La maggior parte degli studiosi del Nuovo testamento concorda sul fatto che circa duemila anni fa un predicatore ebreo girovago della Galilea fu giustiziato dai romani, dopo che per un anno o più aveva predicato ai suoi seguaci su questo mondo e sul mondo del futuro. La maggior parte degli studiosi, ma non tutti. Per ora seguiamo la loro corrente principale, gli studiosi della Bibbia che non hanno dubbi sul fatto che i sandali di Yehoshua ben Yosef abbiano davvero lasciato impronte tra Nazareth e Gerusalemme all’inizio dell’era volgare.

Si dividono sommariamente in tre gruppi, il più grande dei quali comprende i teologi cristiani che fondono il Gesù della fede con la figura storica. Questo di solito significa che accettano la nascita da una vergine, i miracoli e la resurrezione, anche se alcuni, come Simon Gathercole, professore dell’università di Cambridge ed evangelico conservatore, si confrontano seriamente con le prove storiche.

Tra i documenti dell’epoca neanche un riferimento alla sua morte, nessun accenno in un rapporto ufficiale, una lettera privata, un’opera teatrale o una poesia

Poi ci sono i cristiani liberali che distinguono la fede dalla storia e sono pronti a seguire le prove ovunque li portino, anche se contraddicono le credenze tradizionali. Il loro rappresentante più in vista è John Barton, ecclesiastico anglicano e per più di vent’anni biblista a Oxford, convinto che la maggior parte dei libri della Bibbia siano stati scritti da più autori, spesso nel corso di secoli, e che si allontanino dalla cronaca storica.

Un terzo gruppo, con opinioni non lontane da quelle di Barton, è costituito da studiosi che scartano le parti del Nuovo testamento piene di miracoli, ma ammettono che Gesù era comunque una figura radicata nella storia: i vangeli, sostengono, offrono testimonianza delle tappe principali nella sua vita da predicatore. Alcuni in questo gruppo sono atei fuoriusciti dal cristianesimo evangelico. Tra di loro c’è Bart Ehrman, biblista dell’università del North Carolina. Il mio punto di vista è simile al suo: sono cresciuto in una famiglia cristiana evangelica, figlio di un vescovo anglicano di origine ebraica, ma a diciassette anni ho cominciato a dubitare di tutto quello in cui credevo. Pur rimanendo affascinato dalle religioni abramitiche, il mio interesse non è bastato a impedire la mia deriva, attraverso l’agnosticismo, fino all’ateismo.

C’è anche un quarto gruppo, più piccolo, che minaccia le divergenze, sostanzialmente pacifiche, tra atei, deisti e cristiani più ortodossi, insistendo sul fatto che le prove di un Gesù storico sono così inconsistenti da mettere in dubbio la sua stessa esistenza. Questo gruppo, di cui fanno parte anche ex cristiani, suggerisce che Gesù possa essere stato una figura leggendaria come il Romolo del mito romano, poi storicizzata in un secondo momento.

Ma quali sono le prove dell’esistenza di Gesù? E quanto sono solide secondo gli standard applicati dagli storici? In sostanza, quanto del racconto evangelico può essere considerato vero? Le risposte hanno implicazioni enormi, non solo per la chiesa cattolica e per paesi ossessionati dalla fede come gli Stati Uniti, ma per miliardi di persone che sono cresciute con l’immagine confortante di un Gesù amorevole. Anche per chi, come me, si è disfatto degli accessori Dio-anima-cielo-inferno, l’idea che questa figura di devozione dell’infanzia possa non essere esistita o che, se è esistita, di lei si sappia davvero poco, può essere dura da mandare giù. È una perdita traumatica, il che forse spiega perché il dibattito è così acceso, anche tra gli studiosi laici.

Quando ho discusso questo saggio con persone atee da sempre o cresciute in altre fedi, la domanda che mi facevano ogni volta era: perché è così importante per i cristiani che Gesù sia vissuto sulla Terra? È in gioco un aspetto unico della loro fede: per più di 1.900 anni, il cristianesimo ha mantenuto la convinzione che Dio abbia mandato suo figlio sulla Terra a subire un’orribile crocifissione per salvarci dai nostri peccati e darci la vita eterna. La nascita, la vita e soprattutto la morte di Gesù, che ha dato il via alla redenzione, sono il fondamento stesso della fede cristiana. Queste idee sono così profondamente radicate, anche per chi ha allentato il suo credo, da rendere davvero indigeribile l’ipotesi che forse Gesù non sia esistito affatto.

Verrebbe da pensare che un leader religioso trascinatore di folle e ispiratore di seguaci devoti giustiziato per ordine di un governatore romano abbia lasciato qualche traccia nelle cronache dell’epoca, ma così non è. Questo potrebbe indicare semplicemente che ebbe un ruolo meno significativo di quanto la Bibbia vuole farci credere. Ma, nonostante la mole di documenti dell’epoca, non ci è arrivato neanche un riferimento alla sua morte, nessun accenno in un rapporto ufficiale, una lettera privata, un’opera teatrale o una poesia.

Confrontiamolo con Socrate, per esempio. Anche se nessuno dei pensieri a lui attribuiti è sopravvissuto in forma scritta, sappiamo che è esistito (470-399 aC) perché dei suoi allievi e dei detrattori di quegli anni composero libri e opere teatrali su di lui. Per quanto riguarda Gesù, invece, c’è il silenzio di chi potrebbe averlo visto in carne e ossa, un fatto imbarazzante per gli storicisti come Ehrman: “Per quanto possa sembrare strano”, notava nel 1999, “in nessuno del gran numero di scritti sopravvissuti il nome di Gesù è mai anche solo citato”. In effetti, ci sono solo tre fonti di presunte prove della sua esistenza, tutte postume: i vangeli, le lettere di Paolo e i dati storici.

Gli storiografi cristiani rivendicano l’esistenza di Gesù sulla base di esili riferimenti ai primi cristiani degli autori latini Plinio il giovane e Tacito (che riportano testimonianze dell’inizio del secondo secolo) e di Flavio Giuseppe, uno storico ebreo romanizzato. La sua opera in venti volumi Antichità giudaiche, scritta intorno al 94 dC, contiene due riferimenti a Gesù, tra cui uno in cui è definito “il messia crocifisso da Ponzio Pilato”. La frase avrebbe un certo peso se Flavio Giuseppe l’avesse scritta davvero, ma gli esperti concordano sul fatto che il riferimento è stato probabilmente falsificato da Eusebio, polemista cristiano del quarto secolo. L’altro riferimento è al “fratello di Gesù, chiamato Cristo”. Alcuni studiosi sostengono che il “chiamato Cristo” sia un’aggiunta successiva, ma non ha molta importanza dal momento che Flavio Giuseppe attingeva a storie riportate dai cristiani più di sei decenni dopo la presunta crocifissione di Gesù.

Le prime prove che attestano l’esistenza di una figura storica non provengono da documenti contemporanei, ma dalle lettere di Paolo, che risalgono grosso modo al periodo compreso tra il 50 e il 58 dC (delle quattordici lettere originariamente attribuite a Paolo, oggi si pensa che solo la metà sia stata scritta da lui). Il problema di Paolo, per chi è in cerca di prove, è che parla davvero poco di Gesù. Se Cristo visse e morì durante la vita di Paolo, sarebbe lecito aspettarsi dei riferimenti al suo ministero sulla Terra: le parabole, i sermoni, le preghiere. Ma Paolo non dice niente sul Gesù in vita e non riporta informazioni fornite da fonti umane, riferendosi solo a visioni e citazioni messianiche dell’Antico testamento.

Arriviamo così ai vangeli, scritti più tardi e non dalle persone di cui portano il nome, aggiunto successivamente. Il vangelo di Marco, che prenderebbe prestiti da Paolo, è stato forse il primo e probabilmente ha stabilito il modello per i vangeli successivi (Matteo attingerebbe a 600 dei 661 versetti di Marco, mentre il 65 per cento di Luca sarebbe tratto da Marco e Matteo). La prima versione di Marco è datata tra il 53 e il 70 dC. L’ultimo vangelo, Giovanni, che ha un contenuto più spirituale e a volte diverso dai tre vangeli “sinottici”, è datato intorno al 100 dC. Tutti e quattro includerebbero sezioni scritte nel secondo secolo (tra cui due versioni diverse della nascita dalla vergine in Matteo e Luca), e alcuni studiosi collocano gli ultimi dodici versetti di Marco nel terzo secolo. Vari storici ipotizzano che Matteo e Luca avessero una fonte più antica, oggi detta Q, che però non è mai stata identificata. Barton suggerisce che credere all’esistenza di Q possa servire a un “piano religioso conservatore”, perché dire che questi vangeli hanno attinto da una fonte precedente “è una negazione implicita del fatto che siano completamente inventati”.

Nell’insieme, cosa possono dirci i vangeli sul Gesù storico? Gli studiosi laici concordano sul fatto che gran parte del loro contenuto è fittizio e notano, come dice Ehrman, che “queste voci confliggono spesso tra loro, si contraddicono nei dettagli e nelle questioni più importanti”. Eppure Ehrman è convinto che Gesù sia esistito e sostiene che gli autori dei vangeli hanno sentito notizie su di lui e “hanno deciso di scrivere le loro versioni”. Alcuni fatti fondamentali, come le date di nascita e di morte di Gesù, sono comunemente accettati e si dice che molte delle frasi attribuite a Gesù siano vicine alle sue parole reali. Per separare la verità dall’invenzione, si usano i cosiddetti criteri di autenticità. I principali sono: il potenziale imbarazzo (questi dettagli sono in linea con il giudaismo del primo secolo e se non è così, perché gli scrittori dei vangeli avrebbero inventato cose in grado di creargli dei problemi?), l’attestazione multipla (più fonti ci sono, meglio è) e la coerenza (i dettagli sono in conflitto con ciò che sappiamo?).

Tuttavia, ci sono buone ragioni per mettere in discussione questo metodo. Per quanto riguarda i criteri di attestazione multipla e di coerenza, alcuni sostengono che gli scrittori dei vangeli si sono copiati a vicenda. Il vangelo di Luca, per esempio, avrebbe preso in prestito il discorso di Matteo “osservate come crescono i gigli del campo”, ma se il racconto di Matteo fosse inventato, la ripetizione di Luca difficilmente aggiungerebbe credibilità. Inoltre, il criterio dell’imbarazzo si basa su ciò che pensiamo andasse controcorrente. Ma quando furono scritti i vangeli le comunità cristiane erano diverse e non possiamo sapere con certezza cosa potesse mettere a disagio gli autori. Spesso si sostiene, per esempio, che gli scrittori dei vangeli si siano dati molto da fare per dimostrare che la crocifissione era stata predetta dalle scritture ebraiche, in modo da renderla appetibile a un pubblico convinto che nessun vero messia potesse essere umiliato a tal punto. Quest’argomentazione, però, può essere ribaltata se pensiamo che il racconto della crocifissione sia stato incluso perché gli scrittori dei vangeli – con buona pace di Paolo – ritenevano che fosse necessario per realizzare la profezia. Se la crocifissione era stata profetizzata, qual era il problema?

A proposito della crocifissione, vale la pena di notare che, mentre nei quattro vangeli riconosciuti Gesù è condannato a morte da Ponzio Pilato, nel vangelo apocrifo di Pietro la decisione è di Erode Antipa. Il vangelo di Tommaso, invece, non cita neanche la morte, la resurrezione o la divinità di Gesù. Secondo il teologo Epifanio, del quarto secolo, i cristiani nazareni osservanti della Torah (che si pensa discendano dal primo gruppo di credenti) sostenevano che Gesù fosse vissuto e morto durante il regno di Alessandro Ianneo (127-76 aC), un secolo prima di Ponzio Pilato. E il Talmud babilonese lo conferma, affermando che Gesù fu giustiziato mediante lapidazione e “impiccagione” nella città di Lydda (non a Gerusalemme) per “immoralità, stregoneria e idolatria”. Quindi, anche quando i criteri di autenticità sono soddisfatti, è difficile mettersi d’accordo.

Uno sforzo più coordinato per separare i fatti dalla finzione ebbe inizio nel 1985, quando il teologo ex cattolico Bob Funk riunì un gruppo di studiosi prevalentemente laici, il Jesus seminar. Questo gruppo s’incontrò due volte all’anno per vent’anni per “cercare il Gesù storico”. All’inizio, Funk disse che avrebbero indagato “con semplicità e rigore sulla voce di Gesù, su ciò che disse davvero”. Gli studiosi (che alla fine erano più di duecento) usarono i criteri di autenticità per valutare le azioni e le parole di Gesù riportate nei vangeli. Molto più tardi, dopo un lungo dibattito, giunsero alla conclusione che Gesù era un predicatore ebreo ellenico iconoclasta che raccontava storie in parabole e denunciava le ingiustizie; che aveva due genitori terreni; e che non aveva compiuto miracoli, non era morto per i peccati delle persone né era risorto. La veridicità delle sue parole e delle sue azioni fu decisa da un voto di gruppo. Gli studiosi dovevano mettere una pallina di plastica in una scatola: rossa (tre punti) se erano vere; rosa (due punti) se forse erano vere; grigia (un punto) se non erano vere, ma riflettevano le sue idee; nera (zero) se erano invenzioni. Al termine del conteggio, c’erano palline nere o grigie per l’82 per cento dei detti biblici attribuiti a Gesù e per l’84 per cento delle sue azioni.

Pierluigi Longo

Questi metodi sono considerati, nel migliore dei casi, bizzarri dagli studiosi che indagano sui personaggi storici non biblici. Catharine Edwards, docente di storia antica all’università di Londra, ha affermato che alcuni storici del mondo antico tendono allo scetticismo (“per esempio, non possiamo sapere nulla della prima fase della storia romana al di là di ciò che si ricava dalle testimonianze archeologiche”), mentre altri concedono “un’estrema credibilità”. Ma anche tra questi studiosi, i criteri di autenticità non sono uno strumento abituale. Edwards ha aggiunto che il metodo delle palline colorate “sembra ingenuo, con degli studiosi che fanno ipotesi sul carattere di uno specifico individuo dell’antichità e in base alle palline decidono cosa credono che possa aver detto o no”.

Hugh Bowden, docente di storia antica al King’s college di Londra, ha osservato che le prove dell’esistenza di Socrate e Pericle sono più numerose di quelle di Gesù, ma “c’è molto meno attaccamento alle conclusioni”. L’attenzione alla storicità di Gesù “non ha un vero e proprio equivalente in altri campi, perché è radicata in pregiudizi confessionali: il cristianesimo primitivo è importante perché lo è anche il cristianesimo moderno. Gli storici di altre discipline non troverebbero la questione così importante”.

Se eliminiamo questi pregiudizi, sembra ragionevole essere cauti sulla storicità dei vangeli e lasciare che il dubbio guidi le nostre domande. Il probabile primo vangelo, quello di Marco, sarebbe stato cominciato quasi mezzo secolo dopo il ministero di Gesù (e i suoi versetti finali ancora più tardi). I seguaci di Gesù che parlavano aramaico erano probabilmente analfabeti e non c’erano cronisti che prendevano appunti. Quindi risulta molto difficile che le parole di Gesù siano state riprodotte accuratamente da scrittori che non lo avevano mai incontrato e che stavano elaborando racconti tramandati per decenni.

Uno studioso che faceva parte del Jesus seminar e che tuttavia aveva queste perplessità è Robert Price, un rispettato professore di Nuovo testamento e un ex pastore battista poi diventato ateo. Price è arrivato a mettere in discussione la metodologia usata per stabilire la storicità, spingendosi a dubitare dell’esistenza di Gesù. “Se c’è mai stato un Gesù storico, ora non c’è più”, ha detto, scrivendo in seguito: “Forse c’è stata una figura reale, ma non c’è più modo di esserne sicuri”.

Price è diventato la figura di riferimento per gli scettici del “mito di Cristo”, cioè gli storici secondo cui i primi cristiani, compreso Paolo, credevano in un messia celeste che è stato introdotto nella storia dagli scrittori dei vangeli. Quindi, mentre la maggior parte dei duecento esperti del Jesus seminar credeva che Gesù fosse una figura storica mitizzata dagli scrittori dei vangeli, gli scettici credono il contrario: era una figura mitica che è stata storicizzata.

Questa teoria circola da secoli. Thomas Paine fu uno dei primi ad adottarla, ma fu il filosofo tedesco Bruno Bauer, nell’ottocento, a promuoverla con maggiore convinzione. Bauer, ateo, definiva i temi del vangelo letterari piuttosto che storici, sostenendo che il cristianesimo aveva radici pagane e che Gesù era una creazione mitica.

Negli ultimi decenni è stato ampiamente accettato dagli studiosi laici che la Bibbia ebraica (l’Antico testamento) è un mix di mito e storia. In particolare, nelle Tracce di Mosè (2002) l’archeologo israeliano Israel Finkelstein e il suo collega statunitense Neil Asher Silberman hanno scritto che nessuno dei patriarchi, fino a Mosè e Giosuè, è esistito come figura storica; che non c’è nessuna prova documentata del fatto che gli ebrei siano stati ridotti in schiavitù in Egitto (discenderebbero invece dai cananei); che Davide e Salomone erano dei signori della guerra e non dei re; e che il primo tempio fu costruito tre secoli dopo Salomone (1011-931 aC). Ma l’opinione secondo cui la Bibbia cristiana è altrettanto priva di veridicità è stata, fino a poco tempo fa, messa in ombra da chi difende l’esistenza di un Gesù in carne e ossa. Una ragione di questi consensi potrebbe essere legata al fatto che i dipartimenti universitari che si occupano di storia della Bibbia tendono a non offrire posti a chi dubita dell’esistenza di Gesù. La rinascita della “squadra dei dubbiosi” deve quindi molto a internet, oltre che allo zelo missionario dei suoi principali sostenitori.

L’impulso è cominciato negli anni novanta con una serie di libri di Earl Doherty, un autore canadese che si è interessato alle scritture studiando storia antica e lingue classiche. Doherty sosteneva che Paolo e altri scrittori paleocristiani non credevano in Gesù come figura terrena, ma piuttosto come una creatura celeste crocifissa dai demoni nei regni inferiori e poi resuscitata da Dio. Le sue considerazioni (che ironicamente sono quelle in apparenza più religiose, essendo molto spirituali) furono respinte dagli studiosi del Gesù storico, che sostenevano che Doherty non aveva un livello accademico adeguato per comprendere i testi antichi. Ma l’ondata successiva di scettici, che includeva Price, era più saldamente radicata nel mondo universitario.

Pierluigi Longo

Price ritiene che il cristianesimo delle origini fosse influenzato dai miti mediorientali sulle divinità che muoiono e risorgono, miti sopravvissuti nel periodo greco e romano. Uno è la leggenda sumera sulla discesa di Inanna, in cui la regina del cielo partecipa a un funerale nell’oltretomba per poi essere uccisa dai demoni e appesa a un gancio come un pezzo di carne. Tre giorni dopo, però, viene salvata, risorge e torna nella terra dei vivi.

Un altro è il mito egizio del re-dio Osiride assassinato. Sua moglie, Iside, trova il corpo, lo riporta in vita e concepisce un figlio, Horus, che gli succede. Osiride continua a regnare sui morti. Nella versione greca di Plutarco, viene indotto per inganno a sdraiarsi in una bara e poi gettato in mare prima di approdare alla città di Byblos. Lì, Iside rimuove il corpo di Osiride dal fusto di un albero e lo riporta in vita.

Vari testi ebraici rafforzerebbero gli aspetti messianici di queste narrazioni. Per esempio, il Libro di Enoch (scritto probabilmente nel secondo secolo aC dalla comunità essena, all’interno della quale sarebbero stati prodotti i manoscritti del mar Morto) fa riferimento al “figlio dell’uomo” (espressione usata per Gesù nei vangeli) il cui nome e la cui identità saranno tenuti segreti per evitare che i malfattori lo conoscano finché non arriva il momento stabilito.

La fonte più accreditata del mito di Cristo è l’Ascen­sione di Isaia, scritta a pezzi nel primo e secondo secolo. Include una sezione che racconta di un viaggio attraverso i sette cieli fatto da un Gesù non umano, crocifisso in un cielo inferiore da Satana e dai suoi arconti demoniaci, che sono i governanti di quel regno ma non sanno chi sia la loro vittima. Anche in questo caso, la storia si conclude con Gesù che risorge.

Gli studiosi del mito di Cristo ritengono che gli antichi racconti di morte e resurrezione abbiano influenzato gli scrittori del vangelo, i quali avrebbero preso prestiti anche da Omero, Euripide e dalla Bibbia ebraica. Per loro, la storia di Gesù tratteggia l’archetipo dell’eroe mitico dell’epoca: un salvatore spirituale ucciso prima di risorgere trionfante. Sostengono che i cristiani di epoche successive abbiano riscritto Gesù come una figura storica che ha sofferto per mano dei governanti terreni.

La rock star dello scetticismo è Richard Carrier, uno studioso della Bibbia che ha un rapporto modernissimo con i social network (alcuni dei suoi lunghi video su YouTube hanno attirato più di un milione di spettatori). Carrier si lancia in accesi dibattiti con i rivali, tiene conferenze e scrive libri caustici, distaccati e pieni di dati. Con un dottorato in storia antica alla Columbia university e diverse pubblicazioni su riviste accademiche, le sue credenziali sono meno facili da respingere di quelle di Doherty.

Un tempo, Carrier accoglieva la storicità di Gesù, ma è diventato sprezzante nei confronti della posizione tradizionale a causa di quello che considera lo stato precario degli studi che la sostengono. Lui e il biblista australiano Raphael Lataster usano il teorema di Bayes, che considera le probabilità storiche basate su aspettative ragionevoli, per concludere che è “probabile” che Gesù non sia mai esistito come persona storica, anche se è “plausibile” che sia esistito.

I sostenitori del mito di Gesù hanno guadagnato molto spazio, però sono comunque considerati marginali. La loro stessa metodologia è stata criticata. Per assurdo, Carrier ha detto ai suoi lettori che la probabilità di un Gesù in carne e ossa non era superiore al 33 per cento (e forse era addirittura dello 0,0008 per cento) a seconda delle stime utilizzate per il calcolo, il che illustra l’inefficacia del teorema di Bayes.

Carrier e i suoi compagni fanno un ottimo lavoro nel trovare le falle dei metodi degli storicisti, ma ciò che offrono in cambio sembra inconsistente. In particolare, non hanno trovato alcuna prova evidente nei decenni precedenti ai vangeli che dimostri che qualcuno credeva che Gesù non fosse umano. Ogni riferimento nelle epistole può essere spiegato come allusione a un salvatore celeste, ma sembra tutto un po’ forzato. Paolo parla spesso di crocifissione e dice che Gesù era “nato da una donna” e “fatto dallo sperma di Davide, secondo la carne”. Fa anche riferimento a Giacomo, “il fratello di Cristo”. Utilizzando questi esempi, Ehrman afferma che ci sono “valide prove del fatto che Paolo considerasse Gesù una figura storica”. Il che era certamente l’opinione dell’autore o degli autori di Marco, un vangelo cominciato forse meno di vent’anni dopo la stesura delle lettere di Paolo.

Se accettiamo questa conclusione, ma accettiamo anche che i vangeli sono biografie inaffidabili, allora quel che ci rimane è un involucro storico poco chiaro. Se Gesù è vissuto nell’epoca generalmente accettata (dal 7-3 aC al 26-30 dC) e non un secolo prima, come sembravano credere alcuni dei primi cristiani, allora possiamo supporre che abbia cominciato la sua vita in Galilea, abbia attirato un seguito come predicatore e sia stato giustiziato. Tutto il resto sarebbe invenzione o dubbio. In altre parole, se Gesù è esistito, di lui non sappiamo quasi niente.

Un modo per vedere la cosa è pensare alla perla, che nasce come un granello di sabbia intorno al quale si formano strati di carbonato di calcio finché la perla non somiglia più al granello iniziale. Molte leggende si sono sviluppate in questo modo, dal racconto del poeta cieco Omero in poi.

Il fuorilegge e ladro Robert Hod fu multato per non essersi presentato in tribunale a York nel 1225 e un anno dopo ricomparve negli atti del tribunale, ancora in libertà. Questo potrebbe essere il granello di sabbia che ha dato origine a Robin Hood, che molti considerano un personaggio storico e la cui leggenda è cresciuta nel corso dei secoli. Robin iniziò come un guardiano della foresta, ma si trasformò in un nobile. In seguito fu inserito nella storia del dodicesimo secolo con il re Riccardo Cuor di leone e il principe Giovanni (nelle versioni precedenti c’era Edoardo I), insieme alla sua banda di fuorilegge in continua espansione. Nel cinquecento, lui e gli amabili furfanti della sua allegra brigata erano diventati ribelli che “prendevano ai ricchi per dare ai poveri”.

Anche la storia di Gesù si è stratificata nel corso del tempo. All’inizio dell’era volgare, non è escluso che ci fossero diversi predicatori ebrei e uno di loro si fosse messo contro i romani, che lo uccisero. Ben presto la sua leggenda sarebbe cresciuta. Gli furono attribuite nuove caratteristiche e opinioni finché, alla fine, diventò la figura eroica del messia e del figlio di Dio con la sua non così allegra brigata di dodici uomini. Il granello di sabbia originale è meno significativo di quanto si pensi. Quello che ci interessa è come sia cresciuto. ◆ svb

Gavin Evans è un giornalista britannico che ha collaborato anche con The Guardian, Die Zeit, The Conversation e The New Internationalist. Tra i suoi libri The story of colour (Michael O’Mara Books 2017) e Skin deep: journeys in the divisive science of race (Oneworld Pubns 2019). Questo articolo è uscito sulla rivista scientifica online Aeon con il titolo There was no Jesus.

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Questo articolo è uscito sul numero 1555 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati