Lo shock del nuovo, nella vita politica, ci fa pensare spesso al passato mentre cerchiamo una bussola intellettuale. Con l’ascesa di Donald Trump, Viktor Orbán, Jair Bolsonaro e altri leader autoritari, Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt, pubblicato nel 1951, ha goduto di una nuova ondata di attenzione e la stessa Arendt ha guadagnato lo status di profeta tra i democratici che cercavano di capire perché il loro mondo fosse finito così male. La minaccia del nazionalismo illiberale non è svanita, anzi, ma in un’epoca di razzismo, violenza della polizia ed eredità del colonialismo europeo in Medio Oriente e in Africa, la popolarità di Arendt è sempre più paragonata a quella di un uomo che lei criticava aspramente e ammirava a denti stretti: Frantz Fanon.

Psichiatra, scrittore e militante anticolonialista, cresciuto in una famiglia nera della classe media nella Martinica francese, Frantz Fanon (1925-1961) non era solo un pensatore, era anche un teorico politico e un acceso portavoce del movimento indipendentista algerino, il Fronte di liberazione nazionale (Fln), a cui si unì mentre lavorava come psichiatra a Blida, vicino ad Algeri. Fanon ha colto, come nessun altro nel suo tempo, la furia che l’umiliazione coloniale genera nel cuore dei colonizzati. Era anche un analista che riuscì a prevedere in modo straordinario i mali contemporanei: le durature ferite psicologiche del razzismo e dell’oppressione, la forza persistente del nazionalismo bianco e il flagello dei regimi postcoloniali autocratici e predatori.

Psichiatra e militante anticolonialista, cresciuto nella Martinica francese, Fanon era un teorico e un portavoce del movimento indipendentista algerino

Fanon scriveva al culmine della guerra fredda, ma, con grande preveggenza, considerava la lotta tra est e ovest uno spettacolo secondario e passeggero, di gran lunga meno importante delle divisioni tra nord e sud, tra il mondo ricco e il mondo povero. Se il mondo coloniale era, nelle sue parole, “tagliato in due”, il nostro mondo postcoloniale non sembra esserlo meno. Basti pensare alle risposte nettamente diverse nel nord e nel sud del mondo alle guerre in Ucraina e a Gaza, o al caso del Sudafrica che accusa Israele di genocidio.

Gran parte degli scritti che Frantz Fanon produsse nella sua breve vita – morì di leucemia a 36 anni – erano studi di casi psichiatrici oppure libelli per istruire i rivoluzionari. Emanano il calore di battaglie non ancora finite, battaglie contro il colonialismo e l’ingiustizia razziale. Non sorprende che il suo nome sia stato invocato in discussioni su tutto, dalla precarietà della vita dei neri alla campagna per la restituzione degli oggetti d’arte africani, dalla crisi dei rifugiati all’attacco omicida di Hamas del 7 ottobre. Il suo lavoro era sempre rimasto visibile. Ma non era mai stato citato con tale frequenza o urgenza dalla fine degli anni sessanta, quando le Pantere nere, i guerriglieri palestinesi e i rivoluzionari latinoamericani studiavano attentamente I dannati della terra, il manifesto anticoloniale di Fanon del 1961.

A quel tempo era una celebrità minore della sinistra radicale. Oggi è un’icona, adottata da una serie di sostenitori spesso contraddittori: nazionalisti neri e cosmopoliti, laici e islamisti, identitari e anti-identitari. È il soggetto di due film biografici di prossima uscita, e I dannati della terra appare anche come oggetto di scena in un episodio della serie tv The White Lotus. Artisti, accademici, attivisti e terapeuti di sinistra frugano avidamente tra i suoi scritti alla ricerca di slogan (e ce ne sono molti) sugli effetti psicologici della dominazione bianca, sulle false rappresentazioni razziste del corpo nero, sul significato del velo musulmano, sulla rabbia dei colonizzati e sulla violenza esibizionista delle potenze imperiali. Ma anche l’estrema destra subisce da tempo il fascino delle sue opere: tanto lo scrittore Renaud Camus quanto il politico francese Éric Zemmour, sostenitori della teoria razzista della grande sostituzione, sono lettori di Fanon.

Dopo l’omicidio di George Floyd i manifestanti avevano esposto striscioni che citavano l’osservazione di Fanon in Pelle nera, maschere bianche, uno studio sul razzismo pubblicato nel 1952 secondo cui gli oppressi si ribellano quando non riescono più a respirare. Dopo il massacro del 7 ottobre è stato celebrato dagli studenti filopalestinesi – e accusato dai loro critici – per la sua difesa della violenza usata dai colonizzati presente nel primo capitolo dei Dannati della terra. Ciò che accomuna gli ammiratori e i detrattori contemporanei di Fanon è che molti di loro, se non la maggior parte, non sembrano aver letto più del primo capitolo del libro, presentando questo pensatore complesso e impegnativo come poco più che un sostenitore della violenza rivoluzionaria con ogni mezzo necessario, un Malcolm X del mondo francofono o, per essere più precisi, la caricatura a cui è stato ridotto Malcolm X, come tanti rivoluzionari neri.

Fanon era nato nel 1925 ed era un prodotto del sistema coloniale. Le prime tre parole che imparò a scrivere furono “io sono francese” e quando la Martinica cadde sotto la tirannia del regime di Vichy fuggì dall’isola per servire nelle forze della Francia libera, fu ferito in battaglia e ottenne una croce di guerra.

Ma l’esperienza della guerra gli fece perdere ogni illusione sulla madrepatria coloniale. Anche se era considerato un europeo onorario, come gli altri abitanti delle colonie nel mar dei Caraibi che partecipavano alla resistenza, gli africani e gli arabi erano trattati come inferiori. Fanon rispose a queste precoci, strazianti esperienze di razzismo esaltando la sua identità nera, prima di condannare l’ideologia razziale in favore di un antimperialismo radicale.

Era un figlio dell’impero che aveva combattuto per la Francia nella seconda guerra mondiale e poi le si era rivoltato contro in Algeria, un laico antillano in un movimento di liberazione guidato dai musulmani, un intellettuale affascinante e sofisticato che si era guadagnato l’ammirazione di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir e che ha avuto una vita degna di un film.

Aveva anche un talento per la retorica provocatoria, arricchita dalle cadenze della poesia caraibica e antillana che aveva letto da giovane. Fanon scrisse alcuni degli slogan più memorabili delle lotte di liberazione nazionale degli anni sessanta: “L’Europa è letteralmente la creazione del terzo mondo”, “il colonizzato si libera con la violenza e attraverso la violenza”, “venite, compagni, il gioco europeo è finalmente finito, dobbiamo cercare qualcos’altro”. Ma se così ha di fatto acceso il suo mito contemporaneo (diventando uno degli autori preferiti dei rapper francesi), si è anche prestato – come Malcolm X quando disse “the ballot or the bullet” (il voto o la pallottola) – a una lettura semplicistica della sua vita e della sua eredità.

Fanon non era solo un propagandista di talento, era un paladino della decolonizzazione e uno dei suoi analisti più incisivi. Certo, sosteneva la lotta armata da parte dei colonizzati. Ma anche il sistema coloniale, sottolineava, era fondato su atti di esproprio e repressione violenti, e talvolta genocidi. Quella dei colonizzati era una violenza di rimando. Non nasceva dal nulla. Come psichiatra, Fanon credeva che la lotta armata avesse benefici terapeutici, permettendo ai colonizzati di superare lo stupore, il paralizzante senso di disperazione indotto dalla sottomissione coloniale e di diventare padroni del proprio destino.

Angelo Monne

Ma non considerava legittime tutte le forme di violenza anticoloniale: criticava i ribelli algerini che avevano commesso atrocità con “la brutalità quasi fisiologica, provocata e alimentata da secoli di oppressione”. E nell’ultimo capitolo dei Dannati della terra, intitolato Guerra coloniale e disturbi mentali, che presenta una serie d’inquietanti casi di quello che oggi chiamiamo disturbo da stress post-traumatico, Fanon prediceva che gli effetti “psico-affettivi” della violenza coloniale e anticoloniale avrebbero gravemente pesato sul futuro dell’Algeria. Il soldato vedeva la pistola come una levatrice necessaria della storia anticoloniale; il guaritore temeva le guerre interiori che sarebbero nate.

Le sue opinioni sulla comunità dei coloni europei in Algeria erano più strutturate di quanto i suoi ammiratori e detrattori vorrebbero farci credere, o di quelle espresse da Sartre nella sua incendiaria prefazione ai Dannati della terra, che celebrava l’assassinio di civili europei come giustizia anticoloniale. Da psichiatra, Fanon non ebbe difficoltà a cogliere il desiderio di vendetta tra le vittime dell’oppressione coloniale. Il colonizzato, scriveva, è un “uomo perseguitato che sogna costantemente di diventare persecutore”. Nonostante questo, insisteva sul fatto che il movimento anticoloniale avrebbe dovuto respingere il “manicheismo primitivo del colonizzatore: nero contro bianco, arabo contro infedele”. Alcuni membri della comunità colonizzata, osservava, “possono essere più bianchi dei bianchi”, mentre alcuni bianchi potrebbero “dimostrare di essere più vicini, infinitamente più vicini, alla lotta nazionalista di certi nativi”.

Mentre l’obiettivo principale della lotta algerina era quello di liberare il paese dalla dominazione francese, Fanon sosteneva che l’Fln avrebbe dovuto aprire le porte a chiunque lo abbracciasse, compresi gli europei dotati di una coscienza. Le identità di colono e nativo non erano fisse ed essenziali, erano identità create proprio dal colonialismo e che sarebbero scomparse con esso. Dopo l’indipendenza, i colonizzati avrebbero scoperto “l’uomo dietro il colonizzatore” e viceversa. “L’odio”, scriveva, “non può essere un programma”.

La realtà era meno attraente. Solo un piccolo numero di europei si unì alla lotta per l’indipendenza. La maggior parte sosteneva la prosecuzione del dominio francese e considerava la brutale repressione dell’esercito – compreso il trasferimento forzato di due milioni di abitanti dai villaggi algerini, la tortura diffusa e la morte di centinaia di migliaia di civili – come una guerra necessaria contro il “terrorismo”. Questo riduceva notevolmente le prospettive di coesistenza tra musulmani ed europei in un’Algeria indipendente. E, come Fanon scoprì mentre era portavoce dell’Fln in Tunisia, gli alleati progressisti del movimento erano una minoranza, in inferiorità numerica e di armi rispetto ai nazionalisti arabi e ai populisti islamici dalle sfumature più autoritarie.

Anche se fu testimone dell’intolleranza e della violenta regolazione di conti all’interno dell’Fln, Fanon rimase un buon soldato, rispettoso della linea ufficiale. Ma nei Dannati della terra espresse il timore che l’imminente liberazione dell’Algeria e del continente africano non avrebbe portato a una vera libertà per gli oppressi, dal momento che una “borghesia nazionale” avida e corrotta si sarebbe opposta a una rivoluzione sociale più radicale. Nei suoi scritti e nel suo lavoro di psichiatra, avanzò una visione ribelle di quella che chiamava “disalienazione”, un impegno per la libertà collettiva e individuale che era in qualche modo una sfida alla sua stessa causa. Non c’è da meravigliarsi che abbia trovato un pubblico ammirato tra i giovani intellettuali dell’Algeria contemporanea soffocati dal suo regime autoritario, il pouvoir, il potere opaco che ancora controlla il paese.

Fanon era un rivoluzionario e un radicale, ma respingeva il tipo di politica identitaria dalla quale oggi è adottato. Per quanto abbia analizzato gli effetti distruttivi del razzismo sulla psiche dei colonizzati, considerava i progetti di recupero culturale intrinsecamente conservatori e respingeva l’idea stessa di razza. “Il negro non appartiene a una razza”, scriveva, “e neanche l’uomo bianco”. Pur riconoscendo il ruolo dell’islam nel mobilitare i musulmani algerini contro il dominio francese, avvertiva che questo avrebbe anche potuto “rianimare lo spirito settario e religioso”, allontanando la lotta anticoloniale dal “suo futuro ideale per avvicinarla al passato”. Per Fanon, ciò che contava alla fine era “introdurre l’invenzione nell’esistenza”, che, per lui, era un atto indissolubilmente legato al balzo verso la libertà.

Oggi, l’idea di andare oltre la razza, l’etnia o la religione sembra una fantasia, e per alcuni non è nemmeno desiderabile. Ma Fanon credeva che le prigioni della razza e del colonialismo, in cui erano stati rinchiusi milioni di uomini e donne, fossero state costruite da esseri umani, e che quindi potevano anche essere abbattute. Nessun altro ha evocato il subconscio della razza e del colonialismo – i modi in cui l’oppressione si è insinuata nella psiche delle persone – con una forza così desolante. Questa è una ragione importante della sua attuale popolarità. Ma Fanon era anche, paradossalmente e in netto contrasto con molti dei pensatori e attivisti radicali di oggi, un ottimista.

Con le vittime della schiavitù e del colonialismo, la storia era stata crudele, ma il loro non era, a suo avviso, un destino ineluttabile: “Non sono schiavo della schiavitù che ha disumanizzato i miei antenati”, dichiarava in Pelle nera, maschere bianche, aggiungendo per buona misura che “la densità della storia non determina nessuna delle mie azioni”. Aveva fiducia nella capacità di rinascita e rinnovamento dell’umanità e nella possibilità di nuove partenze della storia: quella che Hannah Arendt chiamava “natalità”.

Mentre salutava l’Europa nelle ultime pagine dei Dannati della terra, sognava una nuova umanità, emancipata dal colonialismo e dall’imperialismo: “Non vogliamo raggiungere nessuno. Quello che vogliamo è andare sempre avanti, notte e giorno, in compagnia dell’uomo, di tutti gli uomini”. È l’insistenza di Fanon sulla lotta per la libertà e la dignità di fronte all’oppressione, la sua convinzione che un giorno “gli ultimi saranno i primi”, che permea la sua scrittura di una forza commovente. ◆ bt

Adam Shatz è un giornalista della London Review of Books. Collabora anche con il New Yorker, la New York Review of Books e il New York Times Magazine. È stato corrispondente da Algeria, Palestina, Libano ed Egitto. Questo articolo è uscito sul New York Times con il titolo The world has caught up to Frantz Fanon.

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Questo articolo è uscito sul numero 1556 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati