La prima volta che è successo mi trovavo in un bagno pubblico vicino a Wall street, a New York. Stavo per aprire la porta quando ho sentito due ragazze che parlavano di me: “Hai sentito cosa ha detto Naomi Klein?”.

Mi sono bloccata. Cos’avevo detto?

“Qualcosa sul fatto che la manifestazione di oggi è una cattiva idea”.

“Chi gliel’ha chiesto? Non credo proprio che capisca le nostre richieste”.

Un momento! Io non avevo detto nulla sulla manifestazione, tantomeno sulle loro richieste. Poi ho capito. Sapevo chi l’aveva fatto.

Essere scambiata per Naomi Wolf mi sembrava solo una cosa da social network. Quando nel mondo fisico interagivo con qualcuno il suo nome non veniva mai fuori

Così, con disinvoltura, mi sono avvicinata al lavandino, ho guardato negli occhi una delle ragazze riflesse nello specchio e ho pronunciato le parole che avrei poi ripetuto molte, troppe volte nei mesi e negli anni a venire: “Credo tu stia parlando di Naomi Wolf”.

Era il novembre del 2011, al culmine di Occupy Wall street, il movimento che ha visto gruppi di giovani occupare con tende e ripari di fortuna parchi pubblici e piazze di alcune città di Stati Uniti, Canada, Asia e Regno Unito. Quel giorno gli organizzatori dell’occupazione a Manhattan (che era stata la prima in assoluto) avevano indetto una marcia di protesta attraverso il quartiere finanziario di Wall street, e si capiva dai vestiti neri e dall’eyeliner pesante che nessuno in quel bagno pubblico stava facendo una pausa dalle operazioni di trading.

Ho capito perché c’era chi ci confondeva. Sia io sia Wolf abbiamo scritto libri ben accolti dal pubblico (il mio No logo, il suo Il mito della bellezza, il mio Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, il suo The end of America, il mio Una rivoluzione ci salverà, il suo Vagina. Una storia culturale). Entrambe abbiamo i capelli castani che a volte diventano biondi per l’esposizione al sole (i suoi sono più lunghi e voluminosi dei miei). Siamo tutte e due di origine ebraica. E, cosa che oggi aumenta la confusione, una volta svolgevamo indagini e ricerche molto diverse (le sue sul corpo delle donne, la sessualità e la leadership; le mie sull’attacco delle grandi corporation alla democrazia e sul cambiamento climatico). Ma, all’inizio di Occupy, la separazione tra questi due ambiti era diventata meno netta.

Ai tempi di quell’incontro nel bagno, avevo già visitato la piazza di Occupy un paio di volte. Ero andata soprattutto a fare interviste e raccogliere materiale sulla relazione tra le logiche di mercato e il collasso climatico per quello che sarebbe poi diventato il mio libro Una rivoluzione ci salverà. Poi, mentre ero lì, gli organizzatori mi hanno chiesto di tenere un breve discorso sullo shock della crisi finanziaria del 2008 e sulle enormi ingiustizie che ne sono seguite, sulle migliaia di miliardi stanziati per salvare le banche le cui operazioni avventate avevano causato la crisi, sulla punizione inflitta al resto del mondo, sulla corruzione legalizzata portata allo scoperto. Naomi Wolf, portabandiera del femminismo negli anni novanta, aveva incrociato le proteste, e suppongo che nasca proprio da qui la confusione. Lei aveva scritto numerosi articoli dove argomentava come l’esperienza di Occupy dimostrasse che gli Stati Uniti si stavano trasformando in uno stato di polizia. Questo era il soggetto del libro The end of America, in cui delineava i “dieci passi” che secondo lei ogni governo compie sulla strada del fascismo vero e proprio. La prova che questo futuro malvagio fosse ormai alle porte era data dal modo con cui i manifestanti di Occupy erano stati contrastati. Le autorità di New York non avevano permesso l’uso di megafoni e sistemi di amplificazione nel parco, e c’era stata una serie di arresti di massa. Nei suoi articoli Wolf sosteneva che gli attivisti avrebbero dovuto sfidare i limiti alla libertà di parola e di riunione per impedire il colpo di stato che stava avvenendo sotto i loro occhi. Non volendo dare alla polizia una motivazione per sgomberare Occupy, gli organizzatori avevano preso una strada diversa, utilizzando quello che è diventato noto come “microfono umano”, quando la folla ripete le parole dell’oratore in modo che tutti possano sentirle.

Gli occupanti erano stati molto chiari sul fatto che il movimento non aveva un’agenda politica, solo due o tre richieste che il governo avrebbe dovuto accogliere per mandare tutti a casa soddisfatti. Wolf però insisteva che il movimento aveva in real­tà istanze diverse e che lei le aveva capite. Ignorando la natura del movimento, basato su una democrazia dal basso e partecipativa, aveva trasformato i risultati di un suo sondaggio estemporaneo in un elenco di richieste, assumendosi la responsabilità di consegnarlo al governatore di New York, Andrew Cuomo, in occasione di una serata di gala organizzata dall’Huffington Post dove lei e Cuomo erano entrambi invitati. Lì non era riuscita a parlare con il governatore, ma era riuscita a farsi arrestare, vestita in abito da sera e ingaggiando un corpo a corpo con la polizia, il tutto documentato dalle numerose telecamere presenti. È a questo che si riferivano le ragazze nel bagno pubblico quando dicevano che “Naomi Klein” non capiva le loro richieste.

Finora avevo prestato un’attenzione distratta alle pagliacciate di Wolf, ed erano solo una delle tante cose bizzarre che gravitavano intorno a Occupy in quel movimentato autunno. Un giorno si era sparsa la voce che i Radiohead avrebbero fatto un concerto gratuito per i manifestanti, poi si scoprì che era uno scherzo e che la band era ancora nel Regno Unito. Il giorno dopo Kanye West e Russell Simmons erano passati davvero, con tanto di entourage, a distribuire doni ai ragazzi accampati. Poi era stata la volta di Alec Bald­win. In quest’atmosfera da circo, una scrittrice a metà carriera che si faceva ammanettare mentre si accapigliava (senza successo) con la polizia davanti a dei manifestanti che avevano la metà dei suoi anni era a malapena una notizia.

Dopo l’incidente “del gabinetto” ho tuttavia cominciato a prestare maggiore attenzione a ciò che faceva Wolf, consapevole del fatto che in qualche modo questa situazione si stava ritorcendo contro di me. Quanto ha pesato questa confusione d’identità? Tanto. C’è anche una filastrocca, postata online per la prima volta nell’ottobre del 2019 e diventata subito virale, che anni dopo continua immancabilmente a ritornare: “If the Naomi be Klein / you’re doing just fine / If the Naomi be Wolf / Oh, buddy. Ooooof” (Se la Naomi è Klein / va bene. / Se la Naomi è Wolf / Oh, amico. Uffa).

Da quel momento ci sono stati molti uffa. Nel decennio successivo a Occupy, Wolf ha collegato i puntini tra un numero incredibile di fatti e le farneticazioni più disparate. Ha fatto circolare notizie infondate sull’informatore della National security agency, Edward Snowden (“Non è chi dice di essere”, ha scritto, lasciando intendere che fosse una spia sotto copertura). Sulle truppe statunitensi inviate a costruire ospedali da campo nell’Africa occidentale durante l’epidemia di ebola del 2014, secondo lei non per fermare la diffusione della malattia, ma per portarla negli Stati Uniti e giustificare così un “lockdown di massa” in patria. Sulle decapitazioni di prigionieri statunitensi e britannici da parte dell’Isis: forse non sono veri omicidi, ma messe in scena organizzate dal governo degli Stati Uniti. Sui risultati del referendum scozzese per l’indipendenza del 2014, in cui il “no” aveva vinto con un margine superiore al 10 per cento: dati falsificati, ha sostenuto Wolf sulla base di alcune testimonianze raccolte senza muoversi dalla sua casa di New York. Sul Green new deal, che secondo lei non erano le richieste avanzate dai movimenti per la giustizia climatica, ma un’altra operazione orchestrata da élite “fasciste”. Aveva anche trovato trame sospette dietro ad alcune nuvole dalla forma bizzarra che, a suo dire, erano l’esito di un programma segreto della Nasa per irrorare di alluminio i cieli di tutto il mondo, provocando così epidemie di demenza.

Purtroppo, ero sempre aggiornata sulla sua attività: a causa della confusione che si era generata tra noi due, le citazioni online che (ahimè) mi coinvolgevano arrivavano subito sul mio computer. A volte erano denunce, a volte messaggi di solidarietà (“Non posso credere cosa ha detto Naomi Klein”. “Ma che le è successo?”. “La vera vittima è Naomi Klein”).

Ho cominciato a pensare a Wolf come “l’altra Naomi”. Il mio doppelgänger.

Per la maggior parte del primo decennio di questo continuo scambio di persona, la mia strategia è consistita in un rigoroso silenzio. Certo, mi lamentavo in privato con gli amici e con mio marito Avi, ma mai in pubblico. Anche nel 2019, quando Wolf ha cominciato a taggarmi ogni giorno nei suoi tweet sul Green new deal (cercando chiaramente di trascinarmi nel dibattito sulla sua infondata teoria secondo cui l’intera faccenda sarebbe una sorta di shock economy verde, un diabolico piano di banchieri e fondi d’investimento senza scrupoli per conquistare il potere con la scusa dell’emergenza climatica) non mi sono mai confrontata con lei. Non ho cercato di chiarire l’equivoco.

Qualche volta ci ho pensato, ma non mi è mai sembrato saggio. Anche se devo dire che si prova una certa umiliazione nell’essere scambiate continuamente con un’altra, perché si ha la conferma di non essere uniche ma intercambiabili. È questo il problema con i doppelgänger: qualsiasi cosa si faccia per dissipare la confusione in realtà non si fa altro che attirare l’attenzione su di essa, correndo così il rischio di cementare ancora di più quest’indesiderata associazione nella mente della gente.

Il confronto con i nostri doppi solleva inevitabilmente domande destabilizzanti dal punto di vista esistenziale: sono chi penso di essere o sono invece la persona che gli altri percepiscono che io sia? E se un numero sufficiente di persone comincia a vedere qualcun altro come me, allora chi sono io? Tutto questo mi fa venire in mente la mia cagnetta Smoke, quando ogni sera vede il suo riflesso nel vetro della porta d’ingresso e comincia ad abbaiare furiosamente. Forse è convinta che un suo doppelgänger voglia entrare in casa sua, mangiare il suo cibo, rubare l’affetto dei suoi umani. “Sei tu”, dico a Smoke con la mia voce più rassicurante, ma lei non risponde.

Poi, durante la pandemia di covid-19 la posta in gioco nell’essere scambiata con Wolf è diventata molto più alta di quanto non fosse nel gabinetto pubblico di Manhattan. Leggendo i suoi post, mi sono resa conto che c’era qualcosa di diverso. Sembrava avere un solo tema: il virus, le sue origini, i test, le mascherine, i vaccini, i decreti per i vaccini, le app per verificare i certificati vaccinali. Niente era come sembrava. Paragonava l’obbligo del vaccino contro il covid a quello imposto agli ebrei nella Germania nazista di indossare la stella di Davide gialla. Appariva quasi ogni giorno in War room, il podcast di Steve Bannon, che era stato il capo stratega di Donald Trump all’inizio del suo mandato da presidente degli Stati Uniti. Ha ripetuto più volte che abbiamo subìto un colpo di stato “biofascista”. Quando girovagavo online per cercare comunità di cui sentivo la mancanza, trovavo invece la confusione, una marea crescente di persone che discutevano di me e di ciò che avevo detto e fatto. Solo che non ero io. Era lei.

L’equivoco poteva anche essere divertente: lei è cresciuta negli Stati Uniti, io in Canada. Lei è una liberale che fa riferimento, in modo assolutamente acritico, ai “padri fondatori” degli Stati Uniti, è ossessionata da un’idea di “libertà” totalmente individualista. Io sono una donna di sinistra nipote di immigrati, credo che la libertà si conquisti collettivamente e non sopporto le bandiere identitarie. Lei ha frequentato università private negli Stati Uniti e nel Regno Unito, io ho abbandonato un’università pubblica in Canada. I suoi occhi sono azzurri, i miei castani. Tuttavia, con il tempo sono arrivata ad ammettere che – anche se queste differenze sono importanti per me e senza dubbio per lei – per la maggior parte delle persone hanno poca importanza. E perché dovrebbero averne? Ci chiamiamo tutt’e due Naomi, abbiamo uno sguardo critico verso il potere delle élite, abbiamo anche alcuni obiettivi simili.

Beatrice Bandiera

Io, per esempio, ero furiosa quando Bill Gates si è schierato a fianco delle case farmaceutiche per difenderne i brevetti sui vaccini salvavita contro il covid, usando come arma il subdolo accordo sulla proprietà intellettuale promosso dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), anche se lo sviluppo dei vaccini era stato abbondantemente sovvenzionato con denaro pubblico, e per il fatto che questo aveva contribuito a escludere dalla vaccinazione milioni di persone tra le più povere del pianeta. Naomi Wolf, invece, era furiosa perché la popolazione era costretta a vaccinarsi, e ha alimentato le voci su un complotto ordito da Bill Gates che prevedeva l’uso dei vaccini come strumento per il tracciamento delle persone, espediente per varare un malvagio nuovo ordine mondiale. Sono differenze sostanziali, che riflettono le opinioni di due persone diverse. Ma sono arrivata ad accettare il fatto che, per tanti che accedono ai social network quando si stufano di Netflix, siamo solo un’unica forma indistinta di Naomi che, in modo supponente, parla di stati di emergenza e di Bill Gates.

Doppelgänger è una parola tedesca, combina doppel, doppio, con gänger, viandante. A volte viene tradotta come “doppio che cammina” e posso assicurarvi che averne uno è un’esperienza profondamente inquietante. È un sentimento che Sigmund Freud ha descritto come “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”, ma che improvvisamente diventa Altro. L’inquietudine provocata dai doppelgänger è dunque fortissima, perché a diventare Altro siete voi stessi. Una persona che ha un doppelgänger, scriveva il padre della psicoanalisi, può identificarsi “con un’altra persona così che egli dubita del proprio Io”. Freud non aveva ragione su tutto, ma su questo sì.

Ovviamente i doppelgänger non rappresentano l’unica situazione in cui possiamo perdere il controllo su noi stessi. Un Io accuratamente costruito può essere distrutto in molti modi e in un istante: un infortunio che provoca un’invalidità, un crollo psicotico o – al giorno d’oggi – un account hackerato o un deep fake. Ed è proprio questo il fascino emanato dai doppelgänger nei romanzi e nei film: l’idea che due estranei possano essere indistinguibili l’uno dall’altro rende la nostra identità profondamente precaria. È la dolorosa messa a nudo del fatto che la persona che pensiamo di essere, la nostra vita personale e la nostra immagine pubblica, per quanto possano essere attentamente curate, sono sempre esposte a forze che non riusciamo a controllare.

In tutti i romanzi l’incontro con i propri doppi, i doppelgänger, rappresenta il segno che la vita del protagonista sta per essere sconvolta: il sosia gli mette contro amici e colleghi, distrugge la sua carriera o lo incastra in attività criminali, e molto spesso fa sesso con il suo coniuge o amante.

C’è un’altra ragione per cui nei primi anni del problema con il mio doppelgänger non mi ero molto preoccupata di cambiare registro: essere scambiata per Naomi Wolf mi sembrava solo una cosa da social network. I miei amici e colleghi sapevano bene chi ero e quando nel mondo fisico interagivo con persone che non conoscevo il suo nome non veniva mai fuori, nessuno scambiava una per l’altra in articoli o in recensioni di libri. Avevo quindi archiviato il malinteso sulle due Naomi nella categoria delle “cose che succedono su internet e che non sono del tutto reali” (quando eravamo così ingenui da pensarlo per tutto ciò che avveniva in rete). Mi dicevo che non ero io a essere erroneamente scambiata per Wolf, ma i nostri avatar digitali: le nostre “miniature”, le informazioni sul nostro profilo social, che appiattiscono e offuscano molte altre cose.

Nel tentativo di dare un senso a questa situazione, ho cominciato a leggere (e a vedere) tutto ciò che potevo sulla figura del doppio e del doppelgänger, da Jung a Ursula K. Le Guin, da Dostoevskij al regista Jordan Peele.

L’idea del doppio ha cominciato ad affascinarmi. Il suo significato nella mitologia classica e nella psicoanalisi. L’aspetto per cui il Sé sdoppiato rappresenta la nostra aspirazione più alta: l’anima eterna, quell’essenza effimera che si pensa sopravviva al corpo. Ma anche il modo in cui il doppio rappresenta le parti più represse, depravate e riprovevoli di noi stessi, che non sopportiamo di vedere: il gemello cattivo, il Sé ombra, l’anti-Sé, lo Hyde del nostro Jekyll.

Da queste storie ho presto imparato che la mia crisi d’identità era forse inevitabile: l’apparizione del proprio doppelgänger è quasi sempre portatrice di caos, è molto stressante e induce alla paranoia. La persona che incontra il proprio doppio è inevitabilmente portata al limite dalla frustrazione e dal turbamento che ne derivano.

I doppelgänger, tuttavia, non sono solo fonte di sofferenza. Per secoli, i doppi sono stati intesi come avvertimenti o presagi. Il più delle volte, quando la realtà comincia a sdoppiarsi, a rifrangersi su se stessa, significa che qualcosa d’importante viene ignorato o negato – una parte di noi stessi e del nostro mondo che non vogliamo vedere – e che ci attende un pericolo se l’avvertimento rimane inascoltato. E questo vale sia per il singolo individuo sia per le intere società, che sono divise, sdoppiate, polarizzate o frammentate in posizioni conflittuali, apparentemente inconciliabili. Società come la nostra.

I movimenti d’opinione di cui l’altra Naomi è una leader sono ridicoli, non degni d’attenzione, oppure fanno parte di un cambiamento epocale del nostro mondo di cui bisogna con urgenza prendere atto? Devo ridere o piangere? Sono seduta, ferma, su questa roccia o tutto si sta muovendo molto velocemente? Se la letteratura e la mitologia del doppelgänger possono servire da guida, quando ci si trova di fronte all’apparizione del proprio doppio si ha il dovere di cominciare un viaggio per capire quali messaggi, segreti, presagi ci vengono offerti. Così ho fatto. Invece di allontanare il mio doppelgänger, ho cercato d’imparare tutto quello che potevo su di lei e sui movimenti di cui faceva parte. L’ho pedinata mentre si addentrava sempre di più nelle “tane” dei cospiratori, luoghi dove il più delle volte mi sembrava che la mia ricerca sullo shock avesse attraversato lo specchio e mi stesse guardando, come una ragnatela di trame farneticanti che proiettano le crisi reali che affrontiamo – dal covid al cambiamento climatico, all’aggressione militare russa – come operazioni sotto falsa bandiera messe in atto dai comunisti cinesi, dalle multinazionali, dagli ebrei e così via.

Più approfondivo la mia ricerca, più chiaro mi appariva il fenomeno, cioè soggetti che non seguivano princìpi o tesi chiare, ma che agivano come appartenenti a gruppi che sostenevano il proprio yin sull’altrui yang: il forte contro il debole, il critico contro il conforme, l’onesto contro il disonesto. Categorie binarie dove una volta dominava il pensiero critico.

All’inizio pensavo che ciò che vedevo nel mondo del mio doppelgänger fossero solo chiacchiere sconclusionate. Con il tempo ho però cominciato ad avere la netta impressione di assistere alla nascita di una nuova e pericolosa aggregazione politica, con le sue alleanze, la sua visione del mondo, i suoi slogan, i suoi nemici, le sue parole d’ordine, le sue zone off limits e, soprattutto, la sua strategia per conquistare il potere. E, in breve, ho collegato tutto questo a un altro tipo di sdoppiamento assai più pericoloso, la deriva ancestrale per cui razza, etnia e genere creano “doppi” che condannano intere categorie di persone marcate come nemico da combattere: Terrorista, Ladro, Puttana, Nero, che devono stare al loro posto.

Questo è l’aspetto più agghiacciante del mio viaggio nella cultura del doppelgänger: non solo un individuo può avere un suo doppio malvagio, anche le nazioni e le culture ne hanno uno. E molti tra noi avvertono e temono la deriva fatale: la transizione da una cultura democratica a una autoritaria, da laica a teocratica, da pluralista a fascista. In qualche paese questa trasformazione è già avvenuta. In altri la si sente arrivare e investe anche la sfera personale, come se fosse un’immagine deformata in uno specchio. Con il progredire della mia indagine questa forma di duplicazione ha cominciato a preoccuparmi sempre di più: lo stato pagliaccio fascista, gemello onnipresente delle democrazie liberali occidentali, minaccia di annichilirci con il suo veleno fatto di “appartenenza selettiva” e di feroce disprezzo. La figura del doppelgänger è stata usata nei secoli per metterci in guardia da queste versioni ombra del nostro Sé collettivo e da questi mostruosi possibili futuri.

Nel suo film horror del 2019 sui doppelgänger, Noi, Jordan Peele immagina un mondo molto simile al nostro che poggia su un oscuro sottosuolo abitato dai doppi di tutti coloro che vivono in superficie, in cui ognuno è legato al proprio doppio da fili invisibili. Ogni mossa in alto deve essere rispecchiata in basso, nelle tenebre e nella miseria. Le sofferenze del popolo sotterraneo rendono possibili gli agi in superficie, una dinamica che molti hanno interpretato come un’analogia degli orrori di classe sotto il capitalismo razziale. Tuttavia, in Noi, gli abitanti del sottosuolo sono stufi di condurre esistenze distorte nell’ombra, così escono alla luce del sole scatenando il caos. Chi sono questi cittadini dell’ombra?

“Siamo americani”, è la risposta che arriva da uno di loro, come un pugno allo stomaco.

Come il mio doppelgänger che proietta su un’app per verificare i certificati vaccinali tutte le nostre paure di essere sorvegliati, i complottisti si sbagliano sui fatti ma spesso ci vedono giusto sulle sensazioni: la sensazione di vivere in un mondo pieno di zone d’ombra, la sensazione che la miseria di un essere umano sia il profitto di un altro, la sensazione di sfinimento per la predazione e l’estrazione continue, la sensazione che verità fondamentali siano tenute nascoste. La parola per indicare il sistema che alimenta queste sensazioni comincia con la c, ma se nessuno ci ha mai insegnato come funziona il capitalismo, dicendoci invece che consisteva nella libertà, nel sole, nei McDonald’s e nell’attenersi alle regole per ottenere la vita che meritiamo, allora non è difficile capire perché lo si può confondere con un’altra parola che comincia con la c: complotto. Come scrive lo studioso di giornalismo digitale Marcus Gilroy-Ware, “le teorie del complotto sono un colpo a vuoto di un istinto politico sano e lecito: il sospetto”. Ma il sospetto diretto verso il bersaglio sbagliato è una cosa molto pericolosa.

Siamo già arrivati a questo punto? Non ancora. Ma la pandemia, sovrapposta a tante altre emergenze a lungo represse, ha portato l’umanità in un luogo dove non è mai stata prima, in qualche modo vicino ma diverso. Questa differenza è ciò che spiega la confusione a cui molti hanno cercato di dare un nome, quando accade che tutto sembri familiare ma allo stesso tempo strano. Personaggi inquietanti, politica “alla rovescia”. L’intelligenza artificiale è in arrivo, mentre è sempre più difficile capire chi e che cosa sia reale. L’incertezza di cui parliamo? Non capire di chi possiamo fidarci e a che cosa credere? Amici e persone care che ci sembrano estranei? Il nostro mondo è cambiato ma, come in un caso di jet lag collettivo, la maggior parte di noi è rimasta ancora ai ritmi e alle abitudini del luogo di partenza.

Nel suo romanzo L’uomo duplicato, José Saramago riporta questa citazione: “Il caos è un ordine da decifrare”. Ecco, il mio è un tentativo di decifrare il caos della cultura dei doppelgänger, con il suo groviglio di sé simulati, di avatar digitali, di controllo di massa, di proiezioni razziali ed etniche, di “doppi” fascisti, di ombre accuratamente negate che stanno emergendo tutte in una volta.

Non sarà un percorso lineare, ma certo lo scopo della mappatura di questo percorso è non rimanere chiusi in una casa degli specchi e fare ciò che molti di noi vogliono fare: sottrarsi alla prigione mentale per trovare la nostra strada verso una forma di potere e di scopo collettivi. Il punto è uscire da questa vertigine collettiva per arrivare, insieme, in un luogo decisamente migliore. ◆ as, at

Naomi Klein è una giornalista, scrittrice e attivista canadese. Questo articolo è estratto dal suo ultimo libro, Doppio. Il mio viaggio nel Mondo Specchio (La nave di Teseo), che uscirà il 19 settembre. © 2023 by Naomi Klein. © 2023 La nave di Teseo editore, Milano. Published by arragement with Agenzia Santachiara

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Questo articolo è uscito sul numero 1529 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati