Riddance è un romanzo sconvolgente che si basa sull’idea dell’incomunicabile. Si svolge in un istituto per balbuzienti in cui una direttrice megalomane di nome Sybil Joines addestra i suoi alunni a parlare con i morti, un atto di negromanzia che a sua detta richiede una completa cancellazione del sé. La vicenda si svolge nel 1919, quando il fiorire dello spiritualismo e dello spiritismo coincideva con lo sviluppo delle moderne tecnologie della comunicazione. La contraddizione “di provare a pensare in modo razionale e scientifico a cose che sono immaginarie o spirituali” è il paradosso intellettuale che guida la scrittura di Shelley Jackson. Riddance è un assemblaggio frankensteiniano di finti ritagli di giornale, spartiti musicali, strane fotografie, diagrammi di esercizi di dizione e curiosità assurde tra cui una “mappa speculativa del necrocosmo”. Questi materiali sparsi (e mostruosi) sono rigorosamente organizzati in sezioni. Ce n’è anche una intitolata “Lettere a scrittori morti” che contiene un elenco di gotici corrispondenti come Edgar Allan Poe ed Emily Brontë. Nella sezione “Letture” ci sono estratti da un finto manuale intitolato Principi di necrofisica sul ventriloquio dei defunti che asserisce: “Per cedere la tua bocca alla voce di un altro devi sopprimere quella che un tempo pensavi fosse la tua voce”. Un’istruzione che sembra adattarsi sia alla comunicazione con i morti sia all’atto di scrivere romanzi. E Shelley Jackson non vede molta differenza tra le due cose.
Hermione Hoby, The New Yorker

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Questo articolo è uscito sul numero 1557 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati