Asmaa Alghoul (Slaven Vlasic, Getty)

La Striscia di Gaza è stata spesso descritta come luogo di violenza, di rassegnazione, di estremismi e di morte. C’è del vero naturalmente, però Gaza è anche molto di più. Asmaa Alghoul, nata nel 1982 nel campo profughi di Rafah, racconta con limpidezza e tenerezza tante cose note e altre inedite su cosa significhi nascere e vivere a Gaza. Nonostante tutto, scrive, “la gente qui ha continuato a ridere”. La sua stessa risata si sente nelle pagine della Ribelle di Gaza, una testarda gioia di vivere forte quasi quanto la rabbia e il dolore. Alghoul ha viaggiato molto e ha vissuto all’estero, capisce perché tanti suoi amici abbiano deciso di emigrare, ma le città occidentali “che grondano indifferenza” l’attraggono poco. È come se le privazioni e l’isolamento rendessero più umane le persone che vivono lì. “La vita a Gaza ha una forza tale che ti fa credere che la morte non esiste”, scrive Alghoul, “eccetto che in guerra”. La ribelle di Gaza, uscito per la prima volta nel 2016, è una lettera d’amore a un luogo non amato, un memoir scritto con il romanziere libanese Sélim Nassib che ha conosciuto al Cairo durante uno dei tanti periodi in cui doveva scappare per le minacce di morte che riceveva. Nella prefazione Nassib descrive il loro metodo di lavoro: appena avevano l’occasione di vedersi Alghoul raccontava e lui traduceva le sue parole in francese per poi rileggergliele in arabo. Viaggiare per chi vive a Gaza non è facile, e Nassib e Alghoul ci hanno messo quattro anni a finire il loro racconto. Il risultato però è immacolato. Nassib cancella ogni traccia della sua presenza e il libro ha un tono discorsivo e molto naturale, sembra una conversazione con un’amica volubile e affascinante. Più di ogni altra cosa Alghoul rifiuta di essere etichettata come vittima di Israele, di Hamas, degli uomini o delle donne della sua vita. I suoi studi, il lavoro di poeta e giornalista, le lotte (spesso la polizia di Hamas l’ha perseguitata per le libertà che si prendeva come donna), gli amori e le delusioni sono sempre punteggiati dalle devastazioni di quello che Anghoul chiama “il nostro vicino pazzo, Israele”. “Ma io non piangerò”, dice, “scriverò, fino alla fine”. Il mondo sarebbe più povero senza la voce di Asmaa Alghoul, senza il suo calore, senza la sua furia e la sua risata. The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1552 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati