Strano posto per un ingorgo. Nel bel mezzo dell’Amazzonia, ai lati della strada Br-163 che attraversa lo stato brasiliano del Pará, si alternano giungla e pascoli. Ma sull’asfalto, per tutto l’anno, c’è una fila ininterrotta di camion. Nelle stazioni di servizio centinaia di questi mostri lunghi venticinque metri e pesanti più di trenta tonnellate si fermano per una pausa nel caldo afoso. Quando non guidano, gli autisti si riposano all’ombra dei loro autocarri, aprono le sedie pieghevoli e si bevono una bibita gassata. La maggior parte percorre più di mille chilometri in 48 ore, partendo dai campi del vicino stato del Mato Grosso. Devono arrivare al porto di Miritituba, detto “Miri”, sul rio Tapajós, dove spesso aspettano giorni per scaricare la merce.

Trasportano un solo prodotto: la soia. Il Brasile in pochi anni è diventato il primo produttore del mondo, con 156 milioni di tonnellate nel raccolto 2022-2023 (cinque volte la produzione europea di semi oleosi) su una superficie di 44 milioni di ettari (l’estensione di Germania, Belgio e Paesi Bassi messi insieme). Il Mato Grosso da solo contribuisce a un terzo della produzione nazionale.

Questo piccolo chicco rotondo è ormai l’oro verde del Brasile. Il paese è anche il primo venditore e soddisfa la metà della domanda mondiale, con 95 milioni di tonnellate esportate all’anno. L’intero settore (semi, ma anche olio e mangimi animali) ha fruttato al Brasile 61 miliardi di dollari nel 2022, quasi un quinto delle entrate che il paese registra dalle esportazioni. Una ricchezza che aiuta a capire perché c’è tutto quel traffico in Amazzonia.

Richiesta di proteine

Anche se il Brasile è una potenza agricola, non era necessariamente predestinato a diventare il leader della soia. Questa leguminosa della famiglia delle fabacee, che raggiunge una lunghezza di un metro e mezzo, cominciò a essere coltivata tra il 6000 e il 3500 aC nelle pianure della Cina. I suoi semi oleosi arrivarono in Europa nel settecento e subito svelarono un potenziale commerciale. Questo “fagiolo magico” ha un alto contenuto di proteine (40 per cento) e lipidi (18 per cento), e può essere impiegato in vari modi: olio, margarina, fertilizzanti, cosmetici, combustibili, fibre, farine e panelli (i residui della spremitura dei semi) destinati al consumo animale.

Nel novecento gli Stati Uniti trasformarono la soia in una cash crop (una coltura da reddito, diversa da quelle di sussistenza). Dopo la seconda guerra mondiale la domanda di proteine s’impennò e quindi anche quella dei mangimi per le mucche, i maiali, il pollame e i pesci. Washing­ton sovvenzionò il settore e inondò di soia il mercato europeo. Nel 1965 gli Stati Uniti controllavano il 75 per cento del mercato mondiale della soia. Ma il successo durò poco: i raccolti del 1973 furono catastrofici. Per evitare penurie, il presidente Richard Nixon decretò l’embargo sulle esportazioni. Fu allora che entrò in scena il Brasile.

Ai tropici la soia era stata introdotta tardi, piantata da alcuni agronomi di Bahia nel 1882, prima di essere coltivata in piccoli campi dagli immigrati giapponesi, numerosi negli stati meridionali del Rio Grande do Sul e del Paraná. Quando all’inizio degli anni settanta la giunta militare al potere in Brasile incoraggiò gli agricoltori a popolare il vasto entroterra per occupare l’Amazzonia e le pianure della regione Centro Ovest, la soia era solo una delle tante colture promosse.

Ma presto avrebbe assunto un’importanza fondamentale. Nel 1978 la Cina di Deng Xiaoping avviò progressivamente le riforme per diventare una potenza economica. La neonata classe media urbana cinese passò dall’indigenza a una dieta ricca di proteine. Così nel paese più popoloso del mondo esplose la domanda di carne di maiale e di pollo. Pechino doveva urgentemente trovare di che sfamare gli animali. E si rivolse al Brasile.

“A quell’epoca la Cina ospitava il 20 per cento della popolazione mondiale, ma solo l’8 per cento dei terreni agricoli e il 5 per cento delle risorse idriche. Gli apparati governativi dovettero trovare un compromesso. Decisero di essere autosufficienti sul riso, il grano e il mais, e d’importare gran parte della soia che gli serviva”, spiega Larissa Wachholz, esperta di Cina al Centro brasiliano di relazioni internazionali di Rio de Janeiro.

Il legume diventò una priorità per la dittatura brasiliana. Nel 1979 il programma Prodecer sviluppò l’agricoltura nel Centro Ovest con i finanziamenti dell’Agenzia giapponese per la cooperazione internazionale (Jica). All’Embrapa, l’agenzia nazionale di ricerca agricola, fu chiesto di trovare una varietà di soia da coltivare su un’area grande tre volte la Francia, che comprendeva gli attuali stati del Mato Grosso, del Mato Grosso do Sul e del Goiás. La regione era coperta da una savana dalla terra scura: il Cerrado.

“Fu un lavoro impegnativo”, ricorda Alexandre Nepomuceno, capo del dipartimento dell’Embrapa dedicato alla soia. “Il Cerrado è pianeggiante, quindi era ideale per le macchine agricole, ma ha un suolo molto acido. Inoltre ai tropici le giornate sono brevi, gli insetti proliferano e attaccano le colture. La soia non decollava”. In tempi record l’agenzia riuscì a produrre una varietà adatta alla savana. Fu chiamata doko e lanciata nel 1980.

La crescita della produzione fu sbalorditiva: tra il 1990 e il 2020 è raddoppiata ogni dieci anni. Il Brasile ha raggiunto e superato gli Stati Uniti (che oggi controllano il 38 per cento del mercato mondiale) ed è diventato un punto di riferimento nella ricerca agronomica. “L’Embrapa possiede la seconda banca di materiale genetico della soia più grande del mondo, con più di 65mila campioni”, si vanta Nepomuceno.

Un impianto di stoccaggio della soia a Sinop, nello stato del Mato Grosso. 1 febbraio 2022 (Tommaso Protti)

Sfida logistica

Questo non è il primo boom economico per il Brasile, un paese la cui storia è stata segnata da cicli basati sull’esportazione di enormi quantità di materie prime. Quando nel cinquecento arrivarono i portoghesi c’era il legno di pernambuco, seguito nei secoli successivi dalla canna da zucchero, dall’oro, dal cotone, dal cacao, dal caffè e dalla gomma. Sterminio delle popolazioni indigene, schiavitù, espansione di città come Salvador, Recife, Rio de Janeiro, São Paulo e Manaus. Ognuno di questi cicli lasciò il segno, rimodellando profondamente il paese.

La soia non ha fatto eccezione. La sua coltivazione ha lanciato economicamente il Centro Ovest, una regione che era stata trascurata ma che oggi compete con quelle di São Paulo e di Rio. Produce la metà della soia brasiliana, con tassi di crescita incredibilmente alti: fino al 10,3 per cento nel Mato Grosso nel 2022. A Sinop, una delle “capitali del legume”, la popolazione è raddoppiata in un decennio, e oggi ha raggiunto i 200mila abitanti. La sua ricchezza pro capite è paragonabile a quella della Germania.

Per esportare la soia, raccolta tra gennaio e aprile, è stata costruita una grande infrastruttura. A nord, dalla strada Br-163, che attraversa il Mato Grosso fino a Miritituba, i carichi passano dai porti dell’Amazzonia e poi da quelli sull’oceano A­tlantico. A sud seguono un percorso fatto di strade e ferrovie, che conduce ai grandi porti di Santos e Paranaguá. Dal nordest, invece, sono convogliati verso i terminal di Salvador e São Luís.

La sfida logistica è notevole ed “è facile che si crei il caos”, confessa Luiz Fernando Garcia da Silva, direttore del porto di Paranaguá, che accoglie ogni mese i carichi di sessantamila camion. “Per evitare la congestione del traffico c’è un’applicazione che consente ai camionisti di prenotare una finestra oraria per consegnare la merce”, aggiungendo che “per migliorare la circolazione ferroviaria sono stati investiti 700 milioni di real”, cioè 132 milioni di euro.

La soia ridefinisce il posto del Brasile nel mondo. È “un’importante leva di potere e un pilastro dell’inserimento del Brasile in un nuovo ordine mondiale multipolare”, osserva Gustavo Oliveira, docente della Clark university, in Massachusetts, e autore di vari studi sul tema.

I coltivatori di soia brasiliani non esitano a interferire con la politica locale in Bolivia e in Paraguay, nel campo dei conservatori

In primo luogo, influisce sulle relazioni con la Cina, che riceve l’80 per cento della soia brasiliana. Sulla carta i due giganti del cosiddetto sud globale stanno vivendo un momento di grande intesa. Dal 2009 Pechino è il primo partner commerciale di Brasília e rappresenta un terzo dei suoi scambi commerciali con l’estero. I tradizionali alleati occidentali sono molto lontani: 15 per cento con l’Unione europea e 11 per cento con gli Stati Uniti.

Lo spostamento verso sud è stato evidenziato nell’aprile scorso dalla visita a Pechino del presidente Luiz Inácio Lula da Silva, che ha guidato una delegazione di 240 imprenditori, novanta dei quali del settore agricolo. Definito un “vecchio amico” da Xi Jinping, Lula è stato ricevuto con tutti gli onori. Sono stati firmati 35 accordi commerciali, per un totale di 9,5 miliardi di euro. Al confronto, i viaggi di Lula a Washington a febbraio e a Bruxelles a luglio sono sembrati delle semplici visite di cortesia. “I cinesi sanno quant’è importante la soia per la loro economia. E curano i rapporti con i brasiliani”, commenta Darin Friedrichs, consulente agricolo che lavora a Shanghai.

Il Brasile è uno dei pochi paesi che esporta in Cina molto più di quello che importa, registrando un saldo decisamente positivo: fino a 43,4 miliardi di dollari nel 2021. E questo è un motivo per ricevere un trattamento di riguardo, sostiene Andréa Curiacos Bertolini, consigliera per l’agricoltura del governo brasiliano tra il 2019 e il 2023, ai tempi di Jair Bolsonaro. “Da un punto di vista strategico la Cina dipende dal Brasile”, afferma. “Per i cinesi l’alternativa sarebbe comprare dagli statunitensi. Ma a causa dell’attuale guerra commerciale preferiscono trattare con noi”.

Lo scontro con la Francia

Un tempo ossequiosi con gli alleati occidentali, oggi i brasiliani si mostrano più ostili, a tratti arroganti. Lo testimonia uno scambio di battute tra il presidente francese Emmanuel Macron e quello brasiliano Bolsonaro nel gennaio 2021. Macron aveva invitato l’Europa a “non dipendere dalla soia brasiliana”. La replica ironica di Bolsonaro era stata: “Per l’amor di Dio, signor Macron, non comprate soia brasiliana! E smettetela di dire idiozie!”.

Queste parole erano state apprezzate dai coltivatori brasiliani di soia, i sojeiros, ceto emergente del Centro Ovest, formato per lo più da ultraconservatori, evangelici, affezionati alle armi da fuoco. Alle presidenziali del 2022 Bolsonaro ha ottenuto in questa regione alcuni dei risultati migliori, con il 65 per cento dei voti nel Mato Grosso e il 77 per cento a Sinop.

“Molti sojeiros sono ultranazionalisti, complottisti patologici, ossessionati dalla minaccia comunista”, commenta un operatore europeo del settore.

La soia ha inoltre modificato il panorama in Sudamerica. Tra i paesi produttori (Brasile, Argentina, Paraguay, Bolivia e Uruguay), “c’è una totale integrazione dei processi produttivi, dalle sementi fino ai macchinari. Una ‘repubblica unita della soia’”, osserva Oliveira della Clark university. La situazione favorisce innanzitutto il Brasile che, con il suo settore privato, esercita “una forma d’imperialismo regionale”.

Lo si vede soprattutto in Paraguay e in Bolivia, rispettivamente sesto e decimo produttore mondiale di questo legume. Lì i sojeiros brasiliani sono numerosi, in particolare nelle zone di confine, come il dipartimento boliviano di Santa Cruz o quello paraguaiano dell’Alto Paraná. Secondo le statistiche, spesso imprecise, controllano tra il 50 e l’80 per cento delle coltivazioni nei due paesi. I sojeiros non esitano a interferire con la politica locale, nel campo dei conservatori. Alcuni mezzi d’informazione hanno trovato le prove del loro sostegno anche finanziario alle campagne per destituire i presidenti di sinistra Fernando Lugo in Paraguay nel 2012 ed Evo Morales in Bolivia nel 2019, che cercavano di ripartire le terre in modo più giusto. In quest’operazione hanno avuto l’aiuto, la protezione o il via libera delle autorità di Brasília.

In Paraguay i coltivatori venuti dal Brasile appoggiano da tempo il partito conservatore Colorado, vincitore delle elezioni ad aprile. In Bolivia hanno puntato ancora più a destra sostenendo Luis Fernando Camacho, fondamentalista cristiano di estrema destra e candidato alle presidenziali del 2020. Il “Bolsonaro boliviano” ha ottenuto il 14 per cento dei voti a livello nazionale e il 45 per cento a Santa Cruz, riuscendo a farsi eleggere governatore.

La soia è quindi un’arma geopolitica a doppio taglio? In America Latina il risentimento alimenta discorsi estremi e xenofobi

Il Brasile usa la soia come strumento di potere anche in Africa. Nel 2009 Lula, verso la fine del suo secondo mandato e al culmine della sua popolarità, cercò di rafforzare i legami con il continente. Portò avanti un progetto ambizioso di sviluppo dell’agricoltura, e della soia in particolare, in Mozambico, paese lusofono con una savana che ha caratteristiche paragonabili a quelle del Cerrado. Il programma mozambicano ProSavana prendeva ispirazione dal Prodecer dei tempi della dittatura militare.

“Si volevano mettere insieme le competenze agronomiche brasiliane, i capitali dell’agenzia giapponese Jica e le terre mozambicane. Sulla carta l’idea era seducente, piena di buone intenzioni”, ricorda Boaventura Monjane, giornalista e attivista mozambicano, esperto di movimenti sociali. Ma presto arrivarono critiche: ProSavana “presupponeva l’espropriazione di undici milioni di ettari nel corridoio di Nacala, nel nord del paese, dove vivevano quattro milioni di contadini che rischiavano di restare senza campi”, continua Monjane. Oltre alle ricadute ambientali, il progetto minacciava le fondamenta costituzionali del Mozambico, dove la terra appartiene allo stato e non può essere ceduta agli interessi privati.

“Era un progetto neocoloniale, che stupiva perché non veniva dagli occidentali ma dal ‘sud’, da brasiliani che si presentavano come benefattori”, si arrabbia Monjane, che all’epoca partecipò a un grande movimento della società civile per fermare ProSavana. L’impresa è riuscita: nel 2020, dopo dieci anni, il programma è stato ufficialmente abbandonato.

La soia quindi è un’arma geopolitica a doppio taglio? In America Latina il risentimento alimenta discorsi estremi, se non addirittura xenofobi. In Paraguay, che combatté contro il Brasile nel corso di un sanguinoso conflitto tra il 1864 e il 1879, durante la guerra della Triplice alleanza (costata la vita a metà della popolazione paraguaiana), nel 2019 il leader populista di estrema destra Paraguayo Cubas, detto Payo, ha promesso di uccidere “centomila banditi brasiliani” che secondo lui erano presenti nel paese. Alle presidenziali di aprile è arrivato terzo, con il 23 per cento dei voti.

Regolamento europeo

Ma è l’aspetto ambientale che offusca maggiormente la reputazione del Brasile. A causa della coltivazione di soia il Cerrado ha subìto una deforestazione selvaggia e la sua biodiversità è stata distrutta. Sempre secondo l’istituto di ricerca indipendente Trase 3,6 milioni di ettari di savana sono stati cancellati tra il 2013 e il 2020 per far posto alle coltivazioni. Anche gli altri biomi sono in pericolo. Secondo Trase, 76mila ettari di foresta amazzonica sono stati convertiti al legume nel 2020, il doppio rispetto al 2013. “La soia avanza fino al cuore della foresta. Il Mato Grosso è considerato un modello di prosperità da seguire”, si lamenta Sergio Sauer, studioso di sviluppo rurale dell’Università di Brasília.

I “cocktail” transgenici inventati dall’Embrapa e usati dai sojeiros si fondano sulla resistenza al glifosato, un potente diserbante. Appena il 4 per cento dei legumi coltivati in Brasile nasce da sementi tradizionali, non ogm. Ogni anno si riversano sul Cerrado 600 milioni di litri di pesticidi.

“Questa cifra continua ad aumentare, in presenza di insetti più resistenti, con conseguenze sanitarie gravissime per le popolazioni toccate dalle irrorazioni”, critica Althen Teixeira Filho, biologo dell’università di Pelotas, nel Rio Grande do Sul.

Ai problemi ambientali si aggiungono l’espropriazione delle terre, l’occupazione delle riserve indigene e l’impoverimento del suolo. La situazione ha spinto l’Unione europea ad adottare un regolamento entrato in vigore il 9 giugno, che vieta l’ingresso sul mercato interno di prodotti provenienti da campi ottenuti con la deforestazione. “La preoccupazione per l’ambiente è forte in occidente, e sta crescendo anche in Cina”, osserva Wachholz del Centro brasiliano di relazioni internazionali.

Questo agita i coltivatori. “Dobbiamo eliminare il legame con la deforestazione”, commenta André Nassar, presidente dell’Associazione brasiliana delle industrie degli oli vegetali (Abiove). “Dal 2006 non compriamo più soia prodotta in Amazzonia. Entro il 2025 non commercializzeremo più soia ricavata con la deforestazione”. La sua risposta non convince le ong, che fanno notare l’assenza di una data a partire dalla quale non si dovrà più procedere con il disboscamento.

I sojeiros continuano a credere in un futuro radioso. “Il Brasile non ha concorrenti in vista”, continua André Nassar.

Entro il 2032 il dipartimento dell’agricoltura statunitense prevede un aumento del 50 per cento della domanda cinese di soia, oltre a una forte crescita in Medio Oriente e in Asia meridionale, in particolare in Pakistan, Turchia e Vietnam. Per allora le esportazioni del gigante sudamericano dovrebbero rappresentare il 60 per cento del mercato mondiale, contro il 28 per cento di quelle statunitensi.

Economia
Le potenze della soia
Produzione di soia, milioni di tonnellate (Fonti: Ourworldindata.org, Cnuced, Le Monde)

“Il Brasile può permettersi di essere arrogante, è l’unico paese in grado di aumentare enormemente la sua superficie agricola: fino a 20 milioni di ettari nei prossimi cinque o sette anni”, afferma Dan Basse, presidente di AgResource, una società di consulenza agronomica statunitense, con sede a Chicago.

“La soia può anche diventare di gamma più alta”, sottolinea Nepomuceno dell’Embrapa. Sono in corso dei test per migliorare la sua conversione in bioplastica e biocarburante. “La soia brasiliana è un prodotto durevole, e lo sarà per decenni”, taglia corto Bertolini, l’ex consigliera del governo.

Altri ne dubitano e pensano che il Brasile abbia solo approfittato di una congiuntura favorevole. La pandemia di covid-19 e la guerra in Ucraina hanno fatto salire i prezzi del legume: sessanta chili sono valutati 1.300 dollari, contro gli 830 del 2019. Sono prezzi esageratamente alti, che rischiano di sgonfiarsi. Anche il cambiamento climatico potrebbe avere delle conseguenze: secondo l’Istituto di ricerca ambientale dell’Amazzonia, l’aumento di un grado delle temperature corrisponderebbe a un calo del 6 per cento della resa della soia nel Cerrado.

Più danni che benefici

Infine, un’altra minaccia incombe sul settore. “Il governo cinese sta cercando di ridurre la sua dipendenza dalla soia brasiliana e diversificare gli approvvigionamenti”, nota Wachholz. Nel 2022 Pechino ha lanciato un piano per aumentare del 40 per cento la resa delle proprie colture e, secondo diverse fonti, avrebbe intenzione di piantare il legume nelle savane africane. “I brasiliani pensano che la Cina avrà sempre bisogno di loro, ma resteranno fregati da questa pseudo-amicizia tra paesi del sud”, commenta un osservatore.

“Nella filiera produttiva il Brasile è solo un banale intermediario”, afferma il ricercatore Gustavo Oliveira. Esclusa la produzione, il settore è controllato dall’occidente: la commercializzazione dai giganti statunitensi Cargill, Bunge, Adm e dal gruppo francese Louis-Dreyfus; i fertilizzanti dai tedeschi della Bayer o della Basf; il trasporto marittimo dalle multinazionali Cma Cgm, Maersk e Msc. Il prezzo è fissato alla lontana borsa di Chicago.

“La soia dà al Brasile l’illusione di essere una potenza geopolitica. Ma provoca più danni che benefici. Peggio ancora, mantiene il paese in uno stato arretrato, senza industria, senza innovazione, imperniato sulle materie prime e sulla distruzione della natura”, denuncia Gustavo Oliveira.

Non sembra che le parole del ricercatore siano ascoltate. In Amazzonia, sulla Br-163, le code di camion continuano ad allungarsi. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1537 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati