Lo spettacolo è desolante. Ricorda stranamente i giorni successivi agli omicidi compiuti durante la terribile guerra civile cominciata nel 1975. I morti, i feriti, le facciate colpite dai proiettili, gli appartamenti incendiati, i vetri in frantumi, i calcinacci abbandonati sui marciapiedi, le auto danneggiate, gli abitanti con i volti inespressivi che si sforzano di rimettere insieme i pezzi della loro vita. Vicino alla rotonda di Tayouneh, da un lato e dall’altro dell’antica strada verso Sidone che è stata a lungo la linea di demarcazione tra i due quartieri antagonisti di Shiah (sciita) e Ain el Remmaneh (cristiano), si sente il rumore dei vetri rotti che vengono spazzati via. E il ronzio dei carri armati dell’esercito libanese che passano in continuazione per evitare altre violenze, mentre agenti dei servizi segreti osservano ogni indizio utile, anche le tracce di sangue ormai secco.

La stessa scena si ripete qualche centinaio di metri più in là, su via Laure Moghaizel, una perpendicolare di viale Sami el Solh, dove tutto è cominciato. Il 14 ottobre si è svolta una manifestazione, che si presentava pacifica, organizzata dalle formazioni sciite filoiraniane Hezbollah e Amal per protestare contro il giudice Tareq Bitar, incaricato di guidare l’inchiesta sull’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020. C’è stata una sparatoria. Sette persone sono morte e circa trenta sono state ferite.

Da una parte e dall’altra della strada, gli abitanti temono altri disordini

Lo stesso timore

Il giorno dopo gli abitanti della zona piangono i loro morti. Altri si curano le ferite. I commercianti verificano i danni. Qualche passante si ferma per curiosità. Ci sono sostenitori di Amal, Hezbollah e dei partiti cristiani: Corrente patriottica libera, alleata di Hezbollah e fondata dal presidente Michel Aoun, e le Forze libanesi, il suo nemico giurato. Gli scontri nati tra le varie fazioni dopo che i cecchini avevano colpito le prime vittime hanno spinto alcuni residenti ad abbandonare il quartiere. Chi è rimasto è perennemente in allerta. Tutti hanno lo stesso timore: “un nuovo deterioramento della sicurezza”, “un ritorno ai tempi della guerra civile”, scoppiata a poche centinaia di metri da qui 46 anni fa.

Ma i discorsi variano a seconda che a parlare siano i sostenitori delle diverse fazioni o i cittadini esasperati dagli appelli dei leader comunitari. I militanti accusano gli avversari di aver sparato per primi, di aver insultato per primi, di aver lanciato pietre per primi o di aver mobilitato per primi i loro uomini. “L’arsenale di Hezbollah” e il “carattere bellicoso” dei partiti sciiti vicini al regime siriano sono criticati dai simpatizzanti delle Forze libanesi. Da parte loro gli sciiti denunciano “il gioco israeliano-statunitense per spingere i partiti locali ad attaccare Hezbollah”.

Pierre, un abitante del quartiere, s’infervora raccontando che i militanti sciiti sono entrati in via Laure Moghaizel “inneggiando alla loro appartenenza comunitaria, insultando i cristiani, rompendo auto e vetri, lanciando pietre”. “Cosa sono venuti a fare da noi?”, chiede, precisando che in questo quartiere cristiano convivono abitanti di tutte le confessioni. Simpatizzante delle Forze libanesi, Pierre è certo che questa provocazione sia all’origine delle violenze. “Quando i militanti di un partito così pesantemente armato invadono un quartiere è normale che i giovani che ci abitano lo difendano”, insiste riferendosi ad Ain el Remmaneh, tradizionalmente vicino alle Forze libanesi. “È stato allora che sono partiti i proiettili”, osserva mostrando i fori delle pallottole sui muri degli edifici.

Nizar invece, che si presenta come un cristiano di Ain el Remmaneh, sostiene che tutto finirà solo con l’eliminazione di Samir Geagea, il capo delle Forze libanesi. Accanto a lui, al Royal café, fumano il narghilè alcune persone di varie comunità religiose. Sono tutte simpatizzanti delle milizie sciite e ritengono il leader cristiano maronita responsabile delle violenze contro i manifestanti. “Quello che è successo era organizzato. Non è un atto isolato”, assicura Youssef, alludendo a dei “cecchini del partito cristiano appostati sui tetti dei palazzi, che hanno aperto il fuoco sui civili”. L’inchiesta non è ancora cominciata e il movimento cristiano ha negato il suo coinvolgimento, puntando il dito contro Hezbollah. Secondo Samir, un sunnita cliente abituale del locale, “è stata una piccola guerra civile. Una guerra che ha permesso a ogni fazione di trasmettere il suo messaggio. E la cosa peggiore è che nessuno ne risponderà”.

Di fronte a questa chiusura tra i vari gruppi religiosi e politici che ha seminato morte, la popolazione può solo esprimere la sua sofferenza. Una sofferenza indicibile per la famiglia di Mariam Farhat Hamdar, madre di cinque bambini, uccisa da un proiettile mentre era sul balcone del suo appartamento a Shiah e aspettava il ritorno dei figli da scuola.

I commenti
Lo spettro della guerra civile

“Avanti verso il suicidio”, titola il quotidiano libanese An Nahar, il 15 ottobre, il giorno dopo la sparatoria a Beirut durante la protesta dei movimenti sciiti Hezbollah e Amal contro il giudice Tareq Bitar, incaricato d’indagare sull’esplosione del 2020 al porto. Gran parte della stampa libanese evoca lo spettro della guerra civile, che ha devastato il paese tra il 1975 e il 1990, e accusa Hezbollah di voler inasprire le divisioni confessionali per innescare un nuovo conflitto. A difendere il movimento sciita è il giornale Al Akhbar, vicino al gruppo, che incolpa dei disordini Samir Geagea, il leader del partito cristiano maronita Forze libanesi, accusato di aver schierato i cecchini che hanno sparato contro la folla di manifestanti sciiti. Il sito Mégaphone, nato dal movimento di protesta del 2019, se la prende con entrambe le formazioni, che rappresentano la vecchia classe politica libanese, contro cui migliaia di persone sono scese in piazza: “Hezbollah e le Forze libanesi si combattono a vicenda, poi si rivoltano contro di noi, e commettono atrocità, come in passato”.

Nei giorni dopo la sparatoria la stampa libanese ha anche ricordato il secondo anniversario del movimento di protesta. Il 17 ottobre 2019 i libanesi hanno cominciato a occupare le strade di Beirut e di altre città per chiedere la fine dell’impunità e della corruzione e il rinnovamento della classe politica. Le celebrazioni però sono state sottotono e sembravano “una cerimonia di addio per la più grande rivolta del Libano”, scrive Al Modon, quotidiano vicino alla sinistra liberale e alla società civile. “La scena era pallida come il cielo autunnale. Un riflesso delle contraddizioni del Libano”. “C’era una volta la thawra”, titola L’Orient-Le Jour usando il termine arabo per “rivoluzione”. Due anni dopo i colori del paese sono cambiati e “la speranza ha lasciato il posto alla disillusione”. Il 19 ottobre il parlamento libanese ha stabilito che le prossime elezioni legislative si svolgeranno il 27 marzo 2022. ◆


Il prezzo più alto

Qualche metro più in là una commerciante sconfortata non sa se far riparare le vetrine del suo negozio. “Il paese è spacciato. Devono vergognarsi”, si dispera, chiedendosi se avrà la forza di continuare, mentre “il popolo paga il prezzo più alto e i leader politici sono protetti”. E conclude: “Forse farei meglio a lasciare il paese e a raggiungere mia figlia in Canada con gli altri figli più piccoli”.

Anche Zeina prova lo stesso disgusto. Gestisce un centro estetico nel quartiere di Shiah, risparmiato dagli scontri, e si chiede con rabbia cosa devono aspettarsi ancora i libanesi: “La classe politica ci ha affamato tutti, cristiani e musulmani. Delle persone sono state ammazzate sotto i nostri occhi. E oggi il lavoro è fermo. Cos’altro succederà?”.

Da una parte e dall’altra dell’antica via verso Sidone, gli abitanti temono altri disordini. Alcuni mettono in dubbio le misure prese dalle autorità per evitare gli scontri. “I movimenti sciiti avevano annunciato di voler organizzare un corteo di protesta. Perché le forze dell’ordine e l’esercito non gli hanno impedito di entrare nel quartiere? Avrebbero evitato queste morti inutili”, si scalda George, commerciante di Ain el Remmaneh. La pensa così anche Rabih, che lavora nel quartiere e si oppone a ogni mobilitazione comunitaria: “Noi aspiriamo solo a vivere decentemente e in buoni rapporti con i nostri vicini”. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1432 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati