. Volevo urlare. Ho cercato di urlare, ma non ci riuscivo”. Era difficile da spiegare, ha detto. A quel punto si è anche chiesta se avesse le qualità per diventare un’ufficiale. E se si fosse bloccata di nuovo?

Sapeva di aver bisogno di aiuto, ma aveva paura di parlare con uno psicologo a causa dello stigma sulla categoria all’interno del programma militare. Così la notte, quando non riusciva a dormire, leggeva articoli e libri sulla violenza sessuale per cercare di dare un senso alla sua situazione. Si è poi resa conto di aver bisogno di qualcosa di più dei libri e mesi dopo l’aggressione ha finalmente parlato con una consulente, che le ha spiegato che il freezing (congelamento) poteva essere una normale risposta all’aggressione. Alla fine anche i suoi amici e superiori scettici hanno capito e si sono scusati. All’interno del programma si parlava molto di fight or flight (attacco o fuga), ma lei non ricordava che avessero mai parlato di freezing. Aveva sentito parlare di soldati e comandanti che si erano bloccati in battaglia e conosceva la vergogna che ne seguiva. “Forse è per questo che non se ne parla e non se ne discute”.

Una volta ha avuto un incubo. “Mi svegliavo mentre l’aggressione si ripeteva esattamente com’era avvenuta, e le mie labbra erano incollate o cucite”. All’inizio il sogno le sembrava strano e ambiguo, ma poi si è resa conto che rappresentava esattamente quello che aveva provato.

Restare vive

Esiste un vocabolario ricorrente usato dalle donne per descrivere ciò che provano e pensano durante una violenza sessuale. Le varianti di freezing fanno spesso parte di questo vocabolario. Il termine però ha così tanti riferimenti nell’uso colloquiale che è difficile sapere con precisione cosa significhi per chi lo pronuncia.

“Ero completamente paralizzata”, ha detto Brooke Shields nel documentario Pretty baby, descrivendo come si è sentita quando è stata violentata. “Pensavo solo: ‘Resta viva e poi vattene’”.

Parlando del suo stupro, l’attrice e modella norvegese Natassia Malthe ha detto ai giornalisti: “Ero come un cadavere”. In un articolo per Vice, la scrittrice Jackie Hong ha scritto del suo stupro: “Quando ha cominciato a tirarmi giù i pantaloni e gli slip, il mio corpo si è come paralizzato”. In un episodio della docuserie The me you can’t see (La me che non vedete), Lady Gaga racconta lo stupro subìto a diciannove anni: “Ero semplicemente paralizzata”. Anni dopo, ha raccontato, il suo corpo ricordava ancora la sensazione e ha avuto un “crollo psicotico totale”.

“Non sono una che urla”, ha riferito E. Jean Carroll presso la corte distrettuale degli Stati Uniti di Manhattan, a New York, riferendosi a quando Donald Trump ha abusato sessualmente di lei in un camerino del centro commerciale Bergdorf Goodman. Ha detto alla corte che era “troppo in preda al panico per urlare”. Miriam Haley, un’ex assistente di produzione, ha parlato di quando Harvey Weinstein l’ha tenuta ferma e costretta a subire un rapporto: “In quel momento ero così sotto shock che mi sono dissociata dalla realtà”.

Nel 2019, una donna di 48 anni ha testimoniato in un tribunale canadese di essersi “bloccata” quando un uomo l’ha violentata nel retro della sua auto al primo appuntamento. La difesa ha chiesto perché non avesse opposto resistenza. “Ero terrorizzata”, ha detto. “Non sono fisicamente in forma. Non pensavo di poter scappare”.

Quando ho contattato decine di donne per conoscere le loro reazioni alla violenza sessuale, anche loro hanno parlato di freezing raccontando la loro esperienza. All’inizio, mi ha detto Andrea Royer, ha lottato e urlato per far desistere il suo stupratore a Spearfish, in South Dakota, nel settembre 2012, ma poi si è immobilizzata perché ha deciso che bloccarsi era l’unico modo per restare viva. Jenna Sorensen ha raccontato che quando è stata aggredita gli ha detto di no, ma poi si è paralizzata perché finisse il prima possibile. “Ho lasciato che accadesse, immagino”, ha detto. Joyce Short mi ha raccontato che al college si è “bloccata” quando un uomo ha cominciato a strangolarla prima di stuprarla. Si è immobilizzata, ha spiegato, perché più si dibatteva, più lui le premeva sul collo.

Tutte queste reazioni, che spesso provocano vergogna o fanno sentire anormali le donne che le riferiscono, sono comuni ma male interpretate. Durante le udienze del processo contro Weinstein per crimini sessuali, una delle accusatrici, Jessica Mann, ha raccontato la sua esperienza di freezing dicendo che “molte donne, me compresa, sono state in grado di trovare solo parole come ‘mi sono arresa’ o ‘ho perso il controllo’ oppure, come ho fatto io, ‘mi sono bloccata’”.

Mann ha citato un articolo del 2015 pubblicato su The Harvard Review of Psychiatry sugli automatismi comportamentali di difesa nell’essere umano e negli animali. “Buona parte dell’opinione pubblica non capisce che queste risposte non sono qualcosa che scegliamo consapevolmente”, ha detto. Mann ha spiegato che nel momento della violenza commessa da Weinstein ha riconosciuto dei sintomi in linea con un fenomeno noto come immobilità tonica. È una risposta estrema a una minaccia che lascia le vittime letteralmente paralizzate. Non possono né muoversi né parlare. Per più di un secolo gli scienziati hanno studiato fenomeni simili negli animali e nel corso degli anni sono stati classificati in vari modi: ipnosi animale, morte simulata, morte apparente e tanatosi, che in greco antico significa “far morire”. L’immobilità tonica è una strategia di sopravvivenza individuata in molte classi di animali – insetti, pesci, rettili, uccelli, mammiferi – e trae la sua forza evolutiva dal fatto che molti predatori sembrano istintivamente perdere interesse nella preda morta. Di solito è innescata dalla percezione di ineluttabilità o di costrizione, come nel caso in cui una preda si trovi tra le fauci di un predatore.

È stato dimostrato che gli esseri umani sperimentano l’immobilità tonica nel contesto di guerre e torture, disastri naturali e incidenti gravi, e gli studi suggeriscono che si verifica spesso durante gli abusi sessuali. All’inizio degli anni settanta, le ricercatrici statunitensi Ann Burgess e Lynda Lytle Holmstrom osservarono questo comportamento, che fu presto definito “paralisi indotta da stupro”, in alcune persone ricoverate al Boston city hospital. Nel corso di un anno, documentarono che 34 delle 92 pazienti con diagnosi di “trauma da stupro” avevano sperimentato il freezing – fisico o psicologico – durante le aggressioni, e che alcune descrivevano quella che oggi viene definita immobilità tonica. “Mi sentivo svenire, tremare e avevo freddo. Sono diventata inerte”, riferiva una donna. Un’altra raccontava: “Quando mi sono resa conto di quello che stava per fare, mi sono dissociata. Ho cercato di non rendermi conto di quello che stava succedendo”.

Qualche anno dopo, in un articolo del 1979 su The Psychological Record, gli psicologi Susan Suarez e Gordon Gallup sostennero che l’immobilità tonica si è evoluta come difesa contro i predatori. Osservarono inoltre che spesso le condanne per stupro vengono smontate perché le vittime non oppongono resistenza. “È paradossale”, hanno scritto, “che le vittime vengano legalmente penalizzate per aver mostrato una reazione che ha un enorme valore adattativo e che potrebbe essere saldamente radicata nella biologia della nostra specie”.

Alcune risposte al trauma possono modificare l’attenzione

Quando si chiede alle persone quali possano essere le reazioni degli esseri umani o degli animali davanti al pericolo, la maggior parte pensa “attacco o fuga”, ma la popolarità di questa frase ha distorto la percezione del comportamento delle vittime. È statisticamente raro che qualcuno reagisca fisicamente durante una violenza sessuale. La resistenza verbale è più comune, ma anche quella è spesso più passiva di quanto si pensi.

Jim Hopper, psicologo clinico e docente associato presso la Harvard medical school, studia da più di trent’anni i traumi e le violenze sessuali, compresi i loro aspetti neurobiologici. “Chi sopravvive deve poter usare il linguaggio che preferisce”, ha detto Hopper, che forma regolarmente terapeuti, investigatori di polizia e ricercatori universitari, pocuratori, consulenti dei sopravvissuti e infermieri che raccolgono le prove di un’aggressione sessuale con il kit medico-forense. “Ma da professionisti dobbiamo avere un linguaggio più preciso, che si basi su ciò che succede realmente nel cervello e su come questi fatti possono verificarsi”.

Hopper insegna che la formula “attacco o fuga” è dannosa, perché “può far pensare a chi ha subìto violenza di avere qualcosa di sbagliato. Provano vergogna, si rimproverano di non aver lottato o di non essere fuggite”. Per questo motivo ha dedicato gli ultimi dieci anni allo sviluppo di un vocabolario migliore per descrivere il comportamento delle sopravvissute, basato sulle neuroscienze e sull’evoluzione. “Se riusciamo a capire come il nostro cervello risponde alla minaccia o all’attacco”, ha detto, “possiamo aiutare a convalidare le risposte e i ricordi di chi ha subìto violenza sessuale con la credibilità della scienza”.

Valutare la minaccia

La prima risposta del cervello umano al pericolo è quasi sempre l’arresto di ogni movimento per valutare meglio la minaccia. In una frazione di secondo avvengono altri cambiamenti fisiologici che preparano il corpo a mettere in atto comportamenti salvavita. A volte questo porta alla lotta o alla fuga, ma molto più comunemente nei casi di violenza sessuale subentra il freezing, durante il quale il cervello valuta l’aggressione e genera potenziali opzioni di risposta. Ci si immobilizza, la frequenza cardiaca rallenta e si rimane in allerta.

Nel linguaggio comune, il freezing è spesso confuso con l’immobilità tonica, ma non sono la stessa cosa: l’immobilità tonica è più estrema. L’immobilità da collasso, un’altra risposta estrema, comporta un calo precipitoso della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna, che provoca l’inflaccidimento dei muscoli (a differenza di un irrigidimento tipico dell’immobilità tonica) e lo svenimento o il collasso. Chi la sperimenta, inoltre, ha bisogno di tempo per riprendersi, perché il cervello non ha ricevuto abbastanza ossigeno.

Una volta Hopper ha lavorato al caso di un uomo che aveva cercato di costringere una donna a praticargli sesso orale, ma lei non riusciva a tenere la testa sollevata. “Ha riferito che i muscoli del collo erano completamente flosci e la testa le cadeva di lato”, ha detto. L’esperienza viene anche descritta con frasi come “mi sono sentita stordita”, “mi sono sentita svenire” o “mi sono sentita assonnata”. Alcune donne descrivono questa esperienza come “svenimento”, il che può spingere un investigatore non sufficientemente preparato a pensare che abbiano bevuto troppo alcol.

Il freezing tende a manifestarsi nelle prime fasi dell’attacco, mentre le reazioni estreme tendono a manifestarsi più tardi, ma possono verificarsi in qualsiasi ordine. Il passaggio da un comportamento all’altro può avvenire in pochi millisecondi. Alcune persone, sotto la minaccia di uno stupro, sono in grado di prendere decisioni, come quella di acconsentire, nella speranza di evitare la morte o gravi lesioni fisiche. Alcune combatteranno o fuggiranno e altre non avranno alcuna risposta al trauma. Ma tutte queste reazioni possono avere effetti profondamente diversi sulla coscienza e sulla memoria.

La reazione del cervello

I neuroscienziati parlano spesso del cervello in termini di circuiti, ovvero insiemi di aree collegate tra loro e responsabili di determinate funzioni. Il circuito di difesa è uno dei più studiati e funziona allo stesso modo in tutti i mammiferi: se viene rilevata una minaccia, il circuito di difesa può rapidamente prendere il controllo sul funzionamento del cervello, con conseguenze importanti per il pensiero, il comportamento e la memoria. Il circuito di difesa impiega fino a tre secondi per colpire la corteccia prefrontale con livelli di sostanze chimiche responsabili dello stress abbastanza elevati da comprometterne le funzioni: una volta che la corteccia prefrontale si spegne, s’interrompe anche la nostra capacità di ragionare. I nostri centri linguistici vengono alterati. La nostra attenzione cambia, così come il modo in cui codifichiamo i ricordi.

Amy Arnsten, neuroscienziata dell’università di Yale, è una delle principali ricercatrici sul modo in cui lo stress pregiudica la corteccia prefrontale. In uno studio del 2022 il suo team ha scoperto che l’esposizione a uno stress anche lieve ma incontrollabile compromette rapidamente la corteccia prefrontale. “In condizioni di stress il cervello si scollega dai suoi circuiti di più recente evoluzione e rafforza molti dei circuiti primitivi, e quindi questi riflessi inconsci, che sono ancestrali, entrano in azione”, mi ha spiegato al telefono.

Arnsten ha raccontato che alcuni anni fa, mentre camminava nei boschi del Vermont, da dietro un albero è sbucato un orso. Senza pensarci, si è immobilizzata. L’orso l’ha guardata ma non l’ha vista. “La maggior parte degli animali vede il movimento e non i dettagli, quindi il freezing – soprattutto se ci si trova in una posizione in cui non si può scappare – ha avuto un valore di sopravvivenza attraverso i millenni”. Tuttavia il freezing e l’immobilità tonica sono stati sviluppati per proteggerci dai predatori animali, non da quelli umani, che non sempre perdono interesse se la loro preda umana sembra morta.

Dopo aver letto le testimonianze delle persone che hanno subìto uno stupro nel corso di un decennio, Hopper ha osservato che a volte le vittime sperimentano quello che lui chiama “freezing sotto shock”, ovvero il fenomeno per cui la mente di una persona può rimanere vuota per diversi secondi; le donne possono descriverlo con frasi come “non riuscivo neanche a pensare” o “non sapevo cosa fare”. Questa fase può scivolare in una successiva, in cui il ragionamento è compromesso e che l’autore chiama “freezing da mancanza di alternative”, durante il quale le persone vedono diminuire seriamente la loro capacità di ragionare con lucidità, impedendogli di prendere in considerazione informazioni pratiche, come il fatto che ci sono persone nelle vicinanze che potrebbero sentirle urlare.

L’empatia è fondamentale per ottenere resoconti accurati

Hopper ha anche aggiunto una sfumatura cruciale: a un certo punto, durante lo stupro, la maggior parte delle vittime ritorna ad abitudini, di solito passive o sottomesse, che derivano dalla cultura o dagli abusi. A molte donne, per esempio, s’insegna a essere gentili con gli uomini, a non offendere il loro ego e a evitare reazioni. “E queste sono in realtà tra le risposte cerebrali più frequenti tra le persone che subiscono una violenza sessuale”, ha affermato. “Di solito non consideriamo queste abitudini come involontarie, e invece lo sono assolutamente”.

Una volta Hopper ha testimoniato in un processo per lo stupro di una giovane marine compiuto da un ufficiale superiore. La donna disse che l’ufficiale l’aveva aggredita un sabato sera dopo una festa, tenendola ferma e togliendole i vestiti. La difesa sostenne che l’addestramento militare della marine avrebbe dovuto rendere impossibile lo stupro. Hopper spiegò che la soldata non stava combattendo contro un nemico su un campo di battaglia, quindi il suo addestramento militare non aveva avuto effetto. Invece, aveva risposto nel modo in cui aveva sempre fatto quando voleva porre fine alle avance indesiderate degli uomini: gli aveva gentilmente chiesto di smettere.

Secondo Sunda TeBockhorst, psicologa del Colorado che ha cominciato a studiare l’immobilità tonica nel contesto delle aggressioni sessuali più di vent’anni fa, le vittime che non hanno un linguaggio o un quadro di riferimento per comprendere la loro immobilità tonica spesso le daranno un senso attribuendosi delle colpe. Alcune, ha osservato, appena comincia l’aggressione si chiedono cosa potranno dire o pensare gli altri. L’aggressione sessuale, mi ha detto, è l’unico tipo di reato in cui ha visto una vittima accusata di essere complice del suo essere stata terrorizzata.

TeBockhorst si è imbattuta per la prima volta nell’immobilità tonica intorno al 2000, quando, lavorando come consulente per alcune sopravvissute, ha incontrato un uomo, padre single, che le ha raccontato di essersi svegliato una notte per un rumore di spari e di aver pensato che ci fosse qualcuno in casa e stesse uccidendo i suoi figli. Le ha raccontato che voleva aiutarli ma non riusciva a muoversi o a urlare. Ha detto di essersi paralizzato. I suoi occhi erano bloccati sui numeri rossi della sveglia digitale. Quando finalmente è riuscito a muoversi di nuovo, ha ritrovato i figli, spaventati ma vivi. Le ha riferito che nessuno era entrato in casa, che c’erano stati degli spari ma che non avevano colpito né lui né la sua famiglia.

La reazione dell’uomo ha ricordato a TeBockhorst le storie che aveva sentito quando, da studente, era stata volontaria in un centro antistupro in North Carolina. Ma se tanti avevano vissuto una paralisi involontaria, perché nessuno ne parlava?

L’immobilità tonica si è evoluta come meccanismo di difesa contro i predatori

Sul padre single, la cui salute mentale si è aggravata dopo aver vissuto l’immobilità tonica, TeBockhorst ha detto: “Per lui quello che è successo dopo la sparatoria è stato più rilevante del fatto in sé”. L’immobilità tonica non era presa in considerazione da nessuno e lui si torturava pensando di non aver saputo aiutare i suoi figli.

Nel 2012, Rebecca Campbell, psicologa della Michigan state university, ha presentato un’analisi su più di dodici anni di dati relativi a casi di violenza sessuale rimasti fuori dai tribunali. Il problema, ha scoperto, era cominciato con la polizia: in sei giurisdizioni, in media l’86 per cento delle denunce non aveva avuto seguito. In circa il 70 per cento dei casi gli agenti avevano consigliato di non sporgere denuncia. Interrogando la polizia Campbell ha scoperto che non si trattava di malafede, ma di una scarsa conoscenza del comportamento delle persone aggredite. Liquidavano sistematicamente le denunce di stupro perché non comprendevano le comuni reazioni fisiologiche al trauma e pensavano che quelle persone mentissero. I casi venivano archiviati prima ancora di essere indagati a fondo.

Quando Campbell ha chiesto a un detective che aveva lavorato per quindici anni in un’unità specializzata in crimini sessuali cosa succedeva quando le vittime denunciavano un’aggressione, lui ha risposto: “Dicono cose senza senso”, aggiungendo che non sempre credeva alle loro parole e “glielo facevo capire”. Camp­bell ha constatato che le risposte dei colleghi erano simili. Ha suggerito che se gli investigatori avessero davvero voluto aiutare le vittime, avrebbero dovuto comprendere la neuroscienza che è alla base delle comuni reazioni di una persona aggredita.

Hopper fa parte di un gruppo sempre più folto di insegnanti che forniscono questo tipo di formazione per la polizia e i procuratori, per gli investigatori e gli amministratori dei campus e per importanti organizzazioni come l’esercito degli Stati Uniti, l’associazione End violence against women international (Mettiamo fine alla violenza contro le donne nel mondo) e la Rape, abuse & incest national network (Rete nazionale contro lo stupro, l’abuso e l’incesto). Il punto non è insegnare a fare diagnosi, ma piuttosto aiutare le persone che interagiscono con chi ha subìto uno stupro a riconoscere i propri pregiudizi.

Nel 2019 Nancy Oglesby, procuratrice, e Mike Milnor, ex agente di polizia, si sono rivolti all’esperienza di Hopper per approfondire la base scientifica della formazione che stavano offrendo alla polizia e ai procuratori. Oglesby e Milnor si erano occupati per molti anni di casi di violenza sessuale e conoscevano i modelli di comportamento delle vittime, compresi quelli apparentemente controintuitivi come il freezing, la paralisi, l’estrema passività e la gentilezza. Ma inizialmente non avevano una base scientifica per spiegarli.

La polizia spesso seguiva una tecnica d’interrogatorio in base alla quale se una dichiarazione non era dettagliata, oppure presentava lacune o incongruenze, la persona stava mentendo. E i pubblici ministeri spesso evitavano di andare in tribunale se ritenevano di non poter presentare un caso solido. “Quando nelle dichiarazioni c’erano molti ‘non so’, ‘non ricordo’, questo creava problemi probatori”, mi ha detto Oglesby. La procuratrice descrive un caso che ha archiviato perché non riusciva a dare un senso al racconto. Una giovane donna era stata violentata per un’ora nella stanza che condivideva con una coinquilina. La vittima ha detto che durante lo stupro nessuno aveva bussato alla porta. Quando il detective ha parlato con la coinquilina, questa ha detto di aver bussato alla porta e di aver urlato. “Perché la vittima non se lo ricordava?”, si era chiesta Oglesby.

Con una maggiore conoscenza del funzionamento del cervello, ha imparato che alcune risposte al trauma possono modificare l’attenzione delle persone e quindi i ricordi che hanno di un’esperienza. Una vittima può concentrarsi su dettagli che gli investigatori possono ritenere irrilevanti, ma che il suo cervello elabora come importanti per la sopravvivenza, che si tratti del colore di un muro o di una canzone che suona in corridoio o del disegno delle venature di una foglia su una pianta a pochi metri di distanza. Ma potrebbe non sapere il colore della maglietta che indossava il suo aggressore e nemmeno se indossava un preservativo. “Quello che sappiamo oggi”, ha detto Oglesby, “è che la loro capacità di spiegare l’evento è molto legata alle percezioni sensoriali” di cui prendevano coscienza mentre si svolgeva l’aggressione.

Katrien De Blauwer

L’agente Milnor ha detto che all’inizio della sua carriera era più difficile comprendere comportamenti come il freezing e l’immobilità tonica. E ha ammesso di aver pensato che le dichiarazioni di alcune donne fossero troppo strampalate per essere vere. Ha cominciato a comprendere la natura dell’immobilità quando è stato incaricato delle notifiche di morte. La prima volta che ha bussato alla porta per comunicare a una famiglia che il figlio era appena morto in un incidente d’auto “la madre si è completamente immobilizzata”, racconta. “È diventata catatonica. Io e suo marito l’abbiamo adagiata sul divano come se fosse un robot. Era come assente, ma i suoi occhi erano ancora aperti”.

Ora Milnor sa che quando una donna dice di essersi paralizzata, può significare molte cose. “Bene, può dirmi qualcosa di più al riguardo?”, chiede. “Può dirmi quali sensazioni ricorda di aver provato? Ricorda il suono delle cose? Ci sono degli odori?’. Passo in rassegna i cinque sensi”, mi ha detto. Sono questi dettagli fisiologici, i sentimenti e le sensazioni che Milnor incoraggia a cercare nelle indagini.

Quando i pubblici ministeri ottengono questi dettagli possono far intervenire un esperto per testimoniare. “A quel punto abbiamo qualcosa da sottoporre alla giuria”, mi ha spiegato Oglesby. “La difesa cercherà di sostenere che tutti questi comportamenti lasciano supporre che la persona stia mentendo”. Lo stesso vale per i ricordi. “Noi cerchiamo di ribaltare la situazione”, ha detto Oglesby.

In uno studio britannico del 2009 su delle giurie simulate, Louise Ellison e Vanessa E. Munro hanno esaminato quali miti sullo stupro potevano essere influenzati dalla testimonianza di esperti sul comportamento della donna. I giurati che avevano ascoltato le spiegazioni per determinati comportamenti – la mancanza di angoscia nel raccontare l’aggressione al processo, per esempio, o il ritardo nel denunciare l’aggressione – ne avevano capito la rilevanza. Ma il mito che sembrava più radicato era che le donne devono tentare di resistere fisicamente allo stupro. Quando questo mito prende piede, notano Ellison e Munro, i giurati sono “poco ricettivi” alle indicazioni fornite dagli esperti.

In molti stati, per dimostrare che la donna non era consenziente, i procuratori devono ancora dimostrare che il contatto sessuale è stato forzato o ha incontrato una resistenza verbale o fisica. Moriah Schiewe, avvocata dell’Oregon, afferma che l’immobilità tonica rimane “un punto cieco nel sistema legale”.

Katrien De Blauwer

“Se pensiamo che la resistenza sia dire di no o reagire fisicamente”, mi ha detto Erin Murphy, docente alla facoltà di legge della New York university, “l’immobilità tonica non servirà ad accertare un rapporto non consensuale, perché il blocco fisico di solito non è interpretato legalmente come un ‘no’”. Murphy ritiene che ci siano ancora giurati convinti che le donne siano responsabili del freezing e che non riescono a riconoscere lo stupro se non c’è resistenza fisica.

Catrina Weigel, sostituta procuratrice distrettuale nella contea di Boulder, Colorado, ha detto che gli avvocati della difesa spesso controinterrogano le vittime facendo notare che “non hanno lottato. Come mai non hanno scalciato, non hanno morso, non hanno urlato?”. Deve affidarsi a esperti per spiegare la reazione della donna. Veronique Valliere è una di questi esperti. Psicologa forense, viene spesso chiamata a spiegare a giudici e giurati perché le vittime non oppongono resistenza o non cercano di fuggire, anche in casi di rilievo come il processo per stupro a carico di Bill Cosby. “Da un punto di vista medico e scientifico, per cambiare la percezione che si tratti di una mancanza di volontà dobbiamo capire che il freezing è involontario”, mi ha detto. “In termini di volontà, l’immobilità tonica non è diversa dalla recisione del midollo spinale, e questo aiuterà a rimuovere lo stigma, sia dal punto di vista sociale sia da quello legale”.

Anne Munch ha fatto l’avvocata per trent’anni in Colorado prima di cominciare a formare la polizia e i procuratori sulla neurobiologia del trauma. “Abbiamo troppi doppi standard per quanto riguarda il comportamento delle vittime”, ha detto. “Abbiamo troppe giustificazioni per il comportamento degli aggressori”. Sottolinea che chi indaga deve comprendere le comuni reazioni delle donne e che tutto parte dalle forze dell’ordine. “Io dico alla polizia: ‘La vostra risposta sarà determinante per il caso, e voi potreste spezzare la vita di una persona’”.

Munch mi ha raccontato di un rapporto di polizia che aveva ricevuto all’inizio della sua carriera. Una donna di vent’anni aveva incontrato degli amici in un bar e aveva bevuto troppo. Aveva chiamato un taxi per tornare a casa e l’autista l’aveva portata in un luogo isolato, aveva parcheggiato l’auto, poi era salito sul sedile posteriore e l’aveva violentata. Poi era tornato al posto di guida e l’aveva portata a casa. Lei aveva pagato e lui se n’era andato.

Imparare ad ascoltare

Munch pensò che doveva esserci dell’altro, così incontrò la giovane per un altro colloquio. Fece domande aperte che avrebbero dato alla donna un senso di controllo e si sforzò di sbloccare i ricordi chiedendo dei sensi. La donna raccontò che quando l’autista era salito sul sedile posteriore era chiaro che lo stupro sarebbe avvenuto, quindi aveva girato la testa e fissato la porta del taxi finché non aveva finito. Descrisse nei minimi dettagli il materiale della porta: vinile grigio con il motivo cucito di un’ellissi, una maniglia cromata con esattamente otto piccole rientranze dal basso verso l’alto.

Munch era appena uscita dal reparto abusi sessuali su minori e sapeva molto di dissociazione. La riconobbe subito. “Le sue normali risorse per affrontare il trauma erano state sopraffatte. Quello che stava succedendo era troppo grande, troppo brutto, troppo”. Inviò il suo investigatore alla compagnia di taxi con un mandato di perquisizione e tutto era esattamente come descritto dalla donna. Munch disse alla difesa che avrebbe raccomandato di far parlare un esperto di traumi al processo. “Se questo sesso era così bello e consensuale, allora perché la ragazza gira la testa e memorizza gli interni del taxi?”, ha ricordato Munch. L’autista si dichiarò colpevole e questo evitò alla donna di andare a processo.

Katrien De Blauwer

Nella primavera del 2023, Oglesby e Milnor hanno parlato a un gruppo di circa trenta persone presso la Central Shenandoah criminal justice training academy (l’accademia di formazione per la giustizia criminale) di Weyers Cave in Virginia, per un corso sulle indagini nei casi di violenza sessuale basate sullo studio delle esperienze traumatiche. Nella sala c’erano agenti di polizia regolari e dei campus, agenti delle unità speciali per le vittime, detective, avvocati, assistenti sociali, operatori delle linee telefoniche antiviolenza e agenti della Cia.

Una parte del corso è stata dedicata a insegnare al gruppo come creare l’atmosfera migliore per interagire con le vittime, in modo che possano fidarsi dell’intervistatore e sentirsi abbastanza a proprio agio da descrivere quello che gli è successo. L’empatia è fondamentale per ottenere resoconti accurati delle loro esperienze. Milnor e Oglesby consigliano di porre domande aperte. Non interrompere. Non aspettarsi che il ricordo sia lineare. Accettare il silenzio. Prestare attenzione ai dettagli e alle sensazioni. Hanno ricordato al gruppo che la polizia non deve imporre alle donne un linguaggio clinico o fare diagnosi. Deve semplicemente raccogliere informazioni – ascoltando e documentando le risposte razionalizzate al trauma – e consegnarle al procuratore, che può poi portare in tribunale un esperto, se opportuno, per fornire la spiegazione scientifica.

Quando il gruppo ha cominciato a fare pratica, con attori teatrali che interpretavano veri casi di stupro, alcuni agenti di polizia hanno cercato di adattarsi a questa nuova modalità di interrogatorio. Una poliziotta ha confessato di aver cercato a lungo di usarla, ma si è sorpresa di quanto fosse difficile abbandonare le cattive abitudini. L’unica cosa che conosceva era l’interrogatorio. “Era come aggredire le donne una seconda volta”, ha detto. “E voglio migliorare”.

Quando il gruppo si è riunito, Milnor ha abbassato le luci e acceso un proiettore. Su uno schermo c’erano le pagine del taccuino di un investigatore: la donna aveva parlato per cinque ore, ha spiegato, e il detective aveva scritto tutto senza interromperla. Gli appunti somigliavano a una mappa con arcipelaghi di parole inframezzate da oceani di spazio vuoto, e decine di frecce collegavano le isole per formare un unico racconto. “È così che apparirà”, ha detto. Tutto questo era stato verbalizzato dopo che il detective aveva posto un’unica domanda: cosa sei in grado di dirmi della tua esperienza?

Milnor ha sottolineato che le domande successive potrebbero aiutare a svelare le esperienze che si celano dietro i ritornelli “mi sono bloccata” o “non riuscivo a urlare” o “non so perché, ma non ho fatto niente”. L’approccio ha dato alle donne la possibilità di descrivere le aggressioni sessuali subite in modi che erano sempre stati considerati irrilevanti. Senza questo approccio, le vittime potrebbero avere un tipo di paralisi più lungo e pervasivo. “Credo che per molto tempo non abbiamo voluto accettare che questo fosse il modo in cui raccontavano le loro storie”, ha detto Milnor.

“Quanti di voi”, ha chiesto a un certo punto, “ricordano di aver incontrato una donna che ha fatto qualcosa per cui avete semplicemente scosso la testa e pensato: ‘Aspetta, non ha senso’?”. Molti hanno annuito e si sono mossi imbarazzati sulle sedie. “Ricordate quante volte abbiamo giudicato una sopravvissuta perché non capivamo il suo comportamento? Magari il giorno dopo aveva scritto un messaggio al suo aggressore dicendo: ‘Ehi, ti sei divertito?’”. Altri cenni di assenso.

Milnor ha assicurato al gruppo che anche lui l’aveva fatto. Ha detto che il modo in cui un tempo rispondeva alle vittime lo tiene ancora sveglio la notte: “Ho aggredito di nuovo donne e uomini per ignoranza e mancanza di formazione”.

Ha scosso la testa e ha chiuso gli occhi. “Oggi”, ha detto, “insegno avendo imparato dai miei errori”. ◆ svb

Jen Percy è una giornalista statunitense che collabora con il New York Times. Sta per pubblicare Girls play dead, un libro sulle strategie di sopravvivenza delle donne aggredite.

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Questo articolo è uscito sul numero 1537 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati