È mezzanotte passata e le persone ammucchiate nella taverna dentro una mansarda traballante cercano di farsi capire in mezzo alla foschia appiccicosa di nuvole di fumo e di vapore che arrivano a folate dalla cucina. Dalle pentole si riversano nei piatti zuppe, peperoni ripieni, carne alla griglia, sarmale (involtini in foglie di verza o vite). E poi caffè turco. Pittori, poeti, perdigiorno, scultori, drammaturghi, attivisti, giudici, tossicodipendenti, medici, compositori incrociano i loro destini nel Green­wich village, a New York, in un novecento appena cominciato.

Una donna vivace, vestita con una gonna colorata, la sigaretta all’angolo della bocca e le orecchie sempre allerta, serve agli ospiti caffè nero. È la loro regina senza corona, veggente, psicoterapeuta, tuttofare, custode d’arti: Romany Marie, vero nome Marie Marchand, nata Yuster nel 1885 a Răchitoasa, un villaggio in Romania, da qualche parte tra la Moldavia e la Muntenia.

Una donna vivace, vestita con una gonna colorata, la sigaretta all’angolo della bocca e le orecchie sempre allerta, serve agli ospiti caffè nero. È la loro regina senza corona

Il nome di Marie appariva regolarmente nelle mie ricerche tra le pubblicazioni dedicate ai personaggi più singolari di New York. Gli articoli ripercorrevano i punti salienti della sua vita, ma io volevo sapere di più di questa donna leggendaria, che gestì locali in cui si dava appuntamento la bohème newyorchese di quasi un secolo fa. Ho seguito il filo dei suoi incontri, intrecci e ricostruzioni con l’idea di sviluppare una sceneggiatura per una miniserie tv ispirata al suo mondo.

“Immagina!”. Cominciava così la pubblicità della taverna di Romany Marie. “In questi giorni aridi e tristi, l’intera Manhattan sbadiglia in una morsa di noia. Broadway e le sue luci accecanti? No! E allora dove si va? Cosa c’è da fare? E se ti dicessi che in città esiste un posto con un’atmosfera che ricorda un villaggio di campagna? Un posto che ti fa conoscere uno scorcio della Romania più romantica? Dove la brace arde sotto la griglia e al posto del jazz regnano i canti malinconici dei Carpazi? Dove puoi sorseggiare caffè turco e liquori aromatizzati? Che ne pensi? Ti viene voglia di uscire di casa? Un posto del genere esiste e si chiama Taverna Romany Marie, è nel Green­wich village”.

Theodore Dreiser, Isadora Duncan, Constantin Brâncuși, Diego Rivera, Buckminster Fuller, Edgar Varèse, E.E. Cummings ed Ernest Hemingway sono solo alcuni dei clienti fedeli, amici e discepoli. Romany Marie fa e disfa amicizie, combina matrimoni e rimette in sesto artisti in crisi con pasti caldi e parole di conforto. Dal 1914 fino alla fine degli anni quaranta non c’è persona in città che non pronunci il suo nome con ammirazione. Le sue taverne occupano una mezza dozzina di soffitte, seminterrati e sale fuori uso. Quando uno dei centri chiude, un pezzo di carta appeso alla porta annuncia: “La carovana ha traslocato in un altro posto”.

Romany è un soprannome che richiama la sua terra d’origine. Marie è di madre ebrea. Nel vecchio mondo, Esther Rosen è una forza della natura venuta da un altro secolo. È madre, oste, guaritrice, sintonizzata sulle vibrazioni di un mondo destinato all’oblio. Lavora duramente giorno dopo giorno, cura con erbe e canti i malati sul letto di morte, tiene a bada il dispotico capofamiglia, Lupu Yuster, e non si azzarda a sognare orizzonti più felici. Marie cresce all’ombra dei carri dell’accampamento, vicino a Răchitoasa, assorbendo tutto quello che la circonda come un liquore stregato: le usanze, le canzoni, i giochi, le formule contro il malocchio, le pietanze cucinate nel paiolo, le notti all’aperto, i bagni nudi nella calura di mezzogiorno. Esther tiene la contabilità familiare senza carta e penna, conserva la frutta in secchi di sabbia, affumica carni, cuoce il pane, guarisce l’ulcera con strane tinture, tesse fazzoletti di filaticcio. La gente intorno a Marie si occupa del commercio di catrame e sale, costruisce liuti, pesta tes­suti di lana, curva il legname con il vapore, fabbrica alcol.

A quindici anni Marie decide di tentare la fortuna in America. Un’amica di New York le invia i biglietti della nave e la partenza avviene in grande segretezza, per paura del padre. Dopo qualche settimana arriva negli Stati Uniti con l’idea di farsi raggiungere il prima possibile dalla madre, dalla sorella e dal fratello. Cuce, taglia, stira, seguendo il percorso della maggior parte delle immigrate come lei. Poi arriva il primo shock culturale: le dicono che, con i suoi 75 chili, è troppo grassa. Sintomo di povertà in Europa, nell’America d’inizio secolo la magrezza è invece simbolo di vita sana. Su consiglio delle sue colleghe prova la dieta dell’aceto e perde venti chili.

A New York, invece di trovare una città all’altezza di Vienna o Parigi, Marie trova una metropoli sporca, ossessionata dal commercio, con fabbriche perfino nel centro della città. Il tempo per visitare un museo o ascoltare le bande al parco è un privilegio di cui godono solo i ricchi, mentre la maggior parte degli immigrati vive in condizioni deplorevoli. Marie mette da parte lo stipendio e affitta una cameretta. Il primo mobile che compra è una sedia a dondolo, per mamma Esther.

Damon Marchand aveva intravisto per la prima volta Marie in una fiera vicino alla città di Bârlad. I lineamenti di quell’adolescente scalza avevano ossessionato per anni il giovane ufficiale di cavalleria. Dopo aver girato il mondo, alla fine aveva attraversato l’Atlantico ed era finito a lavorare come traduttore nel centro di smistamento degli immigrati di Ellis island, gomito a gomito con il futuro sindaco di New York, Fiorello La Guardia. Lì, quando Marchand incontra di nuovo Marie le chiede quasi subito di sposarlo. Rimarrà con lei per tutta la vita. I due non sono fatti per un matrimonio come tutti gli altri: ognuno ha faticose relazioni extraconiugali, a cui la coppia dà il nome di yontiff, che in yiddish significa vacanza.

Quel che Marie desidera di più è ricongiungersi con la sua famiglia (senza il padre Lupu) e farsi una cerchia di amici intellettuali. Invece di seguire corsi serali d’inglese, preferisce imparare la lingua andando a teatro e prendendo parte a conferenze e assemblee notturne.

L’incontro con Emma Goldman, un’anarchica descritta dai giornali come una terrorista isterica, è uno dei tanti avvenimenti folgoranti della sua vita. Alle sue conferenze sente parlare per la prima volta di contraccezione, diritti delle donne, libertà sessuale, lotta contro la violenza generata da uno stato monolitico. Marie desidera farsi amicizie tra le menti più brillanti che partecipano alle conferenze dell’attivista lituana. Un mondo nuovo e colorato.

Per qualche tempo lavora per Goldman e per la sua scuola, che intendeva offrire un’educazione libera dall’influenza della religione e dello stato e promuoveva il pensiero critico, la giustizia sociale e la libertà individuale. L’istituto era tutelato dalla cerchia anarchica newyorchese, si proclamava antidogmatico e voleva sostituire il tradizionale curriculum di studi con seminari, corsi e dibattiti liberi. Marie si occupa, tra le altre cose, dell’organizzazione dei corsi di pittura, tenuti da Robert Henri.

In breve tempo comincia a raccogliere intorno a sé un gruppo di amanti dell’arte e della conversazione. Affascinati dalla cucina romena e dal caffè turco, gli amici non solo la incoraggiano ad aprire una taverna, ma fanno una colletta per aiutarla ad aprirla. Il poeta David Ross le trova anche un soprannome: Romany Marie. “Perché no?”, pensa lei, intravedendo nel suo nuovo nome l’opportunità di chiudere il cerchio che si era aperto nella sua infanzia in un villaggio della Romania.

A New York i balli, in maschera o meno, sono ribattezzati gipsy dances e spesso sono organizzati dal giornale del quartiere. Romany Marie, soprannominata “regina dei gitani”, è ospite immancabile tanto delle piste da ballo quanto delle pagine dei giornali scandalistici, che descrivono le sue apparizioni con dovizia di dettagli: “Romany Marie indossava una blusa del Beluchistan sopra una gonna di paglia d’ispirazione indo-africana”. Con la sensibilità di oggi si potrebbero dire cose non proprio indulgenti su quest’amalgama di prestiti culturali, ma l’esotismo e l’ambiguità identitaria a quei tempi avevano la funzione di rompere gli stereotipi patriarcali e razziali.

Il nome di Marie Yuster Marchand appare nelle cronache dell’epoca perché coinvolto nelle situazioni più esplosive: scioperi, manifestazioni, processi ad attivisti radicali. Nello stesso periodo va a ingrossare le file dei sostenitori del movimento che promuove la contraccezione ed entra a far parte della cerchia di Martha Sanger, fondatrice dell’American birth control league.

Il movimento a cui aderisce Marie è eterogeneo e comprende tutto lo spettro del progressismo: i sostenitori del suffragio universale, della libertà d’espressione, delle pari opportunità, della causa dei lavoratori, dell’alfabetizzazione e della contraccezione, poi i sindacalisti e gli idealisti che si oppongono alla violenza generata dai governi e dagli stati nel periodo appena precedente la prima guerra mondiale. La povertà è alimentata dall’inflazione, l’analfabetismo, la mancanza di accesso ai servizi medici. Gli scioperi terminano ogni volta con morti e feriti. In determinate circostanze gli idealisti diventano pragmatici e organizzano attentati nella speranza di arrivare a mobilitare una massa critica. Il più delle volte il risultato è l’opposto: una campagna furibonda nei giornali vicini al potere che riesce a delegittimare anche gli obiettivi più lodevoli. Più tardi Marie prenderà pubblicamente le distanze dall’etichetta di “anarchica” che le era stata cucita addosso, ma le idee progressiste rimarranno sempre al centro del suo pensiero.

Francesca Ghermandi

Dal 1914 fino alla fine degli anni cinquanta Marie Marchand offre uno spazio ideale per discutere, vivere idilli illeciti e ballare sui tavoli. Nei suoi bistrot si mangia, ci si confronta, si fanno e si disfano matrimoni. Marie consola il pioniere della musica atonale Edgar Varèse, devastato dalle critiche rivolte alle sue composizioni: per tutta la vita sarà sua amica e musa. Trova una moglie allo scrittore Theodore Dreiser. Quando la famosa gallerista Edith Alpert porta nel suo locale Nelson Rockefeller per fargli leggere i fondi del caffè, scherzando Marie gli predice che diventerà enormemente ricco. Il mistico George Gurdjieff passa sempre da Romany Marie quando è a New York.

I locali di Marie Marchand nel Green­wich village diventano però rapidamente vittime del loro stesso successo e di certe voci. Da tutti gli Stati Uniti, e perfino dall’estero, i turisti si riversano nelle strade del quartiere più bohémien di New York alla ricerca di quella stessa atmosfera che oggi in molti cercano a Berlino, Amsterdam o Lisbona. Le leggende sulla frivolezza sessuale, i balli orgiastici, i fiumi di alcol o di droghe attirano orde di temerari in cerca di avventura, che trovano ospitalità in locali adeguati alle loro richieste. Il più delle volte sono copie di cartapesta delle osterie autentiche, allestite in tutta fretta come scenografie teatrali, con ragnatele, oggetti pirateschi, candele nelle bottiglie. Il Pirate’s den, con i camerieri vestiti da pirati e i pappagalli che insultano i clienti, apre in una delle taverne di Romany Marie, al 133 di Washington place, e diventa presto uno dei principali bersagli delle retate della polizia, fino alla fine del proibizionismo, nel 1933.

Nonostante i cambi d’indirizzo, nelle sue taverne c’è un elemento che non cambia mai: l’angolo degli artisti, i tavoli riservati agli intellettuali, ai poeti, insomma alle persone capaci di cambiare il corso della storia con le loro idee all’avanguardia, scomode, folli.

Richard Buckminster Fuller, architetto, inventore, filosofo, futurista, arriva per la prima volta all’osteria di Marie nel 1919 e osserva entusiasta la musicista Genevieve Pitot che balla nuda sui tavoli di legno. Dieci anni più tardi, fallito, depresso e con intenzioni suicide, trova un rifugio da Romany Marie. Insieme al drammaturgo Eugene O’Neill, lei diventa la sua mecenate e confidente. In cambio di pasti gratuiti, “Bucky” tiene discorsi pubblici ed espone bozzetti. Nessuna delle sue idee appare assurda a chi frequenta i locali di Marie. È così per Isamu Noguchi, un giovane scultore nippo-americano appena arrivato da Parigi, che si ferma da Marie su consiglio del suo mentore, Constantin Brâncuși. In breve tempo Noguchi e Fuller diventano collaboratori e sviluppano progetti come il parco Moerenuma di Sapporo e l’Hart plaza di Detroit.

Il nucleo alla base delle teorie di Buckminster Fuller è la dymaxion (parola composta da parti di tre vocaboli: dynamism, maximum, tension), che illustra la capacità di ottenere il massimo vantaggio con il minimo apporto di energia. Tra le sue prime applicazioni c’è proprio il design degli interni del ristorante di Romany Marie in Minetta street: un interno con pareti, sedie e tavoli in alluminio, intensamente luminoso. È un flop, le sedie e i tavoli sono sostituiti in tutta fretta con un più prosaico mobilio di legno. L’interno pensato da Fuller e Noguchi resiste solo qualche giorno, ma Marie rimane una grande sostenitrice della sua visione idiosincratica, che farà storia con un sistema di pensiero capace d’influenzare intere generazioni di architetti, designer e filosofi.

Nelle stanze mal illuminate dell’osteria prende vita anche il cosiddetto movimento tecnocratico. Howard Scott, uomo di mondo e d’esperienza, diventa celebre come “l’ingegnere della bohème” con le sue idee per rendere più efficiente la produzione industriale mediante metodi scientifici e pianificazione centralizzata, in opposizione allo spreco tipico del regime capitalista.

All’inizio degli anni venti, tra Montparnasse, Berlino e il Green­wich village c’è un continuo via vai di artisti, sognatori e avventurieri, in cerca di affitti economici e di una brillante vita notturna. Da Romany Marie arriva Matisse, che più tardi porta con sé anche Marcel Duchamp e Brâncuși. Con l’occasione della sua celebre mostra a New York nel 1926, lo scultore romeno passa notti intere nella taverna, suonando la chitarra e chiacchierando con Gurdjieff. Marie ricambia la visita con un lungo viaggio in Europa. Secondo il racconto dell’editrice americana Margaret Anderson, una loro tipica notte a Parigi va più o meno così: lo scultore macina e prepara il caffè turco, poi tira fuori il violino e canta canzoni romene, balla, chiede a Duchamp di suonare la batteria, fa foto a tutti con grande serietà. Verso l’una di notte il poeta Tristan Tzara propone al gruppo di prendere d’assalto l’Opéra e sostituire le statue esistenti con i lavori di Brâncuși. Intorno alle sette del mattino arrivano quasi strisciando al bois de Boulogne, animati dall’intento di catturare un’anatra per cucinarla al forno. Non è uno scherzo: è la specialità culinaria di Brâncuși, famoso per essere un grande cuoco. Infine tornano esausti all’atelier, dove mangiano pollo freddo, insalata e formaggio e bevono vino. Nei ruggenti anni venti le frontiere tra l’amicizia, l’amore e la semplice affinità intellettuale sono molto sfumate.

Il marito di Marie, Damon Marchand, è una figura taciturna, burbera, che però spesso tocca vette di genialità. Appassionato di farmacologia, sperimenta su se stesso pozioni che a volte gli sono quasi fatali. Alcune alleviano gastrite, tonsillite o malattie nervose e lui diventa una piccola celebrità locale. Gli passano per la testa idee per produrre caffè istantaneo, crema depilatoria e una soluzione chimica per rammendare le calze. Non s’interessa di gastronomia né di arte d’avanguardia, ma è piuttosto attirato del lato esoterico dell’osteopatia. Quando sua moglie si ammala gravemente, propone un rimedio da lui inventato. Cresciuta da una madre guaritrice, che per curarla usava tinture, erbe e filastrocche scaramantiche, Marie diventa una sorta di campo di battaglia tra la medicina praticata da suo marito e quella scientifica. Se dobbiamo credere alle sue parole, Marchand aveva ragione e lei guarisce dopo aver seguito il trattamento. Incredulo, il suo medico diventa un ammiratore di Marchand e tenta, senza troppo successo, d’introdurre i suoi precetti nella medicina scientifica.

La cieca fiducia che Marchand nutre nelle sue capacità di diagnosi e guarigione lo porta inevitabilmente a una lenta, ma straziante fine. Marie rinuncia all’ultima apertura di un ristorante per stargli accanto. E dopo la sua morte non trova più le risorse per ricominciare da capo. D’altronde intorno a lei la realtà si sta implacabilmente trasformando. Al Green­wich village le generazioni cambiano. L’élite bohémien è sostituita dai nuovi beatnik. Alla fine, del vecchio Village rimangono solo racconti buoni per far addormentare i turisti californiani o gli ubriaconi di Wash­ington square.

Nel 1939, numerosi ex frequentatori di Marie – Edgar Varèse, il pittore Yasuo Kuniyoshi, l’esploratore Vilhjalmur Stefansson, l’anarchico Leonard Abbott, la curatrice Edith Halpert – lanciano un appello per radunare i vecchi amici e organizzare un evento in suo onore. Una lunga lista raccoglie i loro nomi: ci sono Brâncuși, Diego Rivera, Marcel Duchamp, Theodore Dreiser, E.E. Cummings ed Ernest Hemingway, ma anche Harry Kemp, Muriel Draper, Edna St. Vincent Millay e altri.

Nei suoi ultimi vent’anni di vita, Marie Marchand vive di ricordi, suoi e degli altri. Non si occupa più di gastronomia, se non per la collaborazione a un ristorante il cui proprietario desidera soprattutto avere clienti dai nomi altisonanti. È di fatto una specie di influencer che porta nei locali i suoi amici, quelli che sono ancora in città o in vita, in cambio di un pasto e di qualche sigaretta. Il modello, però, non funziona più: anche se sono ormai anziani, gli amici di Marie sono abituati a uscire dopo la mezzanotte, ma i ristoranti chiudono alle dieci di sera.

Marie affronta la vecchiaia con la grazia e la generosità che l’hanno resa celebre, e con una profonda discrezione. Quando viene trovata morta a casa sua, in seguito a una malattia polmonare che l’aveva costretta a letto, il Village Voice titola “La reine est morte – There is no other”, la regina è morta – non ce n’è un’altra. La messa si celebra in una piccola stanza con il semplice rituale del movimento religioso bahá’i, che Marie aveva frequentato negli anni venti.

Dopo qualche decennio Romany Marie era ormai dimenticata, destino forse ovvio in una città in cui le cose cambiano da un giorno all’altro a ritmi vertiginosi. Può sembrare bizzarro che concetti e idee come l’uguaglianza di genere, la salute riproduttiva, la musica atonale, la meditazione o il poliamore fossero argomenti di conversazione già nella New York di cent’anni fa, magari davanti a un piatto di ciorba de perișoare (zuppa di polpette). Dei locali di quell’epoca non esiste più nessuna traccia fisica. Forse per questo è difficile credere che queste persone siano esistite davvero, che Romany Marie non sia solo uno strabiliante personaggio di fantasia. Eppure questi uomini e queste donne non solo hanno vissuto, ma hanno fatto molto di più: hanno rotto convenzioni sociali, hanno organizzato feste mirabolanti e poi sono evaporati dalla memoria collettiva con la stessa splendida velocità con cui avevano attraversato le loro esistenze. La carovana è partita, una volta per tutte. ◆ mt

Cosmin Nicolae è un giornalista e scrittore romeno. Questo articolo è uscito su Scena9, un periodico romeno che racconta la vita culturale del paese. Il titolo originale era Viaţă și cârciumile lui Romany Marie, regina boemei newyorkeze.

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Questo articolo è uscito sul numero 1533 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati