Nazanine Hozar (Tenille Campbell)

Non voluta dal padre e abbandonata dalla madre, nel 1953 una neonata è trovata sotto un gelso nel ricco nord di Teheran. Mentre la riporta nelle povere case popolari della parte meridionale della città, Behrouz – un autista dell’esercito orfano di madre – la chiama Aria. Di solito è un nome maschile che significa “la razza iraniana”, ma Behrouz intende la parola nel senso di motivo melodico. Questa ambiguità continua, perché crescendo Aria oscilla tra categorie opposte: ricca e povera, istruita e analfabeta, musulmana sciita ortodossa e qualcos’altro. I vicini di Behrouz sono per lo più ostili a questa figlia illegittima. “Scommetto che con quegli occhi blu quella ragazza è un’ebrea o la figlia di un jinn”, dice uno. E la moglie di Behrouz, Zahra, la prima di una serie di figure materne negative, la picchia e la trascura, chiudendola spesso fuori sul balcone. Alla fine Aria fugge da Zahra, e fa un salto di classe quando viene adottata da Fereshteh, erede senza figli di una famiglia di ex zoroastriani, un tempo argentieri degli scià. Bambina esuberante, incline a lanciare cose in giro e a fare domande imbarazzanti, Aria si adatta a una vita confortevole nel nord di Teheran, fatta di parchi, gelaterie e scuole moderne. Se Aria incarna la complessità iraniana, la storia della sua giovinezza serve come veicolo per la storia nazionale del quarto di secolo che porta alla rivoluzione islamica del 1979. Hozar mostra al lettore le divisioni economiche e i risentimenti crescenti che hanno fatto precipitare il cambiamento. La tensione sociale aumenta costantemente man mano che il romanzo procede. E il metodo di descrivere l’ambiente politico paranoico e sempre più febbrile dal punto di vista dei bambini e degli adolescenti è sorprendentemente efficace, perché comunica informazioni storiche insieme a un senso generale di confusione. La sezione finale comprende coprifuoco, rivolte, carenze di cibo e cecchini sui tetti, e poi il ritorno trionfale di Khomeini dall’esilio. Aria è un libro enormemente piacevole, pieno di espedienti artistici, descritto da Margaret Atwood come “un Dottor Živago dell’Iran”. La sua abile fusione di dramma personale e politico, insieme al suo ampio respiro, alla ricchezza dell’ambientazione e alla vitalità dei personaggi, gli dà qualcosa di epico.
Robin Yassin-Kassab, The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1430 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati