Ogni quattro anni, il National intelligence council degli Stati Uniti pubblica il rapporto Global trends, che ha l’obiettivo di prevedere le minacce e i motivi d’incertezza che il mondo dovrà affrontare nei due decenni successivi. Scritto da un’associazione di agenti segreti con un nome che sarebbe più adatto a un gruppo rock – Strategic futures group – ha come scopo di invitare la Casa Bianca e i suoi consiglieri ad adottare un orizzonte temporale più esteso.

L’edizione 2021 del Global trends, intitolata “Un mondo più conteso”, si concentra sulle sfide che l’umanità dovrà affrontare in condizioni di “crescente incertezza”. Uno dei grafici principali del rapporto presenta un riquadro etichettato “Crisi della sicurezza umana” accompagnato da una serie di possibili minacce: condizioni meteorologiche estreme, uso improprio dell’acqua, innalzamento del livello del mare, geoingegneria, cambiamenti sociali e istituzionali, disuguaglianze, instabilità, conflitti e altro ancora. In questa scatola piena di pericoli, sostiene il rapporto, c’è il futuro in cui vivremo tutti a meno che non avvenga un miracolo.

Molti sistemi e modi di pensare dovrebbero diventare meno scontati. Il nostro mondo sta diventando sempre più instabile. Ma per altri versi non lo è abbastanza

Il rapporto si conclude proponendo cinque scenari ipotetici, ognuno dei quali suggerisce una possibile traiettoria del nostro futuro incerto. L’ipotesi finale prevede una rivoluzione ambientale globale guidata dai giovani, che alla fine porterà alla creazione di una nuova organizzazione internazionale: il Consiglio per la sicurezza umana. Leggendola mi sono ritrovata d’accordo per la prima volta in vita mia con i funzionari dell’intelligence statunitense, un’esperienza sconcertante. Se vogliamo sfuggire alla crisi della sicurezza umana, un grande e visionario movimento sociale dovrà spingere i nostri sistemi sociali a rinunciare a uno stato delle cose che trangugia combustibili fossili.

Allo stesso tempo, mi sono chiesta se un’organizzazione simile sarebbe davvero sufficiente a metterci su una rotta stabile. Se le sfide che l’umanità deve affrontare sono così intrecciate tra loro in un pianeta già devastato, come chiarisce il rapporto del National intelligence council, non dovremmo anche chiederci cosa significa sicurezza per gli ecosistemi, le piante e gli animali da cui dipende la nostra salute alimentare, sanitaria e ambientale?

Quando hanno descritto un futuro di crescente incertezza e insicurezza, gli autori del rapporto sapevano che la maggior parte dei lettori avrebbe trovato inquietanti questi termini. Ma l’incertezza e l’insicurezza non sono sempre negative. Se vogliamo evitare le conseguenze più gravi del collasso economico ed ecologico contro cui il rapporto mette in guardia – ed evitare di vivere alcuni degli scenari futuri più preoccupanti – molti sistemi e modi di pensare profondamente radicati dovrebbero diventare meno scontati. Il nostro mondo sta diventando sempre più instabile. Ma per altri versi non lo è abbastanza.

Come sosteneva il leader indigeno e stratega politico canadese Arthur Manuel nel libro Unsettling Canada, del 2015, una delle cose da cambiare è la rivendicazione coloniale della terra. Il riconoscimento della sovranità indigena avrebbe profonde implicazioni per la giustizia sociale, la sicurezza economica dei popoli indigeni e, più in generale, la stabilità ecologica.

Ci sono volute generazioni di organizzazione e resistenza da parte delle popolazioni indigene per far sì che il Canada cominciasse ad accettare l’esistenza di quello che ufficialmente è chiamato “titolo aborigeno”, il diritto intrinseco dei popoli indigeni ai loro territori tradizionali. Secondo Manuel, l’inclusione dei diritti degli indigeni nella legge costituzionale del 1982 è stata una vittoria fondamentale contro gli argomenti usati dal governo per giustificare il fatto che la maggior parte del territorio canadese appartiene alla corona britannica. Questi argomenti poggiano sull’idea cinquecentesca della terra nullius, secondo cui un territorio abitato da decine di migliaia di anni era invece vuoto, quindi poteva essere “scoperto” da stranieri famelici e confusi, che l’avrebbero trasformato magicamente in un loro possedimento.

Con una serie di decisioni spartiacque, i tribunali canadesi hanno cominciato a sgretolare queste assurdità, a partire dal caso di Delgamuukw contro la British Columbia. Nel 1984, le nazioni dei popoli gitxsan e wet’suwet’en lanciarono una sfida senza precedenti per cercare di far applicare i diritti sanciti dalla nuova costituzione. Fecero causa al governo per il riconoscimento del loro titolo aborigeno su più di 133 territori, per un totale di 58mila chilometri quadrati di terra che non erano mai stati ceduti con un trattato: la rivendicazione costrinse il governo canadese a fare i conti con lo status legale dei beni comuni indigeni e i concetti di sovranità e proprietà.

Le nazioni gitxsan e wet’suwet’en hanno culture orali, quindi non hanno mai registrato la proprietà terriera attraverso stipule di contratti, e i querelanti stabilirono un precedente usando come prove legali le tradizioni orali, invece dei documenti scritti. Gli anziani presentarono come prove il gitxsan adaawk e il wet’suwet’en kungax, due raccolte orali di leggende, leggi, rituali e tradizioni, con grande costernazione del giudice. Il primo giorno del processo i capi ereditari spiegarono come le loro nazioni avevano affrontato la questione del diritto di proprietà. Delgamuukw Earl Muldoe, capo dei gitxsan e querelante ufficiale, dichiarò: “Il mio potere è racchiuso nelle storie, nei canti, nelle danze e negli stemmi della mia comunità. Per noi, la proprietà del territorio è un matrimonio tra il capo e la terra. Ogni capo ha un antenato che ha incontrato e riconosciuto la vita e la terra. Da questi incontri nasce il potere. La terra, le piante, gli animali e le persone hanno tutti uno spirito e a tutti si deve mostrare rispetto. Questa è la base della nostra legge”. A una donna che era tra gli anziani invitati a testimoniare, Mary Johnson, fu chiesto d’intonare un canto funebre che documentava la proprietà territoriale: parlava di due ragazze salvate dalla fame da un uccello dopo la morte del fratello. Ma il giudice si oppose. “Chiedere ai testimoni di cantare in tribunale non è un modo appropriato per affrontare questo problema”, disse. Inoltre, siccome non aveva un “orecchio musicale”, era incapace di capire cosa avesse a che fare una canzone triste con un luogo o una storia specifica. Come si poteva garantire la proprietà con parole cantate?

Dopo 318 giorni di testimonianze e 56 giorni di arringhe conclusive, il giudice emise il suo verdetto. Citando il filosofo del seicento Thomas Hobbes, il verdetto descriveva la vita dei popoli gitxsan e wet’suwet’en prima della colonizzazione “disgustosa, brutale e breve” e si pronunciava contro i querelanti. Ma quando una decina d’anni dopo la corte suprema discusse il caso in appello, i giudici si mostrarono più inclini ad ascoltare. Nel 1997 la corte riconobbe il principio del titolo aborigeno come una forma di proprietà collettiva, anche se rifiutò di pronunciarsi su terre e titoli specifici, consigliando al governo federale di negoziare direttamente con le Prime Nazioni e trovare un modo per conciliare le rivendicazioni aborigene con quelle della corona, cosa che il governo si è finora rifiutato di fare. Per usare le parole di Shiri Pasternak, una docente della Toronto metropolitan university, “la corte suprema ha convenuto che i popoli indigeni detenevano un diritto di proprietà sulla loro terra. Era il bene collettivo di una nazione” e delle sue generazioni presenti e future. Affermando la validità della testimonianza orale, quella decisione è stata anche un passo importante per gettare un ponte tra le tradizioni giuridiche indigene e quelle canadesi.

Il verdetto gettò nel panico il settore privato. Dai documenti governativi resi pubblici da Pasternak emerge che i lobbisti volevano “certezze”, cioè un accesso incontrastato alle proprietà indigene. Il giorno dopo la sentenza, Marlie Beets, allora vicepresidente del consiglio delle industrie forestali della British Columbia, si lamentò del fatto che il verdetto di Delgamuukw contro British Columbia aveva “solo creato più incertezza. Siamo molto preoccupati per le reazioni dei governi di fronte alle conclusioni della corte. La decisione rende ancora più chiaro il bisogno di certezze ottenute attraverso la cessione delle terre”. I lobbisti delle multinazionali esortavano i funzionari governativi a spingere le Prime Nazioni a rinunciare ai loro diritti, recentemente ampliati, per garantire la “certezza” degli interessi commerciali. Il presidente dell’associazione degli allevatori s’impegnava a esercitare “una forte pressione sul governo provinciale affinché facesse di tutto per ottenere la cessione”. L’avvocato del comitato consultivo per i negoziati organizzò un incontro del “gruppo di lavoro sulla certezza” e suggerì che le trattative dovevano andare in direzione della “fine dei diritti e dei titoli aborigeni”, un approccio a cui le Nazioni Unite si oppongono decisamente.

Anche se la corte suprema canadese ha riconosciuto il titolo aborigeno e ha il sostegno del diritto internazionale per i diritti umani, la lotta per la sovranità indigena rimane profondamente sbilanciata, perché le comunità povere devono scontrarsi con i colossi multinazionali, i loro potenti lobbisti nelle varie province e le agenzie governative che li appoggiano. Nel corso degli anni, varie decisioni della corte suprema hanno ulteriormente rafforzato le rivendicazioni indigene, ma la corona concede ancora alle aziende private il permesso di trivellare, estrarre, disboscare e costruire dighe su terre mai cedute, tra cui il contestato gasdotto Coastal gaslink, di 670 chilometri, che dovrebbe trasportare il gas ottenuto con il fracking attraversando il territorio tradizionale dei wet’suwet’en. Incoraggiate dalle fantasie sul futuro dei beni comuni coloniali, la Chevron, la TransCanada e la Enbridge sono determinate a costruire infrastrutture per l’economia dei combustibili fossili sulla terra dei wet’suwet’en, nonostante l’opposizione della comunità. Quando i capi ereditari delle Prime Nazioni hanno insistito sul verdetto Delgamuukw e affermato la loro giurisdizione difendendo con blocchi pacifici il territorio non ceduto, il governo ha mandato la polizia a scacciare i manifestanti con la minaccia delle armi. La violenta risposta degli agenti ha rivelato quanto il titolo aborigeno sia una minaccia per l’industria petrolifera e quanto alto sia il rischio che rappresenta per i suoi profitti.

In Unsettling Canada Arthur Manuel ci ricorda che il caso Delgamuukw non solo ha confermato e ampliato i diritti degli aborigeni, ma ha anche affermato i corrispondenti doveri che ne derivano. Il diritto di usufruire della terra è inseparabile dalla responsabilità di prendersene cura. La corte suprema ha stabilito che l’unico caso in cui il titolo aborigeno può essere considerato estinto è quello di comunità che svolgono attività distruttive o incoerenti con il loro legame con la terra, che impedirebbero alle generazioni future di usufruirne (Manuel fa l’esempio della costruzione di un parcheggio su un sito sacro). Questa condizione, come spiega Manuel, obbliga ulteriormente i popoli indigeni a proteggere i loro territori da uno sviluppo irresponsabile e insostenibile, il tipo di sviluppo che il settore privato vuole perseguire in base a un diritto certo. Questo è un esempio del tipo di cambiamento che la nostra epoca d’insicurezza richiede: la modifica di un sistema di proprietà che calpesta i diritti costituzionali delle persone e danneggia il pianeta.

Beatrice Bandiera

Nel 1974 l’ecologista Garrett Hardin pubblicò un articolo sulla rivista Psychology Today in cui metteva in ridicolo l’idea di restituire la terra o concedere indennizzi alle comunità indigene, sulla base delle argomentazioni che aveva esposto nel suo saggio del 1968 The tragedy of the commons (La tragedia dei beni comuni). Intitolato “L’etica delle scialuppe di salvataggio: perché non dobbiamo aiutare i poveri”, l’articolo invitava il lettore a immaginare una scena, in un oceano. Le scialuppe piene di passeggeri facoltosi galleggiano pericolosamente in un mare di persone che annegano e minacciano di capovolgerle. L’unico modo per i pochi privilegiati di proteggersi, sostiene Hardin, è quello di tenere fuori gli altri – dalle scialuppe di salvataggio, dai paesi ricchi, dai beni comuni – accumulando risorse, fermando l’immigrazione e mettendo fine agli aiuti alimentari internazionali allo scopo di ridurre la popolazione globale dei poveri, che, ammette, è costituita in gran parte da non bianchi. “Per il prossimo futuro”, scrive, “se vogliamo sopravvivere dobbiamo adottare l’etica della scialuppa di salvataggio, per quanto dura possa sembrare”. Le idee di Hardin sono in linea con la corrente di pensiero cosiddetta “ecofascista”, purtroppo in ascesa in questi tempi incerti, che si basa sul concetto più ristretto e meschino di sicurezza, e invita a proteggere i propri privilegi a scapito della vita degli altri. È la visione, come afferma uno slogan terrificante dei suprematisti bianchi, di un “futuro verde per bambini bianchi”.

Naturalmente, ci sono anche i negazionisti. Rifiutando la realtà del cambiamento climatico, considerano il cambiamento sociale come la vera minaccia alla sicurezza, ai profitti dell’industria, agli stili di vita dei consumatori e alle gerarchie razziali e di genere. La sociologa Cara Daggett ha coniato il termine “petromascolinità” per descrivere il modo in cui il negazionismo climatico, i tir che consumano fiumi di benzina e le fette di carne rossa sono diventati potenti simboli di virtù patriarcale. In questo paradigma, il disprezzo per il mondo “più che umano”, e per chiunque cerchi di prendersene cura, rafforza il disprezzo per certe categorie di persone, chiunque non sia bianco, maschio e normodotato. Da una ricerca di Will Kymlicka, politologo della Queen’s university di King­ston, in Canada, è emerso che la fede nella gerarchia delle specie è “costantemente associata a una disumanizzazione dei gruppi umani svantaggiati o emarginati”. O, come mi ha detto di recente la celebre militante afroamericana Angela Davis, “attribuire la priorità agli esseri umani porta anche a definizioni restrittive di chi può essere considerato umano, e la violenza contro gli animali è correlata alla violenza contro gli umani”.

Il tentativo di sottomettere altre persone e creature ha prodotto una serie di enormi incendi, cappe di calore, vortici polari, tempeste devastanti e siccità. Cinquecento anni dopo che il filosofo Thomas More si lamentava della piaga delle pecore lasciate libere nelle terre comuni inglesi, il bestiame ha ormai divorato la terra. Oggi gli animali addomesticati e mercificati, principalmente mucche e maiali, costituiscono più del 62 per cento di tutta la biomassa dei mammiferi, che deforesta vaste aree di territorio ed emette enormi quantità di carbonio, mentre tutti gli animali selvatici sono ridotti a un misero 4 per cento. La natura selvaggia che rimane è in gran parte protetta dai popoli indigeni, che costituiscono circa il 5 per cento della popolazione mondiale e proteggono l’80 per cento della biodiversità globale. Proposte come quelle che cercano d’istituire più aree marine protette in collaborazione con le Prime Nazioni sulla costa occidentale del Canada sono il promettente riconoscimento del fatto che la cura e la riparazione dell’ambiente hanno bisogno d’investimenti e sostegno. Ma, in realtà, la gestione del pianeta è qualcosa di cui tutti dovrebbero essere responsabili.

Il mio interesse per i diritti della natura deriva, in parte, dalla mia convinzione che la biodiversità abbia un valore politico oltre che biologico. Ogni specie che lasciamo estinguere riduce quella che potremmo chiamare democrazia ecologica, sottolineando la necessità di prefigurare un sistema politico in grado di proteggere gli interessi di altre forme di vita. Il beneficio per gli animali e gli insetti, oltre che per il 40 per cento delle specie vegetali minacciate dal cambiamento climatico, dovrebbe essere più che sufficiente per spingerci a combatterne l’estinzione.

Ma dovremmo coltivare la solidarietà con il mondo più che umano anche per un semplice interesse personale. La biodiversità è essenziale per la nostra esistenza: per la sicurezza degli ecosistemi in cui siamo inseriti, dei sistemi alimentari su cui facciamo affidamento e della nostra capacità di evitare future pandemie. Quando un ecosistema è sano, la biodiversità tampona la trasmissione di agenti patogeni mortali e la variazione genetica interrompe le vie di contagio. Ciò significa che il ridimensionamento e la frammentazione dell’habitat selvatico riduce la biodiversità e aumenta le possibilità di quello che gli scienziati chiamano spillover, o infezione interspecie, la dinamica che probabilmente ha portato alle recenti epidemie di ebola in Guinea.

Beatrice Bandiera

Come spiega un rapporto delle Nazioni Unite del 2020 sulla prevenzione delle pandemie, le malattie infettive sono in genere frutto dell’attività umana. Sono l’ennesimo sintomo dell’arroganza degli umani che produce insicurezza, che nasce dagli eterni tentativi di conquistare la natura. I cambiamenti nell’uso del suolo, in particolare il disboscamento dei terreni a favore dell’agricoltura intensiva, sono responsabili di un terzo di tutte le nuove malattie. Come gli uragani e le siccità dovute al riscaldamento climatico, i nuovi e pericolosi agenti patogeni sono collegati all’attività umana, anche se non nel modo cospiratorio che ad alcune persone piace immaginare. La pandemia del 1918, per esempio, probabilmente cominciò come un’influenza aviaria o suina in un allevamento industriale. Le condizioni per la diffusione dei microbi nocivi sono ancora più presenti negli allevamenti moderni, che ammassano un numero enorme di animali geneticamente simili in condizioni crudeli e insalubri. Negli Stati Uniti e in Canada, al bestiame viene somministrato l’80 per cento di tutti gli antibiotici consumati nel mondo, la ricetta ideale per allevare superbatteri resistenti ai farmaci. Come ho letto di recente su una rivista medica, l’agricoltura animale intensiva concede ai virus innumerevoli “giri della roulette pandemica”. Proprio per questo l’American public health association, la più grande organizzazione di professionisti della salute pubblica degli Stati Uniti, ha ripetutamente chiesto una moratoria sugli allevamenti intensivi.

Alla luce di queste e innumerevoli altre sfide, non possiamo limitare le nostre ambizioni al Consiglio per la sicurezza umana previsto dal rapporto del National intelligence council, anche se sarebbe un ottimo inizio. Solo la sicurezza più che umana sarà risolutiva. Dobbiamo lavorare con il mondo naturale, co­operando con il Sole e il vento per sfruttare le energie rinnovabili, con gli oceani e le foreste per isolare il carbonio senza soffocarlo e acidificarlo, con la biodiversità delle piante per rinfrescare le nostre città e nutrire il mondo, con animali nostri alleati come i castori che proteggono l’acqua, combattono gli incendi e forniscono rifugio ad altre specie. Eppure, anche se le Nazioni Unite e i principali scienziati sono d’accordo sul fatto che la nostra sicurezza futura c’impone di prestare attenzione alle interconnessioni tra il benessere umano e quello degli animali e degli ecosistemi, predomina ancora un atteggiamento antropocentrico e assetato di profitti.

Oltre a lavorare con la natura, dobbiamo collaborare tra noi, il che significa trasformare la nostra ansia e insicurezza climatica in solidarietà, una solidarietà abbastanza forte da superare gli interessi particolari sempre favorevoli alle soluzioni inadeguate presentate nelle politiche climatiche dei governi.

Come hanno abbondantemente chiarito gli scienziati autori del rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico del 2022 e gli agenti segreti del National intelligence council, tutto deve cambiare: i nostri sistemi energetici, i nostri sistemi alimentari, i nostri sistemi di trasporto e i nostri sistemi di sicurezza sociale. L’attivista e scrittrice Naomi Klein sostiene che garantire una base di sicurezza materiale alle persone, in particolare la garanzia di posti di lavoro verdi che potrebbe facilitare una transizione dai combustibili fossili, è fondamentale per affrontare lo sconvolgimento climatico: “Più le persone si sentono sicure, sapendo che le loro famiglie avranno da mangiare, medicine e un riparo, meno saranno vittime della demagogia razzista che sfrutta le paure che invariabilmente accompagnano i tempi di grandi cambiamenti”. La sicurezza materiale, sostiene, può aiutarci ad “affrontare la crisi dell’empatia in un mondo che si sta riscal­dando”.

I sostegni al reddito forniti dai governi degli Stati Uniti e del Canada in risposta alla pandemia di covid-19 sono stati molto efficaci, e hanno garantito la sicurezza materiale in un modo che non si era più visto dai tempi della creazione dello stato sociale dopo la seconda guerra mondiale. Ma come giustamente insistono nel dire Klein e altri, non possiamo semplicemente risuscitare le politiche sociali di una volta. Invece di guardare con nostalgia allo stato sociale del novecento, che si basava sul presupposto che la crescita economica e lo sfruttamento dell’ambiente potessero essere illimitati, dovremmo aspirare a una visione più lungimirante di uno stato che garantisca la sicurezza a tutti in modo sostenibile, uno stato che sia allo stesso tempo decarbonizzato e democratico, quello che mi piace chiamare uno stato solidale.

Radicato nella collaborazione per i beni comuni, uno stato solidale aspira all’uguaglianza politica ed economica e al riconoscimento della nostra fondamentale interdipendenza, compresa quella con il mondo più che umano.

Come ha detto Lindsay Borrows, linguista e giurista di etnia anishinaabe, la natura ha bisogno di diritti, ma gli esseri umani hanno bisogno di una “carta dei doveri”. Soprattutto, ci serve l’obbligo di non prendere nulla dalla natura se non ci preoccupiamo anche di reintegrarlo per rispettare i limiti ecologici. Oggi sappiamo dove ci porta ignorare obblighi e limiti: alla calamità climatica e alla spirale dell’insicurezza. Ma questa non è certo una novità. Già nel suo dialogo Crizia, Platone si lamentava della terra distrutta dalla cattiva gestione, e descriveva il suolo arido, l’assenza di alberi e l’abbandono di luoghi dove un tempo c’erano sorgenti fresche come “lo scheletro di un uomo malato, in cui tutta la terra grassa e molle si è consumata”. Anche i sumeri, i romani, i maya e altre società antiche si spinsero oltre i limiti ecologici, generando instabilità e accelerando il collasso della loro civiltà. Leggendo le cronache dei coloni si scopre che erano i primi a meravigliarsi del proprio potere distruttivo sull’ambiente e allo stesso tempo ne pianificavano la devastazione definitiva. La differenza oggi è che questa distruzione sta avvenendo su scala globale.

I tentativi antropocentrici di soggiogare il pianeta sono sempre controproducenti. Non possiamo sottomettere il mondo se vogliamo viverci in sicurezza. Non saremo mai i lupi alfa sicuri e onnipotenti del regno animale in cui ci vorrebbero trasformare i petromaschilisti, ed è giusto così, perché quella dei lupi alfa è un’idea sbagliata che deriva dallo studio degli animali in cattività. In natura gli animali non lottano per scalare le gerarchie.

L’immagine del mondo naturale come cerchio inclusivo anziché gerarchia esclusiva non è frutto del romanticismo, ma della corretta lettura delle informazioni scientifiche che descrivono la nostra realtà, dove siamo inseriti in un elaborato circolo di vita, non-vita e perfino semi-vita. Mio padre è un chimico farmaceutico e la sua ricerca si concentra sui virus. I virus sono sequenze microscopiche di dna o rna che per replicarsi dipendono dal dirottamento dell’energia delle cellule ospiti. Abitano in un limbo che sfida le categorie, una strana zona grigia tra vivente e non vivente, animato e non animato. Quello che vedo nel lavoro di mio padre non è un desiderio di conquista ma un senso di mistero. I virus non sono affatto simpatici, ma mio padre mi ha dimostrato che meritano il nostro rispetto, se non il nostro timore. Il fatto che le nostre vite dipendano da processi biologici e fisici che a malapena riusciamo a categorizzare e da dinamiche complesse certamente fuori dal nostro controllo dovrebbe suscitare una grande dose di umiltà. Questa umiltà è l’ethos che associo alle capacità buone e generative dell’insicurezza, quelle che possono aiutarci a essere curiosi, a connetterci, a evolverci e forse a sopravvivere in un mondo che sta radicalmente cambiando.

Non ho la formula per una società in cui tutti i nostri problemi saranno risolti per sempre, non ce l’ha nessuno. Non credo nell’utopia, ma posso immaginare un futuro più promettente in cui i nostri problemi diventeranno più interessanti e complessi, di una complessità che si addice al mondo ingarbugliato e imprevedibile in cui viviamo. Invece delle domande noiose e deprimenti che ci troviamo ad affrontare oggi – per esempio, se una manciata di produttori di combustibili fossili dovrebbe avere la licenza di ridurre in cenere il pianeta – potremmo puntare a costruire una società sicura e sostenibile che ci costringa a cimentarci con enigmi filosofici e pratici molto più avvincenti. Se la natura ha dei diritti, dovrebbero essere tutelate anche le specie invasive? Se tutti gli ecosistemi sono interconnessi dov’è lo spartiacque tra loro? Come possiamo prendere decisioni quando le nostre azioni hanno ripercussioni globali? Come possiamo garantire libertà e dignità a tutti nel rispetto dei limiti ecologici? Questo è il tipo di interrogativi su cui vale la pena riflettere, e le risposte non sono evidenti. Ma anche se tutto ciò è incerto e instabile, so una cosa: l’illusione della sicurezza umana a spese della natura non può reggere. ◆ bt

Astra Taylor è una regista, giornalista e attivista politica canadese. Questo articolo è uscito sul bimestrale canadese The Walrus con il titolo Rethinking uncertainty in an insecure age.

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Questo articolo è uscito sul numero 1547 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati