Razzi lanciati da Hamas sulla città israeliana di Netivot, 8 ottobre 2023. (Mahmud Hams, Afp)

Dovrebbe essere scontato, ma vale sempre la pena ripeterlo: attaccare i civili è un crimine dei peggiori. Lo stabilì già nel 1945 la Carta del tribunale militare internazionale di Norimberga, che all’articolo 6c definì così i crimini contro l’umanità: “Assassinio, sterminio, riduzione in schiavitù e altri atti inumani commessi contro popolazioni civili prima o durante la guerra”. Sono dei crimini gli attacchi terroristici di Hamas: lanciare migliaia di razzi sulle città israeliane, uccidere i civili, prendere degli ostaggi. E sono dei crimini le rappresaglie del governo israeliano di Benjamin Netanyahu: bombardare le città palestinesi e le aree densamente abitate, assediare e privare di cibo, acqua ed elettricità un’intera popolazione.

Un gruppo di ex soldati israeliani che si battono contro l’occupazione, riuniti nell’ong Breaking the silence, l’8 ottobre ha scritto: “L’attacco di Hamas e gli eventi che si sono susseguiti da ieri sono indescrivibili. Potremmo parlare delle loro azioni crudeli e criminali o concentrarci sul modo in cui il nostro governo suprematista ebraico ci ha portato a questo punto. Ma come ex soldati israeliani il nostro compito è di parlare di quello che siamo stati mandati a fare. La politica di sicurezza di Israele, da decenni ormai, è ‘gestire il conflitto’. I governi israeliani che si susseguono insistono in un’ondata di violenza dopo l’altra, come se tutto ciò potesse fare la differenza. Parlano di ‘sicurezza’, ‘deterrenza’, ‘cambiare l’equazione’. Tutte queste sono parole in codice per ‘bombardare a tappeto la Striscia di Gaza’, sempre con la giustificazione di colpire bersagli terroristici, ma sempre anche con un pesante bilancio di vittime civili. Tra un’ondata e l’altra di violenza, rendiamo la vita impossibile ai cittadini di Gaza e poi ci sorprendiamo quando la situazione esplode. Parliamo di ‘normalizzazione’ delle relazioni con gli Emirati Arabi Uniti e ora con l’Arabia Saudita, sperando che il mondo chiuda un occhio sulla prigione a cielo aperto che abbiamo costruito nel nostro cortile. Oltre all’insostenibile violazione dei diritti umani, abbiamo creato un enorme problema di sicurezza per i nostri stessi cittadini. La domanda che tutti gli israeliani si fanno è: dov’erano i soldati ieri? Perché l’esercito era apparentemente assente mentre centinaia di israeliani venivano massacrati nelle loro case e nelle strade? La triste verità è che erano ‘impegnati’. In Cisgiordania. Mandiamo i soldati a proteggere le incursioni dei coloni nella città palestinese di Nablus, a inseguire i bambini palestinesi a Hebron, a proteggere i coloni durante i pogrom. I coloni chiedono che le bandiere palestinesi siano rimosse dalle strade di Hawara; i soldati sono mandati a farlo. Il nostro paese ha deciso, decenni fa, che è disposto a rinunciare alla sicurezza dei suoi cittadini nelle nostre città per mantenere il controllo su una popolazione civile di milioni di persone tenuta sotto occupazione, in nome degli obiettivi messianici dei coloni. L’idea di poter ‘gestire il conflitto’ senza doverlo risolvere sta ancora una volta crollando sotto i nostri occhi. È un’idea che ha retto finora perché solo pochi osavano sfidarla. I terribili eventi di questi giorni potrebbero cambiare le cose. Devono farlo. Per tutti noi, tra il fiume e il mare”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1533 di Internazionale, a pagina 7. Compra questo numero | Abbonati