Ben dieci anni fa Evgeny Morozov pubblicava To save everything, click here, una delle migliori analisi dell’era digitale. Nel libro il giornalista spiega come la Silicon valley e le sue aziende tecnologiche siano caratterizzate da un’ideologia ben precisa: concretamente, i problemi sociali complessi si possono risolvere grazie alla mano invisibile delle tecnologie smart, degli algoritmi e delle app. Morozov ha coniato un termine preciso – “soluzionismo” – che torna attuale ogni anno nelle rivelazioni, pronte per il mercato, delle multinazionali. Nella Silicon valley le presentazioni dei prodotti – e l’accoglienza da parte di mezzi d’informazione – si sono trasformate in celebrazioni della capacità salvifica della tecnica, manifestazioni che hanno un fervore quasi religioso: il padrone di casa ripete continuamente “Ancora una cosa”, poi arrivano sorpresa, stupore e scrosciare di applausi. La promessa è sempre che tutto diventerà migliore, più bello, più smart.

Quando in poco tempo i prodotti si sono ridotti a versioni aggiornate di quelli che li avevano preceduti, a rivitalizzare lo spirito tecnologico del possibile sono state le visioni di Elon Musk e compagnia: chi non vorrebbe lanciarsi a San Francisco con un Hyperloop o magari direttamente su Marte con una navicella della SpaceX?

Ultimamente, alle fasi soluzioniste che si sono susseguite nella storia recente della tecnica si è aggiunto un nuovo capitolo, che promette non tanto un prodotto quanto mondi interi: il metaverso. Anche con la presentazione di questa internet del futuro, nell’ottobre 2021, tutto è stato rinnovato. Facebook è diventata la Meta Platforms, Mark Zuckerberg è diventato (finalmente) un avatar e ci ha condotti nella nuova, bellissima realtà degli Horizon Worlds, pieni di giochi, sport e divertimenti, di palme e pianeti e, grazie al telescopio spaziale James Webb, perfino di galassie ad alta risoluzione. È un cosmo simulato a misura della Silicon valley, ricco di costumi colorati, concerti dal vivo immersivi e “nuove esperienze stupefacenti”: un’utopia senza forza di gravità in cui non solo, grazie alla realtà aumentata, sfumano i confini tra virtuale e reale, ma dove, per dirla con Karl Marx, è possibile fare “oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame” senza essere un cacciatore, un pescatore o un pastore. Sembra facilissimo.

Zuckerberg non si è certo trasformato in un’avanguardia del comunismo digitale, ovviamente: la sua è una visione in tutto e per tutto capitalistica. Con il metaverso, infatti, non dovrebbe sorgere solo un mondo di gioiose immagini a richiesta, ma un intero sistema economico. Al progetto per ora stanno lavorando diecimila dipendenti, e presto ne dovrebbero arrivare altri diecimila solo nell’Unione europea. In definitiva, il mandato è creare beni virtuali.

Il metaverso va riempito con promesse e possibilità, come il negozio di alta moda aperto dalla Meta nel giugno 2022, con capi firmati Balenciaga, Thom Browne e Prada. Per questo l’azienda acquisisce senza sosta startup, si assicura sempre nuovi brevetti – per esempio quello dell’eye-tracking, che serve a “ottimizzare” anche dal punto di vista biometrico i messaggi pubblicitari e l’attenzione del pubblico – e nel 2021 ha investito quasi dieci miliardi di dollari nel suo centro di sviluppo Reality labs. Gli investimenti del 2022 sono già arrivati a quasi sei miliardi di dollari. L’idea è continuare così finché non si riusciranno a creare tutte le tecnologie necessarie: sì, per lo più le tecnologie non esistono ancora. Se negli altri show promozionali si trattava di presentare prodotti veri e propri, qui il punto è vendere una narrazione, un sogno; un sogno che, forse, ancora non avevamo.

Alla presentazione di Zuckerberg hanno fatto seguito interpretazioni contraddittorie. Alla prima ondata di entusiasmo dei più disparati appassionati di tecnologie, che vedevano nel metaverso la logica continuazione di criptovalute e blockchain, e che erano impazienti di salire a bordo , ha fatto subito eco un numero sorprendente di voci critiche, che hanno preso pian piano il sopravvento: ci si è chiesto se tutta quella magia non fosse altro che una costosa imitazione di vecchie chimere fantascientifiche, un aggiornamento patinato di Second Life, da tempo caduto nel dimenticatoio. Se la realtà virtuale – considerata il “ragazzo bianco ricco” della tecnologia – fosse solo la solita promessa, sempre disattesa? Da un lato gli scettici hanno riso delle novità tecnologiche – o della loro assenza – e delle battute stentate di Zuckerberg; dall’altro hanno accusato il metaverso di essere una forma di escapismo elettronico in tempi di crisi climatica oppure solo una scommessa finanziaria. Che senso ha insomma tutto questo impegno per la realtà virtuale, questo “cerchio quadrato”, come lo chiamava il teorico della comunicazione Vilém Flusser, in cui possiamo simulare palme e isole, ma non possiamo bere un vero tè freddo con ghiaccio? E soprattutto, il metaverso che problema risolve?

La risposta più plausibile è questa: il metaverso è un costoso tentativo di Zuckerberg di lasciarsi alle spalle gli scandali sul modo in cui usa i dati degli utenti per tornare finalmente a brillare alla luce di innovazioni che genereranno profitti e gloria. Ma invece del plauso universale – perfino all’interno della Meta l’ossessione di Zuckerberg appariva irritante: “È l’unica cosa di cui vuole parlare Mark” – il tentativo è stato accolto da un’atmosfera tesa e da una disillusione sistematica. Il soluzionismo ha mostrato le sue crepe.

Quella delineata nella Silicon valley è una costellazione che, con il filosofo Ernst Bloch, potremmo chiamare un “strano rimpic­ciolimento della coscienza utopica”. Anni fa Eric Schmidt, ex amministratore delegato di Google, era ancora in grado di dire: “Con l’approccio giusto penso che potremmo risolvere tutti i problemi dell’umanità”. E Mark Zuckerberg poteva ancora parlarci con entusiasmo – sembrando credibile – delle nuove possibilità di lotta contro il cambiamento climatico, le pandemie e il terrorismo aperte da Face­book. Ora invece la fiducia in quella valle di sogni si sta sgretolando. Dopo tutte le speranze deluse, le cascate di notizie false e d’incitamento all’odio diffuse online, le rivelazioni dei segreti della Meta e ogni sorta di azione legale antitrust, è diventato praticamente impossibile nascondere il fatto che gli operatori della Silicon valley non trovano (e a ben vedere non cercano) risposte ai problemi della società. Anzi, spesso con le loro pratiche improntate al capitalismo della sorveglianza diventano il problema. Sembra che con il metaverso sia stata raggiunta una nuova fase, in cui chi rinuncia a risolvere problemi nel mondo reale deve inventarne uno nuovo in cui apparentemente i problemi non ci sono più. E allora potremmo dire che a rifugiarsi nel metaverso non sono gli utenti, sono le stesse aziende tecno­logiche.

Il metaverso è un costoso tentativo di Mark Zuckerberg per tornare finalmente a brillare alla luce di innovazioni che generano profitti e gloria

Effettivamente, anche considerando la questione più da vicino, il futuro di internet promette molto di più alle aziende che agli utenti. Così la realtà virtuale, invece di essere una meravigliosa realtà alternativa, troppo spesso non è altro che il prolungamento di una realtà carente; una realtà aumentata del malessere mondano. Per accorgersene basta dare un’occhiata alle varie storture che si celano dietro le lenti degli occhiali “virtuali”.

Zuckerberg promuove gli spazi virtuali promettendo un’impressione di presenza, intensità e autenticità ben diversa dall’esperienza consentita dagli schermi neri dei nostri dispositivi. Ma per le categorie vulnerabili questo genere di “esperienza immersiva” non di rado si rivela un problema. “Fondamentalmente la realtà virtuale è stata concepita proprio per impedire al corpo e alla mente di distinguere le esperienze digitali da quelle reali”, scrive Nina Jane Patel, il cui avatar ha subìto abusi sessuali da parte di vari utenti nelle Horizon Venues della Meta, un luogo per eventi di realtà aumentata dal vivo: “Ho avuto una reazione fisica e mentale simile a quella che avrei provato nella realtà”.

E allora, anche se si tratta ancora di una narrazione speculativa, è già chiaro che, nonostante le cascate gorgoglianti e le piante tropicali, la simulazione non è e non sarà mai uno Shangri-La digitale libero da ogni male; anzi, secondo gli esperti c’è perfino il rischio di molestie pedofile. Per dirla con Patel: “Non è un mondo immaginario, è realtà”.

Al momento gli spazi creati dalla Meta e simili non hanno praticamente nessuna regolamentazione e l’esigenza di moderarli pone al legislatore compiti complessi, nonostante tutte le norme approvate per consentire l’applicazione della legge anche ai social network.

Allo stesso tempo, sembra che in questi spazi ci sia anche una riformulazione delle speranze (deluse). Come in passato, nel mondo virtuale non si punta tanto alle regole quanto alle loro applicazioni tecnologiche: l’idea è che in futuro problemi come le molestie si dovranno poter risolvere grazie a uno strumento che definisce i limiti personali, quindi impone una sorta di distanza di sicurezza. A leggere le riflessioni di Patel è difficile credere nell’efficacia di soluzioni del genere: “È stata un’esperienza spaventosa, e così improvvisa che non ho avuto il tempo di attivare la distanza di sicurezza. Ero paralizzata”.

Anche i giornalisti del sito d’informazione Buzz­Feed hanno avuto un’esperienza spaventosa: nel febbraio 2022 sono entrati in Horizon Worlds e hanno creato un mondo di estrema destra per analizzare la diffusione di contenuti complottisti e fake news nel metaverso. Banner con slogan vistosi, appesi diagonalmente nello spazio virtuale in modo da essere ben visibili, alludevano a ogni sorta di teoria, cose tipo “l’11 settembre è stato organizzato dagli Stati Uniti” . Ci sono volute diverse segnalazioni degli stessi giornalisti prima che questo duplice distacco dalla realtà fosse rimosso dalla Meta Plat­forms, che inizialmente si era limitata a fare questo commento: “Analizzando il resoconto, il nostro esperto in sicurezza ha concluso che i contenuti non violano la nostra politica in materia di contenuti di realtà virtuale”.

Pur promettendo una realtà alternativa, il metaverso mostra una grande carenza d’immaginazione sociale e politica: è un progetto che spesso si limita a rendere virtuali non solo i problemi sociali ma anche le disuguaglianze socioeconomiche. È un mondo in cui potenzialmente non esistono privazioni, ma in realtà è riaffermato lo status quo. Chi ha molto qui può esibire il suo benessere investendo soldi veri in beni simulati, servendosi per esempio del gold­farming: pagare gli operai digitali precari per fare progressi in un gioco di realtà virtuale e fare sempre nuove “esperienze”, esprimendo se stesso e la propria classe sociale sul piano virtuale (è facile che qui una borsa Gucci costi di più di una vera). Nel metaverso non nascono mondi ugualitari, invece aumentano i servizi a pagamento, le barriere all’ingresso, per non parlare dei costi per visori e auricolari. Se, come Theodor W. Adorno, per utopia intendiamo “l’elaborazione di un ordine sociale che ancora non c’è”, allora in fin dei conti questa visione virtuale sembra più reale di quanto vorremmo.

Forse stiamo assistendo alla prima narrazione tecnologica nell’era del post-soluzionismo, un’era in cui nessuno crede più che sarà la tecnica a salvarci e alle aziende non viene in mente niente di meglio che inventarsi una realtà fittizia corrotta nel cui potenziale salvifico quasi nessuno riesce a credere. Visti i suoi molteplici problemi, quale dovrebbe essere – al di là degli interessi economici – l’attrattiva del metaverso per il miliardo di utenti su cui punta Zuckerberg? Forse la narrazione del futuro in un mondo senza futuro dà una risposta a questa domanda.

Infatti, mentre stiamo realizzando quanto le catastrofi caratterizzeranno le nostre vite e quanto sia difficile che le scelte individuali – la rinuncia al consumo, per esempio –risolvano i nostri grandi problemi, il metaverso con le sue opzioni multiple diventa decisamente attraente. Qui ognuno può creare un ambiente all’apparenza libero dalle apocalissi quotidiane: ogni pixel, ogni pezzo di terra digitale e ogni palma virtuale sono una meravigliosa distrazione dalla nostra reale incapacità di dare forma alle cose e alimentano la nostra convinzione di essere efficaci con l’esperienza di una creatio ex nihilo. Le piante non vanno annaffiate e quando c’è la siccità non bisogna preoccuparsi delle riserve idriche. Tutto quello che può appassire, arrugginirsi o deformarsi esce dal campo visivo e viene eliminato. Allora il metaverso sembra un mondo libero da preoccupazioni, la promessa di non dover più pensare a niente. Quando il futuro reale sembra catastrofico, la Meta ci offre un anestetico post-soluzionistico.

L’escapismo è già realtà, solo che è distribuito in maniera iniqua. Sappiamo bene chi può mettersi al sicuro in mondi pieni di palme e senza preoccupazioni. Sono le persone meno toccate dalle catastrofi del presente, che possono permettersi di rifugiarsi in un’illusione autentica: in un mondo completamente digitale, una virtualità senza materialità. Già ora non è facile vedere le infrastrutture, i data center, i cavi sottomarini o gli immensi consumi energetici della quotidianità digitale, e forse questo sistema è ancora più invisibile dietro le lenti degli occhiali per la realtà virtuale.

Ma il mondo nuovo delle immagini è talmente dipendente dalle risorse del reale – si stima che la versione del metaverso annunciata da Zuckerberg avrà bisogno di un aumento del mille per cento della capacità di calcolo –, la natura simulata è talmente dipendente da quella vera, che gli effetti multidimensionali saranno sì surreali, ma per niente virtuali. Anzi, questo implica che le catastrofi della realtà saranno catastrofi del metaverso.

Che tutto ciò possa essere ignorato mette in evidenza l’angolo morto della narrazione immersiva: senza mondo non c’è metaverso possibile, senza preoccupazioni non c’è un futuro per il mondo. Le utopie, per dirla con Adorno, hanno un prezzo: la negazione della realtà brutta. Chi è troppo rapido a colorarle o a riempirle completamente d’immagini ne tradisce il potenziale. E chi prolunga la realtà brutta con altri mezzi, magari addirittura potenziandola, tradisce anche le condizioni che le rendono possibili. Benvenuti nel deserto del virtuale. ◆ sk

Anna-Verena Nosthoffe e Felix Maschewski lavorano e insegnano all’università Humboldt di Berlino e all’Institute of network cultures di Amsterdam. Questo articolo è uscito sul settimanale tedesco Die Zeit con il titolo Willkommen in der wüste des virtuellen.

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Questo articolo è uscito sul numero 1483 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati