L’incipit più famoso della letteratura nordamericana è anche uno dei più sciocchi. “Chiamatemi Ismaele”, dice un mozzo del New England. È una battuta. Immaginate se Will Hunting – Genio ribelle si aprisse con un’inquadratura del personaggio di Matt Damon che dice allo spettatore: “Chiamatemi Socrate”. Magari potrebbe esserci un significato simbolico dietro Socrate, uno che era famoso per saperne più degli altri perché aveva capito che non sapeva niente. La dissonanza nell’incipit di Melville è la stessa, e non è l’unica. Moby Dick, il grande romanzo americano, contiene varie forme di narrativa, ma quella da cui comincia è la commedia.

Per gran parte del primo capitolo, infatti, il linguaggio di Melville, più che biblico, è scherzoso. Irrequieto e squattrinato, Ismaele decide di darsi “alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo”. Più avanti, apprendiamo che è profondamente triste perché si ritrova “involontariamente dinanzi ai depositi di casse da morto”. Non agenzie di pompe funebri o cimiteri, si noti bene. “Ho sempre voluto viaggiare”, è come se dicesse, “ed è per questo che mi ritrovo sempre davanti ai concessionari di auto”. Ismaele è talmente disperato che a stento riesce a trattenersi dallo “scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente”. Una scena degna di Charlie Chaplin.

Moby Dick contiene varie forme di narrativa, ma quella da cui comincia è la commedia. Così ho elaborato una teoria: i classici sono classici solo se fanno ridere

Così ho elaborato una modesta teoria su tutto quello che ha a che fare con i libri classici: i classici sono classici solo se fanno ridere. Potrebbe sembrare più ragionevole dire: “Solo nella misura in cui possono far ridere” o “solo se a volte fanno ridere” o perfino “tutti i classici non fanno ridere, tranne Jane Austen”. Ma questa delicatezza non fa per me. Prendiamo Amatissima di Toni Morrison, un’opera che descrive gli orrori della schiavitù in America. Le battute abbondano: “Sethe cercò di rialzarsi e scoprì che non solo sapeva fare la spaccata, ma anche che faceva male”. Un altro grande caposaldo della letteratura mondiale, Guerra e pace, è addirittura farsesco: “Perché corrono? Possibile che sia verso di me? Che corrano addosso a me? E perché? Per uccidermi? Me, me, a cui tutti vogliono bene?”. Anche Faulkner fa la sua parte, dedicando un’intera pagina di Mentre morivo a un’unica battuta: “Mia madre è un pesce”.

Forse non vi state sganasciando dalle risate. Ma anche se l’umorismo non è la caratteristica principale dell’opera di Morrison, Tolstoj e Faulkner, non significa che non sia cruciale.

Tolstoj si distingue in particolare per come fa passare i suoi personaggi attraverso mutilazioni, corna, sbronze, bisticci, seduzioni e altri drammi quotidiani che usa per coprire una moltitudine di piccoli, e talvolta significativi, rovesci di fortuna. Quasi sempre, però, i suoi protagonisti sono permeati di senso dell’umorismo. Pierre Bezuchov, uno degli eroi di Guerra e pace, viene presentato ai lettori e ai suoi pari nel romanzo con una satira degna di Jane Austen: dopo aver promesso a un amico rispettabile che la smetterà di fare baldoria, Pierre si sbronza in compagnia di un gruppo di soldati poco raccomandabili, trova un orso, lo lega alla schiena di un commissario di polizia e getta la coppia appena unita nel fiume Mojka. L’orso, vorrei sottolineare, è attaccato alla schiena del commissario come una specie di cartello bestiale con la scritta “Prendetemi a calci”.

C’è dell’altro. Il fulcro di Guerra e pace è la contessina Nataša Rostova. Facciamo la sua conoscenza e quella dell’intera famiglia Rostov poco dopo l’incidente di Pierre con l’orso: è durante la loro conversazione che l’episodio è descritto per la prima volta. Attraverso la discussione a casa dei Rostov il lettore comincia a capire il contegno logoro ma sostanzialmente a modo della madre di Nataša e l’indole affabile e un po’ sciocca di suo padre. “Che bella figura quel commissario! Me l’immagino!”, dice il conte Rostov, agitando le braccia in una pantomima dello sventurato tutore della legge. Anche il lettore se l’immagina, ridendo per la comicità della scena e per la semplicità di cuore e la bonarietà del nobiluomo. Quando la famiglia dice che Nataša ha preso dal padre, si capiscono subito anche i suoi pregi e le sue debolezze.

Guerra e pace è forse il romanzo più famoso di tutti i tempi, ma la storia dell’orso non se la ricordano tutti. Ebbene, che tutti la sappiano! Data l’austera reputazione del romanzo, è difficile evitare l’assunto che Guerra e pace sia un Buon libro, con la B maiuscola, di quelli che vi fanno bene. Se no perché se ne parlerebbe tanto? Quando non è presentato come una specie di grande pianta della narrativa, diventa una specie di energumeno letterario: Guerra e pace vuole conquistarci, costringerci all’obbedienza attraverso il puro e magnifico conteggio delle parole. Aggiungiamo gli effetti degli ambiziosi e nobili adattamenti che l’hanno scolpito nell’immaginario pubblico, e Guerra e pace diventa il palinsesto culturale di se stesso. Per astrazione, per reputazione, per mediazione, il pubblico crede di conoscere Guerra e pace senza doverlo mai aprire, e una delle prime cose che sa è che è un romanzo privo di umorismo.

Possiamo chiamare questo fenomeno “effetto Jane Austen”. I romanzi di Jane Austen saranno sempre letti per la loro arguzia trascendente. Eppure, dalla maggior parte degli adattamenti sembra che le vicende amorose siano al primo posto, che quella di Austen sia un’opera accorata, spolverata qua e là di frecciatine lapidarie. Dei tanti film tratti dai suoi libri, solo Emma, del 2020, e Amore e inganni di Whit Still­man, del 2016, trattano in modo adeguato il suo sapiente mix di satira e sincerità.

Come nel caso di Guerra e pace, quando un’opera è così mostruosamente importante, il non lettore – chiamato talvolta “lettore medio” o “preferisco guardare la tv” – non si aspetta che sia leggera. E perché dovrebbe? Il melodramma e l’autorità sono facili da tradurre nelle forme preferite dalla nostra cultura, cioè un film hollywoodiano di tre ore e mezza, una miniserie di sei ore della Bbc o un musical teatrale tratto da un piccolo brano del testo. Ma la risata è legata a doppio filo alla narrazione di Tolstoj.

“Un romanzo”, ha scritto Milan Kundera, “si basa principalmente su certe parole fondamentali”. Una volta lo scrittore ceco disse a un intervistatore che il suo libro più famoso, L’insostenibile leggerezza dell’essere, era costruito su “pesantezza, leggerezza, anima, corpo, la Grande marcia, merda, kitsch, compassione, vertigine, forza, debolezza”. Kundera prende in prestito dalla terminologia musicale l’espressione “fila di toni” per descrivere questo guazzabuglio di temi. Se dovessi imbattermi in una “fila di toni” come quella di Kundera senza saperne il contesto, sarei autorizzato a pensare di trovarmi davanti a un blocco di parole chiave per l’ottimizzazione dei siti sui motori di ricerca.

Se però accettiamo l’idea di Kundera della fila di toni letteraria, possiamo usarla come un pilastro semiotico in grado di sostenere interi generi. La fila di toni del genere fantasy, per esempio, comprenderebbe “eroismo, magia, Tolkien, tolkieniano, anti-Tolkien e ‘costruzione di parole’”. Per il genere romantico avremmo “lussuria, addominali, potere, fiducia, devozione” e così via.

Tutti i romanzi di genere si basano su formule riconoscibili che possono essere articolate in queste nuvole di parole, ma ciò che è importante ai fini del nostro discorso è come i libri di qualità più alta – quelli che rompono le limitazioni del loro genere e sono acclamati come classici universali – spesso condividono quelle che i critici eruditi amano chiamare “vibrazioni simili”.

Le file di toni di Kundera ci offrono l’opportunità di dare un nome anche a queste vibrazioni. Ovviamente non è facile – cercare di spiegare a parole una vibrazione può spegnerla, come succede con le barzellette più sottili – e di certo, accomunare testi distinti e immortali come Il crollo e La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo è un’impresa impossibile. Dopo tutto, “classico” non designa un genere, ma un’eccellenza. Ciò che Il crollo e Tristram Shandy hanno in comune all’origine del loro concepimento (se ce l’hanno) è un distillato di un distillato.

Ciò nonostante, i profumi che colgo da questi libri, le parole fondamentali che accomunano entrambi – e probabilmente ogni altra opera destinata a essere goduta in eterno – si possono ritrovare in qualsiasi recensione: “Umanità, calore e umorismo”; “vagamente folle, unico e avvincente”. Si accumulano commenti sulla forma, la verità, la morale, la cultura, l’umorismo. Forse è roba inutile. Soprattutto, però, queste recensioni, per non parlare dell’esperienza della maggior parte dei lettori, s’incentrano sullo “shock” e la “sorpresa”.

Parliamo del profumo di un profumo, ma la “sorpresa” – la sorpresa del lettore – è il paradosso centrale di ogni classico: la definizione di classico identifica un libro che è stato letto, riletto e ricontestualizzato in epoche diverse. Eppure, quando strappo via tutte le mani che lo hanno stretto prima delle mie e mi cimento con il testo in prima persona, resto sbigottito. E quando più avanti torno a rileggerlo, resto sbigottito un’altra volta, e per motivi diversi. Se per caso sono costretto a parlare di questi libri – per esempio nel mio lavoro quotidiano di libraio – spero sempre di riuscire a comunicare questa scossa. “Non riesco a pensare a un classico che mi abbia fatto ridere di più di La Bosnia e l’Erzegovina: viaggio in Jugoslavia di Rebecca West”, dico a chiunque mi ascolti.

Non è un esempio a caso. Questo “diario di viaggio” del 1941, capace di rivaleggiare con Guerra e pace in lunghezza e in profondità, azzarda un montaggio talmente sorprendente che il critico inglese Geoff Dyer lo descrive come “il salto temporale più audace, la deduzione più oltraggiosa di tutti i tempi”. L’indagine di West sulle culture e i personaggi della Jugoslavia tra le due guerre è disseminata di battute sferzanti. “Abbiamo subito colto l’opportunità di domandare ad alcuni amici perché loro e tutto il loro mondo fossero contro lo stato jugoslavo. La loro prima risposta è stata semplicemente di apparire bellissimi”. La dignità impacciata dei suoi amici è palpabile in quest’ultima battuta, che sembra quasi un fotogramma di Morto Stalin, se ne fa un altro di Armando Iannucci. Vissuti decenni prima della violenta balcanizzazione post-sovietica e degli orrori della pulizia etnica a cui la regione è associata ancora oggi, i suoi interlocutori hanno l’aria eroica ridicola e allo stesso tempo affascinante tipica di tanti rivoluzionari. Tutto questo West non ha bisogno di spiegarlo. La sua battuta taglia come un bisturi, una biopsia d’intuizione che unisce descrizione e diagnosi in un colpo solo. Fa sempre così, Rebecca West.

Tutte le barzellette migliori, letterarie o no, si basano su un mix misterioso di atteso e inatteso. Se la battuta finale funziona, se ci mette ko, è perché l’autore ha usato la prevedibilità come un pugile per distrarci dal cazzotto dell’inatteso. Qui non c’è modo di aggirare le metafore. Con questo non voglio dire che tutte le barzellette siano semplicemente giochi di parole.

La stessa profonda attenzione che permette alle migliori barzellette di funzionare si trova in tutti i libri che si sono guadagnati l’etichetta di classici. Senza umorismo, senza le svolte argute, la portata di un libro si restringe. La rileggibilità delle opere più durature si fonda sulla vivacità delle continue sterzate del testo, sulla combinazione tra aspettative rispettate, compromesse e ribaltate. L’umorismo è una forma virtuosistica del coinvolgimento spontaneo della mente con il mondo circostante: se lo eliminiamo, la vitalità formale del testo, anche nelle migliori espressioni drammatiche, sfiorisce.

Per esempio: perché John Steinbeck non è invecchiato bene? Alcuni dei suoi libri si difendono ancora, soprattutto per chi li scopre alle scuole superiori, ma se provate a leggere Furore da adulti troverete un libro fossilizzato nella sua seriosità. I suoi provincialotti di cartone sono personaggi di un volantino di denuncia. Non contento di produrre magnifici esempi di autentico dialogo pulp come “quando uno sta al fresco per un po’, la puzza di ficcanaso la sente subito”, Steinbeck butta alle ortiche l’essenzialità e la concisione nel tentativo di sembrare profondo.

Angelo Monne

Secondo una retrospettiva dell’opera di Steinbeck uscita sulla New York Review of Books, questo è un difetto ricorrente. Anche il memorabile La valle dell’Eden risulta eccessivo, senza traccia di umorismo o ironia a mitigare il fervore della vicenda drammatica. In Furore, i personaggi “sono in qualche modo generici, più reali come gruppo che come individui”. Non solo “Ma Joad è troppo buona per essere vera”, ma Tom è semplicemente “un giovane uomo forte e virtuoso intrappolato dal fato e dalla storia” e “Rosasharn è più il sintomo di un problema che una giovane donna in carne e ossa”. L’umorismo è tutt’uno con la freschezza dell’intuizione, con la capacità di mettere le cose in prospettiva. Steinbeck diventa stantio perché rifiuta di vedere i suoi ex migranti non solo come vittime ma anche come figure comiche. I migranti in fuga dalla siccità erano miserabili, certo, ma erano anche ridicoli, futili, sciocchi, e a volte traditi dalle funzioni corporee, il grande rifugio dell’ilarità.

Su quest’ultimo punto, ci inchiniamo ancora una volta ai piedi di Toni Morrison. All’inizio di Amatissima Sethe è rannicchiata “davanti alla latrina, mentre sotto di lei si formava un pantano troppo profondo per poterlo guardare senza doversi vergognare. Proprio quando ormai cominciava a chiedersi se al circo avrebbero accettato un altro fenomeno da baraccone, l’acqua si fermò”. Spingendosi addirittura oltre, James Joyce ambienta in una latrina un’intera scena dell’Ulisse. La predilezione dell’uomo di leggere il giornale mentre è seduto sulla tazza non è mai stata meglio documentata. “Speriamo non sia troppo grosso, sennò le emorroidi. No, giusto giusto. Così. Ah! Stitico”.

Anche questi incisi puerili danno un contributo necessario al romanzo. Sono dei rischi, spesso al livello del linguaggio, che aiutano a svelare ogni lunghezza d’onda nello spettro della realtà emotiva. Quando un autore sa raccontare una barzelletta, problemi narrativi come la “crescita del personaggio” possono essere messi da parte. O, ancora meglio, possono essere affrontati lateralmente. Intere trame possono essere rovesciate con un’unica frase per poi tornare al loro posto con quella successiva.

In Gli anni fulgenti di miss Brodie di Muriel Spark, due ragazzine discutono della filosofia di vita della loro insegnante. “Miss Brodie dice che gli anni fulgenti sono i migliori”, dice Sandy, che sta parlando con la sua migliore amica, Jenny. Hanno dieci anni. Jenny risponde:

“Sì, ma lei non si è mai sposata come le nostre madri e i nostri padri”.

“Loro non hanno anni fulgenti”, dice Sandy.

“Hanno rapporti sessuali”, dice Jenny.

I rapporti sessuali che miss Brodie ha o non ha sono il filo conduttore principale del romanzo. Le ragazze subiscono il fascino di miss Brodie, ma che c’entra il sesso? Fino a questo punto è stato tenuto fuori dalla scena. Facendo leva sul nostro senso della struttura parallela – “essere negli anni fulgenti” e “avere rapporti sessuali” – Spark sposta la trama attraverso le chiacchiere precoci di una ragazzina.

A costo di essere banale: i grandi libri mi stanno a cuore. Non sono uno che pensa che la lettura sia sempre un’attività neutra dal punto di vista dei valori, che le grandi storie siano una sorta di specchio morale in cui ci riflettiamo e da cui tiriamo fuori quello che ci abbiamo messo noi stessi. Certo, a volte è così. Magari sempre, per alcune persone. Ma i grandi libri, e anche i buoni libri che sono stati grandi nel momento in cui li ho letti, rappresentano una forza che si muove per suo volere nella mia vita.

Come ha detto una volta C.S. Lewis, “l’esperienza letteraria cura le ferite, senza compromettere il privilegio dell’individualità”. Non sono sicuro di capire bene cosa significhi, ma quest’anno ho letto Macbeth. La barbarie e l’ingegnosità dei suoi protagonisti malvagi e dei suoi eroi, per non parlare della poesia, mi hanno travolto. Bene, tutto come previsto: “Hai sentito parlare di questo Shakespeare? Non è niente male…”. Da padre di tre bambini piccoli, però, non ho potuto fare a meno di rimanere sorpreso e commosso dall’attenzione della storia per la fatica genitoriale come tratto caratterizzante del calore familiare.

Questa dinamica è evocata in modo particolarmente convincente in una scena tra la sventurata lady Macduff e il suo ancora più sventurato figlio:

Lady Macduff: Iddio t’aiuti, povero scimmiottino! Ma che farai, ora che sei rimasto orfano?

Figlio: Se fosse morto, piangeresti per lui. Che se poi non piangessi sarebbe proprio un buon segno, perché vorrebbe dire che presto avrò un padre nuovo.

Lady Macduff: Oh che chiacchierino! Ma non stai un
minuto zitto!

Vivo con un bambino come questo. Ritrovare la sua impertinenza, la sua intelligenza, nella tragedia scozzese del Bardo è come uscire da me stesso senza perdere me stesso. Più nello specifico, non c’è motivo perché la scena sia così lunga e articolata. Serve solo a farci provare compassione per questi poveri personaggi che stanno per morire. O perfino orrore. Shakespeare, però, va oltre l’utilità drammaturgica. Se questi personaggi sono diventati memorabili malgrado i loro ruoli limitati è grazie al loro senso dell’umorismo. Macbeth sarebbe comunque degno di rispetto anche senza le loro voci che ridono, ma non sarebbe lo stesso.

Qualunque cosa sia l’immortalità, questa vaga ma insostituibile qualità che attribuiamo a ogni classico, una buona battuta è ciò che si avvicina di più a incarnarla nella parola scritta. Una battuta è linguaggio smascherato. Una battuta giustifica se stessa. Una battuta sopporta ogni cosa, crede a ogni cosa. “Qualcosa che non è mai accaduto da tempo immemorabile: una giovane donna non ha mai scoreggiato in grembo a suo marito”, recita la barzelletta più antica del mondo. Per qualche motivo, è l’unica tavoletta sumera che mi ricordo parola per parola. Di solito le commedie non sono annoverate tra i classici. Ma tra le grandi opere della nostra storia letteraria e culturale, più un romanzo, un dramma o un’opera comica fanno ridere, più è probabile che diventino immortali. ◆ fas

Joel Cuthbertson è un libraio e scrittore di Denver, nel Colorado, Stati Uniti. Questo articolo è uscito sul sito The Bulwark, che si occupa di politica e cultura statunitensi. Il titolo originale era All classics are funny.

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Questo articolo è uscito sul numero 1541 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati