La condanna a quattro anni di detenzione emessa il 6 dicembre da un tribunale birmano sembra solo la prima di una serie di sentenze che mirano a tenere in carcere per decenni la consigliera di stato Aung San Suu Kyi, il presidente Win Myint e altri esponenti del precedente governo. Le accuse di “incitamento contro l’esercito” e “violazione delle leggi sul covid-19” sono ridicole. Le sentenze non servono solo a mettere fine alla carriera politica di Suu Kyi e a smantellare il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (Nld), ma anche a indebolire il movimento democratico. Dopo il colpo di stato del febbraio 2021 sono stati uccisi più di 1.300 manifestanti. Migliaia di birmani sono stati arrestati, tra cui tutti i membri del governo guidato dell’Nld. Spesso i processi sommari sono stati celebrati per strada. Il messaggio dell’esercito non è rivolto solo alla Birmania, ma è una sfida alla comunità internazionale, rimasta a guardare quando la pulizia etnica dei rohingya (di cui il governo dell’Nld è stato complice) ha spinto milioni di persone a rifugiarsi nei campi profughi in Bangladesh e poi quando un governo eletto democraticamente è stato rovesciato. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si è limitato a chiedere la fine delle violenze e il ritorno della democrazia, oltre a sospendere il seggio del paese. La Cina, che ha profondi legami con i militari e ha investito molto nel corridoio economico sino-birmano, protegge la Birmania dalle sanzioni, e gli Stati Uniti non sono riusciti a ottenere alcun risultato.

Ironia della sorte, le condanne arrivano proprio nella settimana in cui Washington ospita un “vertice per la democrazia”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1439 di Internazionale, a pagina 19. Compra questo numero | Abbonati