Gli ululati si rincorrono lungo la collina mentre passo sotto pini rigogliosi e ginepri battuti dal vento. I lupi mi braccano da entrambi i lati, con gli occhi fluorescenti che scrutano nel buio. Anche se sono confinati dietro un recinto, il cuore mi batte all’impazzata per quelle sagome in agguato, il ticchettio delle unghie, il pelo di giarra lungo e ispido.

Alla mia sinistra, Teton e Shasta, due giovani lupi artici, corrono verso di me e si fermano con precisione prima di schiantarsi contro la rete metallica che li rinchiude. Il loro sguardo mi segue finché non subentrano Rain e Nimoy, poi Oscar e Gaia, quindi Zeus e Luna, e infine Nakota e Lani al bordo del recinto, dove la rete finisce e il complesso si apre in un campo di fiori selvatici e ossa sbiancate dal sole.

Gabriella Giandelli

In notti limpide come questa tengo la torcia spenta, infilata nella tasca dei pantaloni, e costringo i miei sensi a sentire, toccare, annusare, vedere una minima parte di tutto quello che gli animali fanno senza sforzo: notare l’aria fresca sulla mia pelle, la terra secca nel naso che si attacca alla gola. Sono in un angolo sperduto del New Mexico, dove ho deciso di passare sei mesi come volontaria a tempo pieno in un santuario faunistico che protegge lupi, cani lupo e altri canidi selvatici dal commercio degli animali esotici. Anche con i lupi che mi gironzolano intorno, in questa passeggiata notturna verso la mia capanna senza gas e corrente mi sento a mio agio. Quando ho cominciato, però, ero molto meno spavalda.

Cresciuta in una zona residenziale del New Jersey con pochissima esperienza di vita all’aperto, non mi sarei mai aspettata di vivere insieme a settanta canidi, rovistando in barili di carne cruda, legando recinzioni, trasportando acqua e scavando buche a più di duemila metri di altitudine. Non ero per niente tranquilla quando, appena finita l’università e nelle prime fasi di stesura di un romanzo che parlava di lupi, sono salita su un aereo per capire meglio il canis lupus e il suo intricato rapporto con l’uomo.

La colpa è tutta di Barry Lopez. L’idea del libro mi era venuta dopo aver comprato il suo fondamentale Lupi e uomini (Piemme 2019) in una libreria nel centro di Boston. La vita di città mi sembrava sempre più soffocante, e il mio contratto di lavoro stava per scadere. Con una laurea in scrittura, il desiderio di impegnarmi nella tutela dell’ambiente e senza prospettive chiare, stavo valutando le mie opzioni. Una ricerca su internet mi ha portato allo Wild spirit wolf sanctuary, dove ho deciso di trasferirmi per occuparmi di lupi e scrivere. Ho passato un anno intero a prepararmi per il viaggio, ma quando è arrivato il momento di andare sono stata assalita dal terrore. Abbandonare le mie sicurezze significava espormi a una vulnerabilità totale e inevitabile. Comunque, mi sono fatta forza e sono partita.

Sono stata accolta da Leyton, il direttore del santuario, in un furgoncino bianco senza insegne che puzzava come diecimila zampe di cane insieme. Durante le due ore di strada abbiamo parlato del più e del meno mentre io guardavo dal finestrino, incantata dal paesaggio. A ovest di Albuquerque, campi di roccia nera si scioglievano in un mare di arenaria ardente e di valli interminabili dove il territorio di Laguna e Acoma, treni merci e un vecchio tratto della route 66 apparivano e scomparivano tra mesa torreggianti e pianure desertiche. Con l’altura è arrivato il verde: pini e praterie che si mescolavano mentre entravamo e uscivamo dalla riserva Navajo, fino alla comunità di Candy Kitchen, che deve il nome a un contrabbandiere che ai tempi del proibizionismo vendeva liquore in quello che oggi è il centro di accoglienza del santuario.

Quando finalmente siamo arrivati, Leyton mi ha mostrato il mio alloggio, che non era ancora terminato ed era il più lontano dalla cucina comune e dalle docce. Non c’era corrente elettrica; in compenso c’erano un materasso rivestito di plastica sul pavimento di cemento, una stufa a propano che non sapevo usare e un telo blu pieno di buchi che copriva il tetto. Avrei cominciato a lavorare il giorno successivo all’alba.

Poi Leyton se n’è andato e mi sono ritrovata sola con i miei bagagli e i miei pensieri. Lì ho capito che il mio istinto non sbagliava: nessun esercizio, attrezzatura o buon proposito mi avrebbe preparato a questa esperienza, come nessuna lettura mi avrebbe fatto scrivere con autorevolezza di lupi. Durante lo sfiancante addestramento delle settimane successive, ho scoperto che non mi mancavano solo le nozioni di base sul campeggio e sui lupi, ma ero atterrita dalla natura. Nonostante la stanchezza, le prime notti me ne stavo sveglia, con l’orecchio teso al minimo rumore, talmente spaventata dai coyote e dall’immensità del buio che non uscivo nemmeno per andare al bagno. Mentre ascoltavo gli ululati del branco tremando nel mio sacco a pelo, cercavo di ricordare a me stessa che ero lì per assorbire tutto questo: vivere fuori dal mondo civilizzato, camminare con i lupi e imparare.

Il santuario è stato un insegnante puntiglioso che ha messo alla prova tutti i miei limiti. Mi sono venute le vesciche ai piedi per i chilometri che ho percorso, con i miei scarponi da trekking nuovi, per aiutare lo staff a sbrigare mille faccende. Nel tempo libero studiavo il manuale del centro per imparare i nomi e le storie dei diversi lupi, come riconoscerli, che medicine prendevano e come somministrargliele direttamente in bocca in modo sicuro. Dopo quasi due settimane di lavoro senza sosta, ho superato l’esame obbligatorio per diventare ufficialmente una custode.

I lupi del santuario erano quasi tutti fuori dal loro elemento: provenivano da ogni angolo del paese, da case private, zoo in crisi e rifugi per animali. Ecologicamente parlando, il sole implacabile e le condizioni aride tipiche della zona erano un clima insolito per loro – i lupi e i cani lupo artici, orientali e della tundra – mentre i cani lupo in sé, cioè qualsiasi incrocio tra un lupo e un cane, sono quasi sempre allevati e raramente si trovano in natura.

Gabriella Giandelli

Generalmente lupi e cani lupo non sono buoni compagni per la specie umana. Sono maestri della fuga e hanno un’indole incredibilmente distruttiva; per crescere bene hanno bisogno di grandi spazi, di enormi quantità di carne e della presenza di altri canidi. Prevedibilmente, appena i teneri cuccioli si trasformano in adolescenti difficili, i padroni cominciano a cercargli altre sistemazioni. Purtroppo, le strutture che offrono rifugio a tempo indeterminato sono quasi tutte piene, e molti di questi “animali domestici mancati” subiscono maltrattamenti e sono abbandonati o soppressi. Gli ospiti del santuario sono tra i pochi fortunati.

Come tutti i nuovi operatori, ho cominciato l’addestramento prendendomi cura dei lupi che non rappresentavano particolari minacce. Per cominciare era difficile trovare di meglio di Greebo, un cane lupo di quindici anni che era stato affidato al santuario dopo che aveva ucciso il gatto di un vicino. Da giovane era stato piuttosto irrequieto, ma adesso le zampe posteriori gli avevano ceduto e aveva delle striature marroni sui denti. Nonostante questo, non disdegnava una buona grattata e cercava sempre di trascinarsi al cancello per uscire dall’area recintata.

Le mie prime sedute con Greebo, sotto la supervisione di un esperto, sono andate bene. Dopo un po’ mi hanno lasciata continuare da sola, ma già al secondo giorno Greebo mi ha morso sulla pancia, facendomi un buco sulla pelle. Anche se il segno era minuscolo, mi sono sentita mortificata e piena di dubbi. Cosa ci facevo in questo posto, una ragazza di città, terrorizzata dal buio, fisicamente sopraffatta dalla natura, incapace di accendere il fuoco e, a quanto pare, neanche abbastanza sveglia da evitare il morso di un vecchio cane lupo?

Anche se detestavo l’idea di raccontare l’incidente, mi sono confidata con Allison, una dipendente esperta che si stava occupando di alcuni dei lupi più temibili del posto. La sua risposta è stata molto semplice: “Non permetterglielo. Sei tu che comandi”.

Il suo consiglio mi ha incoraggiato, ma anche intimorito. Stabilire delle barriere personali e farle rispettare non era il mio forte, ma era chiaro che dovevo adattarmi. Il giorno dopo, quando Greebo ha provato di nuovo ad attaccarmi, mi sono fatta trovare pronta. Mi è saltato addosso e io l’ho bloccato, facendolo ricadere sul posteriore. Mi è dispiaciuto vederlo barcollare, ma ero anche fiera di me. Gli avevo tenuto testa.

Dopo questo episodio io e Greebo siamo diventati buoni amici, e con rinnovata determinazione mi sono dedicata al mio scopo: osservare ed entrare in contatto con la natura e i lupi. La mia capacità d’interpretare i loro comportamenti è aumentata. Ho imparato ad affrontare habitat più impegnativi e animali che avevano dato spesso del filo da torcere agli operatori. Ho capito allora che i lupi hanno una paura innata degli umani, e che ognuno ha la sua personalità. Alcuni sono gregari, perfino affettuosi. Altri non desiderano nessun contatto. Ecco perché ai volontari si raccomanda sempre di non cercare di piacere agli animali del rifugio. Io però per indole cerco sempre di compiacere tutti, e devo ammettere che mi sono emozionata quando un branco di lupi della tundra si è affezionato a me.

I “Tre dell’Iowa” provenivano da uno zoo che aveva chiuso i battenti ed erano stati costantemente esposti ai visitatori. Questo era stato causa di forte stress, agitazione e battibecchi. Eppure Brutus era sorprendentemente socievole. Era il maschio alfa del santuario e il lupo più alto del gruppo, bianco e allampanato, con una macchia nera sul dorso e un’altra che gli arrivava fino a metà del muso. Ogni mattina lo trovavo ad aspettarmi davanti al cancello, dove voleva che lo accarezzassi prima di sbrigare le mie faccende.

Sull’esempio del fratello, anche Navar ha cominciato a interessarsi a me. Navar era un lupo nero ingrigito dalla mezza età, che pian piano ha trovato il coraggio di annusarmi la schiena quando mi sedevo o di farsi grattare a un braccio di distanza. La loro sorella, Akela, era la più timida, color sabbia, con una cicatrice a forma di X sul muso. Si teneva sempre lontana.

Gabriella Giandelli

Le mie visite giornaliere hanno instaurato un clima di fiducia tra di noi. A volte mi giravano tutti e tre intorno con un misto di curiosità ed eccitazione. Altre volte Navar prendeva coraggio e mi afferrava la maglietta, oppure Brutus mi tirava i capelli e io li scacciavo via con una scarica di adrenalina. Anche i lupi più miti sono capaci di fare danni seri, e spesso in quei momenti il mio istinto fisico mi ha sorpreso. Tipicamente, però, più mi trattenevo con loro più si annoiavano, e dopo po’ si allontanavano verso la loro buca preferita o si sdraiavano all’ombra di un albero mentre io mi riposavo. Scoprire di essere ognuno a proprio agio in presenza dell’altro è stato un traguardo per tutti e quattro. Come loro, ho visto la mia ansia sciogliersi, uno strato dopo l’altro: pensieri, schemi e dolori che si erano accumulati in una vita di addomesticamento.

Essere stata la prima persona a stabilire un legame con il branco è stato un immenso privilegio. Anche essere accettata da loro è stata una conferma, che mi ha permesso di passare da outsider a insider, dandomi fiducia e più sicurezza nell’affrontare le cose.

Ho trovato la mia strada tra i venti freschi delle lunghe giornate estive. Da qualche parte, tra il crepitio della terra sotto i piedi, il sole sulle guance, il pelo tra le mani, la fatica, la quiete e l’isolamento, il gracchiare dei corvi, la marcia delle tarantole, gli occhi dorati dei lupi, mi sono rigenerata in un’altra. Poi i sei mesi sono finiti.

È stato difficile tornare in società dopo aver lasciato il rifugio. Io ero cambiata, ma il mondo che mi ero lasciata alle spalle era rimasto più o meno lo stesso. La frenesia del consumismo capitalista continuava a dominare, le guerre in Iraq e in Afghanistan si erano prolungate, la recessione economica si era aggravata, come il riscaldamento globale. Tutto a un tratto, la mia vecchia vita non sembrava più una vera vita. Vagavo come un cane lupo senza terra, né selvatico né domestico, strappato alla natura.

Sono tornata a Boston e ho cominciato una promettente carriera nel campo dell’istruzione, ma i lupi e il loro territorio si erano ormai cementati nei miei pensieri. S’insinuavano inconsciamente in quasi tutte le mie conversazioni con gli sconosciuti, venivano incanalati nel mio lavoro creativo e poi si riciclavano nei miei sogni. Ogni anno visitavo il santuario, morivo dalla voglia di tornare dai lupi, e soffrivo ogni volta che dovevo andarmene dal luogo che era diventato il mio rifugio. Quindi mi aggrappavo ai ricordi – l’aria pulita e i panorami sconfinati, la gioia di stare con gli animali e l’emozione di quel rapporto unico – e li portavo con me. Ma l’incantesimo svaniva presto.

Scrivere mi aiutava a mantenere il contatto con la realtà, così quando ho lasciato il santuario mi sono messa a lavorare a una nuova versione del mio romanzo. Mi sono ricordata di come i lupi in cattività prosperavano nella routine, e mi sono sforzata in ogni modo di fare spazio all’arte nella mia vita quotidiana. Continuavo a modificare la bozza del libro, dedicando centinaia di ore a una storia che diventava sempre più caotica. Nessuna casa editrice mi voleva pubblicare, e raramente mostravo il mio lavoro a qualcun altro. Il mio libro, come il santuario, era diventato il simbolo della mia lotta interiore mentre cercavo di dimostrare il mio valore.

Il romanzo e i lupi erano le mie ancore di salvezza in giornate che mi facevano sentire come una passeggera sul treno della vita. Fortunatamente, il cambiamento era dietro l’angolo. Cinque anni dopo la mia prima esperienza come volontaria, per la prima volta sono tornata a visitare il santuario con Chadley, che poi sarebbe diventato mio marito. Durante il viaggio abbiamo scoperto che c’erano due posizioni vacanti nello staff. Era il momento giusto. Una conversazione franca con Leyton, un’offerta inaspettata e una buona dose d’incoscienza ci hanno convinti a tornare a casa e fare le valigie per il New Mexico.

Abbiamo lasciato il lavoro, abbiamo venduto quasi tutto quello che avevamo e ci siamo buttati alle spalle la città per un nuovo inizio: eravamo diventati la nuova direttrice del programma e il nuovo coordinatore degli eventi del santuario. Ho compiuto trent’anni mentre eravamo in viaggio per il New Mexico. Prima dell’arrivo il cuore ha cominciato a battermi al ritmo delle ruote della nostra auto che percorreva la strada per Candy Kitchen. Negli ultimi chilometri la macchina sollevava ghiaia e polvere. Abbiamo imboccato il vialetto e ci siamo abbracciati dentro il capanno ristrutturato che sarebbe diventato la nostra casa.

Come i lupi, ho visto la mia ansia sciogliersi, uno strato dopo l’altro: pensieri, schemi e dolori che si erano accumulati in una vita di addomesticamento

Le nostre giornate si sono subito riempite degli alti e bassi tipici del lavoro di una non profit. Ore e ore a lottare contro il tempo per occuparci di decine di animali selvatici e far quadrare i conti in condizioni potenzialmente difficili: maltempo, poche comodità, fondi limitati e poche ore per sé. In compenso, svegliarmi ogni mattina di fronte all’ennesima alba dipinta ravvivata dal canto dei lupi e dei coyote mi faceva sentire più che mai in sintonia con la mia anima e con la natura.

Navar era sopravvissuto ai suoi compagni di branco ed era diventato anziano. Nonostante fosse passato tanto tempo, eravamo rimasti vicini. Con lui c’era Contessa, che era arrivata al centro dopo essere stata quasi uccisa da un altro animale. Era molto vivace ed era la beniamina di tutti; era appartenuta a un dj radiofonico ed era uno dei cani lupo con cui avevo lavorato quando facevo la volontaria. Quando era più piccola, dicevano, era abituata a stare in mezzo alle star e una volta aveva addirittura incontrato i Coldplay, ma le sue necessità dimostravano che la vita domestica non faceva per lei. Con la maturità il suo corpo si era arrotondato, le anche le si erano infiammate e il pelo, un tempo nero, era diventato grigio acciaio.

Badare a Navar e Contessa nei loro anni d’oro è stata un’esperienza agrodolce. Ogni mattina, durante le faccende mattutine, mi sedevo su una roccia in mezzo a loro. Navar mi si piazzava di fianco con sicurezza regale mentre Contessa mi si lanciava addosso, pretendendo le mie attenzioni. Spesso ci mettevamo tutti e tre a ululare. A volte scoppiavo a ridere, altre volte mi veniva da piangere ascoltando le loro voci un tempo maestose ridotte a un sussurro.

Navar e Contessa si sono spenti a distanza di pochi mesi l’uno dall’altra durante la nostra ultima primavera al santuario. Sentivo la loro mancanza, ma la loro scomparsa mi ha premesso di sviluppare il rapporto con altri lupi. Anche io e Chadley ci siamo avvicinati tantissimo. Da anni parlavamo di avere dei figli, e con il passare del tempo questo desiderio è diventato impellente. Ci siamo fidanzati poco prima di lasciare il New Mexico e subito dopo abbiamo dato le dimissioni perché avevamo deciso di avvicinarci alle nostre famiglie prima di costruire la nostra.

In natura è normale che le dinamiche del branco cambino man mano che i nuovi nascono, s’integrano, invecchiano e muoiono. Non ero pronta ad andarmene, ma sapevo che era il momento di voltare pagina. È stato allora che ho cominciato a prendere piena consapevolezza del mio attaccamento al santuario e di cosa avrebbe comportato per il mio mondo interiore lasciarlo. Cosa sarei stata senza i miei lupi?

Enmeshment (invischiamento) è un termine che si usa in psicologia per descrivere uno stato emotivo in cui i confini tra l’identità, il sé e il lavoro sono sfumati. Solitamente è riferito alle persone impegnate in carriere importanti, ma può colpire chiunque. Sicuramente ha colpito me.

Negli anni seguenti, io e Chadley ci siamo sposati, ci siamo trasferiti in New Hampshire e abbiamo ricominciato da zero. Abbiamo avuto due bellissimi bambini, io ho finito il mio libro, ho cercato un agente, ho pubblicato articoli e ho cominciato a lavorare nell’agricoltura, dove sono stata ossessionata dal messaggio “cresci dove hai radici”. All’inizio questo mantra mi dava sui nervi, perché risvegliava l’antica paura di ritrovarmi seduta sul teorico sedile del passeggero nel viaggio della mia vita. Ma se era la presenza quella che avevo cercato al santuario, cosa c’era di più naturale, meraviglioso e perfino ribelle di fiorire qui e ora, anziché aspirare a qualcosa di diverso?

Questo mi ha dato la sicurezza di cui avevo bisogno quando, poco dopo la nascita del nostro primo figlio, ho saputo che il santuario stava cercando un nuovo direttore. Ho pensato di candidarmi, ma poi ho lasciato stare, rimettendo nel cassetto il desiderio di tornare al rifugio insieme al mio romanzo. Forse avevo imparato che il processo era più importante del risultato, che era arrivato il momento di nuove storie, che nel voler scrivere un libro avevo scritto una vita. Per una volta, non sono stata in lutto.

Spesso mi è tornata alla mente una cosa che il padrone di Contessa ci ha detto quando è tornato al santuario dopo la sua morte: “Dopo che hai avuto un lupo non vuoi più avere un cane normale”.

Il commento era un po’ indelicato date le circostanze, ma ho capito cosa voleva dire. Anch’io ero caduta nella trappola di possedere qualcosa di speciale. Avevo lasciato che il mio rapporto con i lupi si legasse indissolubilmente alla mia autostima, generando una serie di convinzioni limitanti che incatenavano la mia serenità, il mio orgoglio e il mio successo a un luogo, a una professione e a un particolare modo di entrare in sintonia con la natura.

Vivendo con i lupi, ho sperimentato in prima persona che i miti che raccontiamo su questi carismatici animali e sul nostro rapporto con loro stanno plasmando il paesaggio naturale, e che non c’è bisogno di arrivare a tanto per stabilire una relazione. Entrare in connessione con il mondo naturale può essere semplice e profondo come raccogliere ghiande con i miei bambini o passare le mani sulla corteccia ruvida di una quercia, sostenere lo sguardo di un cervo, ascoltare il ronzio di un colibrì e inalare il profumo terroso del suolo.

Niente potrà portarmi via gli anni passati con i lupi, ma le politiche di oggi avranno indubbiamente un impatto su chi domani entrerà in contatto con loro e su come questa specie esisterà nel mondo: in mezzo alla natura, di fronte a un fucile puntato o nelle nostre case. Da quando ho lasciato il santuario, i lupi grigi hanno prima perso e poi solo parzialmente riconquistato lo status di specie in pericolo, e molti governi hanno autorizzato pratiche venatorie che erano state vietate e che negli anni sessanta avevano spinto questi predatori sull’orlo dell’estinzione.

Ma i lupi hanno il diritto di stare al mondo, lo meritano. Anziché scacciarli continuamente dalla loro terra, dobbiamo imparare a vivere accanto a loro, a onorare il nostro amore per la natura senza doverla possedere, a proteggere le creature e gli habitat rimasti per le generazioni future.

A volte basta solo cambiare il racconto per migliorare la storia.

Magari rispolvererò il mio manoscritto o tornerò al santuario, ma ho imparato che voltare pagina e cercare nuovi sogni non è un fallimento. Oggi i miei desideri sono giustamente diversi dalle mie aspirazioni giovanili: vorrei essere il tipo di donna che cura un ricco orto, che fa sottaceti e conserve, che è presente con il marito e i figli, che cuce, conserva i semi e continua a scrivere. Forse non ci sono ancora arrivata, ma adesso sono qui. Dove voglio essere. ◆ fas

Nikki Kolb è una scrittrice statunitense che si occupa dei rapporti tra fauna protetta, agricoltura, sostenibilità e maternità.
Gestisce il sito Know stone unturned. Questo articolo è uscito sul giornale online Catapult con il titolo Living with wolves.

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Questo articolo è uscito sul numero 1502 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati