Mentre l’aereo cominciava la discesa verso l’aeroporto di Sofia mi sono sporto per guardare fuori. Campi grigi e chiazze spelacchiate di terreni post­industriali incolti punteggiavano i margini della città. Poi ecco spuntare i dedali dei palazzoni dell’era comunista – gli stessi palazzoni in cui ero cresciuto – seguiti da accozzaglie ancora più vecchie di tetti con le tegole rosse. Nel centro della città, lungo il famoso selciato giallo di Sofia – “La strada di mattoni gialli”, come scrivono entusiaste le guide turistiche –, si stagliava il colosso triangolare stalinista della Casa del partito, l’ex sede del Partito comunista bulgaro, ora sormontato dalla bandiera tricolore anziché da quella con la stella rossa. Nello spazio adiacente, dove un tempo sorgeva il cubo del mausoleo di Georgi Dimitrov – “il grande leader e maestro del popolo bulgaro” – c’era una distesa piatta e vuota, una specie di enorme quadrato di Malevič. Anche se dall’alto sembrava regnare un grande disordine, era esattamente quel che cercavo: il senso di qualcosa che si muove, dei tempi che cambiano, di una nuova frontiera.

Era la fine del 2010 e avevo deciso di tornare in Bulgaria. Ero rimasto più di dieci anni negli Stati Uniti per studiare e costruirmi una vita, e non avrei mai immaginato di tornare sui miei passi, come un criminale che va a rivisitare il luogo del delitto. La gente diceva che era un segno di sconfitta. Tornare a casa per restarci rasentava la pazzia.

Era la fine del 2010 e avevo deciso di tornare in Bulgaria. Ero rimasto più di dieci anni negli Stati Uniti, e non avrei mai immaginato che un giorno sarei tornato sui miei passi

Effettivamente, era una decisione strana da parte mia. All’estero non ero infelice e non avevo nostalgia di casa. Dopo aver finito le scuole superiori a Sofia, ero andato negli Stati Uniti grazie a una borsa di studio in lettere in un piccolo college del Vermont, poi mi ero iscritto a un corso post laurea in California. Non avevo mai avuto problemi d’inserimento. Il mio, suppongo, era il sogno americano: la promessa che non potevi essere nessuno, quindi potevi essere chiunque.

Con il passare degli anni, ho fatto un’altra scoperta: ero arrivato tardi alla festa. Avevo raggiunto la frontiera più a ovest del mondo occidentale, ma ormai non era più una frontiera. Gli Stati Uniti mi davano la sensazione di un posto vecchio, stranamente più vecchio dell’Europa, un posto dove sembrava che il tempo si fosse fermato, nonostante il movimento frenetico. C’era troppo di tutto: regole, lavoro, ricchezza, povertà, armi, arte. In qualche modo, negli anni, la macchina era diventata troppo complessa: le fondamenta stavano crollando lentamente ma inesorabilmente sotto un peso sempre più schiacciante. Anche la strada dell’autorinnovamento e dell’originalità, la meno battuta, era ormai tracciata, parte di un discorso logoro, ripetutamente pubblicizzato, monetizzato e assorbito all’interno del sistema capitalista.

È stato allora che mi è venuta un’idea: e se tornassi a casa? La Bulgaria, in tutto il suo squallore e provincialismo, non era esattamente la frontiera che stavo cercando di esplorare? Il posto dove l’orologio ticchettava ancora verso un orizzonte sconosciuto? In fondo, la Terra è rotonda e spostandosi a ovest dell’occidente alla fine si arriva in oriente. Forse, riflettevo, la vera libertà non era quella di partire, ma quella di tornare.

Sono nato a Sofia, la capitale di quella che all’epoca era ancora la Repubblica popolare di Bulgaria, nel 1981, otto anni prima del crollo del regime comunista. I miei ricordi di quegli anni sono frammentari e insignificanti, niente di così assurdamente totalitario da titillare l’immaginazione. Forse non ero abbastanza grande per essere pienamente consapevole, o forse il sistema era già troppo stanco e sfibrato per preoccuparsi di propagare i suoi geni alla mia generazione, l’ultima cresciuta sotto la sua tutela. Una volta eravamo andati in gita con la scuola al mausoleo di Georgi Dimitrov, dove la salma mummificata del primo capo di governo bulgaro comunista della storia era esposta in una sala funeraria, ma ci era sembrata più un’avventura che un pellegrinaggio. Illuminato da luci spettrali nel suo sarcofago di vetro, il compagno Dimitrov giaceva in pace, la testa leggermente sollevata su un cuscino, come Biancaneve. Anche gli idoli del passato ormai erano diventati personaggi di un diorama fiabesco da quattro soldi.

All’epoca, negli anni ottanta, io e la mia famiglia abitavamo in una palazzina residenziale nella “città degli studenti”, un quartiere alla periferia di Sofia progettato per funzionare come un grande campus centralizzato. La città studentesca era ancora nella prima fase del suo sviluppo, e i pochi edifici accademici e residenziali erano circondati da campi incolti dove capitava d’incontrare greggi di pecore al pascolo. Era un momento magnifico, come spesso è magnifica l’infanzia, indipendentemente dal sistema politico. Quasi tutti i giorni io e i miei amici passavamo il tempo a esplorare i sentieri tortuosi della zona, ma la mia attività preferita era navigare su una zattera di polistirolo improvvisata in un gigantesco fossato pieno di acqua piovana, vicino all’istituto di economia Karl Marx.

Da ragazzini non avevamo idea di come, quando o perché fosse stato scavato quel fossato, ma le sue dimensioni – era lungo circa 500 metri e largo venti, se la memoria non m’inganna – ci affascinavano, come i resti misteriosi di una civiltà perduta. Anni dopo, ho scoperto che era parte di un defunto megaprogetto di epoca comunista noto informalmente come “il mare di Sofia”, che prevedeva una rete di canali navigabili collegati al Danubio, 150 chilometri più a nord. Sofia non aveva sbocchi sul mare ed era circondata da ogni lato dalle montagne. E allora? Il comunismo non doveva forse sognare in grande?

In mancanza di manodopera sufficiente e di macchinari adeguati a un’impresa di quella portata, il regime bulgaro aveva deciso di cercare volontari tra gli abitanti di Sofia. Armati solo di badili e picconi, operai, segretarie, medici e ingegneri furono spediti per anni a fare il canale nei fine settimana e durante le vacanze. Finalmente, a metà degli anni sessanta, un comitato di esperti concluse saggiamente che completando il progetto si rischiava di provocare un’inondazione in città. Si decise di smettere di scavare e di cominciare a rimettere la terra. Anche questa seconda opera non fu mai portata a termine e così, vent’anni dopo, un gruppo di ragazzini navigava su una zattera di polistirolo in un gigantesco fossato pieno di acqua piovana. Senza volerlo, avevamo esaudito il sogno comunista del mare di Sofia.

Con il senno di poi, quella rete di canali scavati e poi interrati era una metafora della situazione generale dell’epoca. Come in altre parti dell’Europa centrale e dell’est, nel mio paese i comunisti erano andati al governo con l’idea dichiarata di trasformare radicalmente la società e la politica in senso marxista, ma dopo il periodo rivoluzionario iniziale queste grandi ambizioni erano state metodicamente ridimensionate. Certo, si sentivano ancora incessanti banalità sul costruire un “futuro luminoso” con il pane gratis, senza classi sociali e i mezzi di produzione in mano al popolo, ma anche i più fedeli sostenitori del regime sapevano che era solo una messinscena in cui tutti dovevano recitare una parte. Sofia non sarebbe mai stata navigabile, ed era più saggio seppellire le prove di qualsiasi tentativo per cambiarla.

All’inizio degli anni settanta la Bulgaria, come l’Unione Sovietica di Brežnev e il resto del blocco sovietico, era in preda alla stagnazione, o “socialismo reale”, come preferivano chiamarlo eufemisticamente gli ideologi locali. Il paese si stava gradualmente trasformando in una sorta di palude totalitaria, tranquilla e in qualche modo noiosa, grigia ma non troppo povera, politicamente oppressiva ma non eccessivamente assetata di sangue, almeno non più. Il marxismo continuava a essere la religione di stato, e tutti continuavano a rispettare i suoi rituali, così come in occidente si continuava ad andare in chiesa anche senza più fede. Peggio ancora, nessuno riusciva a vedere un futuro, un orizzonte sociale. Per restare in vita il comunismo si era sempre affidato all’idea di essere lo scopo ultimo dell’universo, ma ora la frontiera si era chiusa. Era come se il tempo avesse smesso di andare avanti e fosse rimasto intrappolato in un ciclo agricolo dal sapore vagamente medievale: inverno, primavera, estate, autunno, inverno, primavera, estate, autunno; decimo congresso del partito, undicesimo congresso del partito, dodicesimo congresso del partito, tredicesimo congresso del partito.

Forse è per questo che alla fine i regimi comunisti sono crollati in tutta l’Europa centrale e orientale. Non tanto per le difficoltà economiche, anche se sono state un fattore importante, ma perché nessuno ci credeva più. La vita è sempre transitoria, e quando la possibilità del cambiamento scompare, quando le frontiere spariscono e il tempo diventa ciclico, comincia inevitabilmente il declino.

Erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, un banchetto in tempo di pestilenza, un giro sulla giostra nel mezzo di una carneficina. Ancora oggi, più di trent’anni dopo, mi è difficile dare una spiegazione coerente di cosa è successo in Bulgaria subito dopo i cosiddetti cambiamenti del 1989. Non era la fine della storia, come aveva suggerito Francis Fukuyama, ma il contrario: le lancette arrugginite dell’orologio che si rimettevano faticosamente in moto, il treno che partiva dalla sua stazione di campagna dopo anni di ritardo.

“De-mo-cra-zia!”, scandiva la gente nelle piazze, sventolando bandiere e agitando cartelli. Mi ricordo la gioia e la speranza iniziali che l’incubo del passato fosse finito e che ci aspettassero tempi migliori. Magari era una visione ingenua e idealistica, ma non per questo meno vera. Per 45 anni i bulgari erano stati segregati in un gigantesco carcere di massima sicurezza, grande come un paese, con la concessione occasionale di una sbirciatina tra le sbarre di ferro, e un isolamento così lungo tende ad accendere l’immaginazione.

Davide Bonazzi

Quello che è successo in Bulgaria durante gli anni novanta è accaduto in tanti altri paesi dell’Europa centrale e orientale. Ben preparata e posizionata, l’élite dell’ex Partito comunista gestì la trasformazione del sistema privatizzando, per così dire, il suo stesso potere statale. Il passaggio improvviso all’economia di mercato affossò le industrie che erano in sofferenza da più tempo. Le nostre fabbriche obsolete e i loro prodotti obsoleti non potevano resistere a lungo alla concorrenza globale, e migliaia di lavoratori si ritrovarono disoccupati e senza prospettive. Una buona parte dei bulgari perse i risparmi di una vita a causa dell’iperinflazione.

Nonostante le difficoltà economiche e la criminalità dilagante, nei miei ricordi gli anni novanta sono un’epoca gloriosa, sublime. I “cambiamenti” avevano dato ai bulgari una scarica di entusiasmo e di fiducia nel futuro che si manifestavano un po’ ovunque, dalla partecipazione alla politica alla pubblicazione di giornali indipendenti, dalla creazione di opere d’arte provocatorie alla fondazione d’imprese private. Mia madre lasciò il suo impiego pubblico (aveva avuto un ruolo importante nello sviluppo del primo sistema informatico per il controllo del traffico in Bulgaria) per coordinare il sistema antifrode e di gestione dei rischi di una grande banca francese; mio padre, che faceva l’anestesista, a 38 anni fu promosso direttore dell’ospedale. I miei nonni paterni trasformarono il loro garage in un emporio; i miei nonni materni aprirono un allevamento di conigli nella loro proprietà in campagna. Tutti, indipendentemente dall’età, volevano fare qualcosa di audace con la loro ritrovata libertà, rischiare e sperimentare. Era come vivere in un insediamento di frontiera.

Alle soglie dell’adolescenza, scoprii tutto quello che prima era stato censurato o semplicemente non si trovava: musica rumorosa, arte sperimentale, pornografia, droghe. Non c’erano più regole da rispettare: potevamo metterci i vestiti che ci piacevano, attillati, larghi o succinti, e farci tutti i piercing e i tatuaggi che volevamo. I teatri, finalmente liberi dagli schemi conservatori e provinciali del partito, mettevano in scena opere radicali: Beckett e Ionesco, Jean Genet e Heiner Müller, Sarah Kane e Eve Ensler, con gli attori che vagavano nudi per il palco o farneticavano in delirio. La letteratura si scrollava di dosso le costrizioni del passato e abbracciava l’ironia e le sperimentazioni del postmodernismo. Era tutto meraviglioso.

Anche il mausoleo di Georgi Dimitrov, la mummia finalmente rimossa e cremata, prese di nuovo vita: graffiti dai contenuti volgari coprivano le pareti di tufo mentre le porte si spalancavano agli ubriachi barcollanti che cercavano un posto dove liberare la vescica. Intorno, sui cordoli decorativi, imperversavano gli skater. Nel 1996, quando uscì il film La carica dei 101, qualche genio del marketing ebbe la brillante idea di affittare il mausoleo come spazio pubblicitario e di ricoprirne le mura bianche con enormi macchie nere; l’anno dopo, una spettacolare produzione dell’Aida di Verdi usò l’edificio come scenografia. Nel 1999 la politica, in una crociata anticomunista, ne ordinò la demolizione e questo diventò una specie di performance artistica: si tentò varie volte di farlo saltare in aria, con gli spettatori che ridevano e scherzavano a ogni esplosione fallita. Alla fine si decise di smantellarlo un pezzo alla volta.

Nel frattempo stava esplodendo anche la vita notturna. Vecchie strutture appena privatizzate – centri ricreativi, piscine abbandonate, cinema – furono riconvertite in bar e nightclub dove l’alcol scorreva a fiumi tra canzoni pop-folk e i raggi accecanti delle luci delle palle stroboscopiche. Folle da baccanale, vestite nei modi più scandalosi, ballavano per tutta la notte al ritmo della techno. Quando non bastava, c’erano marijuana, ecstasy e benzodiazepine, stimolanti e tranquillanti, o le medicine per il Parkinson della nonna, che davano allucinazioni incredibili.

Questa libertà nuova e sconosciuta, ovviamente, poteva essere pericolosa, perfino mortale, ma il pericolo era parte del brivido. Come scrisse Hunter S. Thompson sugli anni della controcultura a San Francisco, “nessuna spiegazione, nessuna commistione di parole, musica o ricordi può toccare quella sensazione di sapere che eri lì, ed eri vivo, in quell’angolo del tempo e del mondo”. Gli anni novanta sono stati gli anni sessanta della Bulgaria, il momento in cui la frontiera si è aperta e il tempo ha ricominciato ad andare avanti.

Davide Bonazzi

Quando sono tornato in Bulgaria nel 2010, il paese faceva già ufficialmente parte dell’Unione europea. A Sofia c’era un’ampia scelta di ristoranti e bar dai menu esotici, negozi di marca e centri commerciali. L’industria informatica era in pieno boom, gli spazi di coworking erano diffusissimi, gli hipster giravano per le gallerie d’arte e i caffè alla moda e ogni giorno arrivavano decine di voli charter da tutta Europa. Fuori dal centro, i vecchi palazzoni residenziali dell’epoca comunista avevano la stessa aria tetra di sempre e, se ci si allontanava anche poco dalla capitale, s’incontravano subito povertà e disperazione. Ma almeno per un certo ceto urbano di bulgari (di cui faccio parte anch’io) le promesse della democrazia e del libero mercato stavano dando i loro frutti.

Eppure, più tempo passavo in Bulgaria, più ero assalito dalla sensazione sconfortante che la frontiera stesse per chiudersi un’altra volta. L’energia residua degli anni novanta era ancora nell’aria, ai margini ribolliva ancora la voglia di sperimentare, l’afflusso di capitali europei non aveva completamente soffocato il disordine creativo – la più essenziale tra le condizioni di vita – ma vedevo già le nuvole all’orizzonte. Molti bulgari se la passavano certamente meglio di prima, o almeno potevano permettersi di comprare più cose e di viaggiare all’estero, ma erano stanchi: erano diventati apatici, meno fantasiosi, meno sognatori. Forse è il destino di ogni rivoluzione: dopo il fragore iniziale c’è un periodo naturale di calma, in cui la polvere si posa. C’è un tempo per ogni cosa, come dice il profeta: un tempo per gettare pietre e un tempo per raccoglierle, un tempo per strappare e un tempo per cucire, un tempo per la guerra e un tempo per la pace.

Però c’era anche un paradosso sconfortante: più la vita era organizzata, più scivolava verso la routine; più la società diventava benestante e pacifica, più le giornate erano normali e ordinate, con meno prospettive scintillanti all’orizzonte. La civiltà aveva domato la natura selvaggia, ma si era perso qualcosa d’intangibile: uno spirito, forse, o un’aspirazione che non riesco bene a definire. Con tutti i loro numerosi difetti, gli anni novanta avevano acceso la visione utopistica di costruire un nuovo mondo sulle ceneri del vecchio, come un tempo aveva fatto il comunismo.

Quando era spuntato l’obiettivo burocratico di entrare nell’Unione europea – “il mondo civilizzato”, nel gergo dei politici – la grande maggioranza dei bulgari era entusiasta dell’idea. Una volta raggiunto l’obiettivo, tuttavia, le grandi idee e i grandi sogni per il futuro si erano pian piano spenti. Quale sarebbe stato il prossimo traguardo dei bulgari? A cosa avrebbero dovuto aspirare? La società dei consumi, ovviamente, era una soluzione – un nuovo televisore, un nuovo smartphone, un’automobile nuova, una casa nuova – ma solo temporanea. Alla fine, anche l’acquisto di nuovi oggetti perde il suo fascino.

Spesso, quando penso al mio ritorno in Bulgaria una decina d’anni fa, ho un dubbio: sono arrivato un’altra volta tardi alla festa e ho trovato la frontiera già richiusa? O la mia voglia costante di novità e di emozione, la chimica specifica del mio cervello, ha distorto le mie aspettative, spingendomi a proiettare le mie pulsioni psicologiche irrisolte sulla sfera politica e sociale? Oppure c’è effettivamente un malessere generale che pervade questo momento, la diffusa sensazione di essere in un vicolo cieco?

È un rebus impossibile da risolvere. Quando ci penso, mi torna in mente La montagna incantata di Thomas Mann, uno dei più grandi romanzi sul tema del tempo. Il protagonista, Hans Castorp, va a rendere quella che dovrebbe essere solo una breve visita a un suo cugino malato tra i monti della Svizzera, ma per una varietà di motivi (la malattia, l’amore, l’amore come malattia) alla fine ci resta per sette anni. All’inizio per lui è tutto nuovo: le giornate sono così ricche d’incontri ed episodi degni di nota che il tempo si dilata e i giorni sembrano settimane. Ma quando le settimane diventano mesi e i mesi diventano anni, la sua mente si abitua all’ambiente e s’instaura una routine che si trasforma in ripetizione infinita. Scrive Mann:

Per il momento basterà che ognuno ricordi quanto passa veloce una serie, anzi una “lunga” serie di giorni quando si è a letto malati; è sempre il medesimo giorno che si ripete; ma siccome è sempre il medesimo, è poco corretto, se vogliamo, parlare di “ripetizione”; bisognerebbe discorrere di monotonia, di un presente immobile o dell’eternità. Ti portano la minestra di mezzogiorno come te l’hanno portata ieri e come te la porteranno domani. E nello stesso istante qualcosa t’investe, non sai come né da dove; è un senso di vertigine, mentre vedi arrivare la minestra, le forme del tempo ti si confondono, confluiscono l’una nell’altra, quella che ti si svela per vera forma dell’essere è un presente senza dimensioni nel quale ti si porta la minestra in perpetuo.

Ah, qui è l’incaglio: la minestra. Forse me lo sto immaginando, ma mi sembra che tutti noi – in Bulgaria, nel resto dell’Europa, negli Stati Uniti – ce ne stiamo a letto malati mentre ci portano ogni giorno la stessa minestra. La chiusura delle frontiere non è solo una questione spaziale, ma anche temporale, perché, ovviamente, lo spazio e il tempo sono correlati. Come il comunismo, in fondo anche il capitalismo crede di essere il fine ultimo dell’universo e si basa sulla narrazione del progresso, su un vettore del tempo orientato in avanti. Ma quando il tempo diventa ciclico, ripetitivo, privo di una direzione chiara, il sistema comincia a disintegrarsi: non sotto il peso delle sue contraddizioni, come ci direbbe Marx, ma sotto quello della sua uniformità. La recente epidemia di coronavirus, che è stata misurata in stagioni – picchi invernali seguiti da minimi estivi – ha semplicemente reso più leggibile questa condizione. Anche i social media, con la natura essenzialmente ciclica dei loro aggiornamenti, con i loro flussi intermittenti d’informazioni che diventano non-informazioni, hanno accentuato questa sensazione di deperire nella prigione dell’intemporaneità. Ci sentiamo spesso ripetere che viviamo nel periodo più dinamico della storia dell’umanità, in cui il cambiamento – politico, economico, tecnologico – è quasi quotidiano. Questo è vero sul piano fisico, naturalmente, ma l’ottica psicologica è molto diversa. Come una ruota che gira così veloce che i suoi raggi sembrano fermi o addirittura muoversi all’indietro (il cosiddetto effetto ruota di carro), il ritmo accelerato della trasformazione ci appare come una stasi.

Siamo diventati i cittadini di uno stato globale capitalista brežneviano che, nella sua incapacità di offrirci una frontiera a cui aspirare, si è lentamente ossificato e ripiegato su sé stesso. La mia sensazione è che tutte le sciagure a cui abbiamo assistito nell’ultimo decennio – il trumpismo, la Brexit, l’ascesa del nazionalismo in tutta Europa, l’imperialismo virulento della Russia – siano tentativi di distruggere non solo i sistemi politici dominanti, ma soprattutto la zona della ripetizione perpetua. In molti casi questi tentativi sono ridicole imitazioni, surrogati sbagliati d’ideologie prese in prestito dal passato. La loro mancanza d’immaginazione è palese (l’aspirazione è spostare le lancette dell’orologio, anche se all’indietro), però è difficile negare che rappresentino l’insoddisfazione e il risentimento per come stanno le cose. Mi sembra che ci sia un desiderio inconscio di tirarsi fuori dalla noia dell’intemporanietà e di essere di nuovo scaraventati nel flusso del tempo, anche a rischio della violenza della guerra: tutto tranne la minestra! O forse è un impulso irrazionale, la vecchia perversione umana che Dostoevskij descrive così bene in Memorie dal sottosuolo:

Cospargetelo di tutti i beni del mondo […] dategli una tale tranquillità economica, che non gli rimanga proprio nient’altro da fare se non dormire, mangiare pasticcini e adoperarsi perché la storia universale non finisca: bene, anche così l’uomo, da quel bel tipo che è, e unicamente per ingratitudine, vi combinerà una qualche porcheria. Metterà a repentaglio perfino i suoi pasticcini, e a bella posta desidererà le più rovinose sciocchezze […] all’unico scopo di poter mescolare a tutta questa positiva ragionevolezza il proprio rovinoso elemento fantastico.

Pochi mesi prima che la Russia attaccasse l’Ucraina ero in un residence a Vienna e un amico ucraino mi ha detto che il suo paese era l’unico in Europa a credere ancora senza riserve nell’Unione europea e nel progetto liberaldemocratico occidentale, e che se l’Unione avesse accettato l’ingresso dell’Ucraina non solo avrebbe allargato le sue frontiere geografiche ma anche ritrovato la sua ragion d’essere. Penso che la guerra, con tutti i suoi terribili costi umani, o proprio a causa di questi, gli abbia dato ragione. L’Ucraina è diventata una chiamata alle armi per gran parte dell’Europa, un modo indiretto (pericoloso, ma non troppo pericoloso) di far ripartire il vettore del tempo. Quanto durerà questo momento, però, è impossibile da prevedere, come è impossibile sapere cos’ha in serbo il futuro per la Bulgaria, o anche per me. Magari sarà l’intelligenza artificiale ad aprirci uno spiraglio sulla nuova frontiera, anche se temo che invece aggraverà i nostri problemi: la visione richiede più di un grande modello linguistico, di un’esperta ricombinazione della conoscenza che già abbiamo. Credo che la visione sia qualcosa che possiedono solo gli esseri umani: il sogno del mare laggiù, oltre l’orizzonte. La fede in qualcosa. ◆ fas

Dimiter Kenarov è uno scrittore, giornalista e poeta. È nato in Bulgaria, ha studiato negli Stati Uniti e vive in viaggio. Ha curato due raccolte di poesia bulgara e ha scritto in inglese per giornali come Esquire, The Nation, The Atlantic, Foreign Policy e The New York Times. Questo articolo è stato pubblicato su Switchyard, un periodico e podcast statunitense di letteratura e idee, con il titolo The closing of the bulgarian frontier.

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Questo articolo è uscito sul numero 1559 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati