Sabrina Ali Benali, 2017. (Alain Jocard, Afp)

Sabrina Ali Benali è una medica francese che lavora in un pronto soccorso. Ha scritto un libro, La révolte d’une interne, in cui denuncia le condizioni di lavoro di medici e infermieri in Francia. Qualche giorno fa era il suo compleanno. Su Twitter ha scritto questo: “Sono nata 38 anni fa in un ospedale di Tolosa. Sul cartellino sopra la culla c’era scritto Sabrina-Aurore. Sarei potuta nascere a Lagos, in Nigeria, chiamarmi Asma e oggi essere su un barcone con la mia bambina, aggrappata alla speranza di sopravvivere in Europa. Il sogno di trovare un lavoro e di poter far mangiare mia figlia ogni giorno. Non mangiamo da due giorni. Prego di riuscire ad arrivare viva sull’altra sponda del Mediterraneo. Sarei potuta nascere a Tel Aviv, chiamarmi Guila e piangere l’ingiustificabile e barbaro assassinio di mio fratello, morto negli attacchi del 7 ottobre. Il mio amato fratello, che si batteva per la decolonizzazione. Quei bastardi gli hanno bruciato la faccia. Non riesco più a vedere la sua guancia, la sua fossetta destra che gli pizzicavo sempre. Tra di noi significava ti voglio bene. Me l’hanno portato via. Sarei potuta nascere a Gaza, chiamarmi Rania e tenere tra le braccia la mia piccola bambina appena morta. La stavo facendo giocare con i cubi quando tutto ha tremato e la casa ci è caduta addosso. L’ho presa per il braccio per stringerla a me. Il blocco di cemento è caduto sul suo piccolo corpo prima che riuscissi a proteggerla. Ricordo solo lo sguardo di terrore nei suoi occhi l’attimo prima che la sua mano scivolasse dalla mia. La mia bambina che non ho potuto proteggere dalle bombe. Sarei potuta nascere a Kiev, chiamarmi Olena e essere in servizio in ospedale, ogni minuto con la paura che una bomba russa ci colpisca. Sarei potuta nascere a… Tutti noi saremmo potuti nascere da qualche altra parte. A seconda che io sia diventata Pierre, Amadou, Polina, Joseph o Asma, pur essendo lo stesso uomo o la stessa donna, ad altri è stato detto che dovevano odiarmi. Si parla di razza e di religione. Ma guardo le mie mani e le loro mani. Sono uguali”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1541 di Internazionale, a pagina 5. Compra questo numero | Abbonati