Era una buia sera di febbraio quando un giovane professore di matematica somalo ha deciso di pubblicare una poesia su Facebook. Seguendo la tradizione dei suoi antenati, portatori di una cultura orale fino a un passato ancora recente, l’ha pronunciata ad alta voce, scandendo il ritmo:

Quando ho capito

che non ci sono

né pozzi scavati per voi

né soccorritori in arrivo

e che i leader eletti per servire la nazione hanno corrotto ogni risorsa;

Poi ha caricato la registrazione sul suo profilo.

Nel Somaliland recitare poesie era un passatempo comune tra gli uomini che guidavano carovane di cammelli e le donne che tessevano stuoie per coprire le capanne dai tetti a cupola. Proprio come le vite dei nomadi che le declamavano, anche le poesie erano cicliche. Spostandosi, i cantori si portavano appresso animali e poesie. A ogni tappa di quella migrazione annuale, le donne ripetevano i versi mentre costruivano le abitazioni di paglia e gli uomini li recitavano portando le greggi ad abbeverarsi.

Ma le poesie avevano anche una funzione pubblica: potevano essere usate per difendere un caso davanti a un giudice o per risolvere un conflitto tra due famiglie. E quei versi avevano una forza che poche altre nazioni potevano capire. Nel Somaliland, una regione autonoma situata nella punta settentrionale della Somalia, la poesia aveva scatenato guerre, rovesciato governi e spianato strade verso la pace.

La voce del professore di matematica, accompagnata da una fotografia che lo ritraeva su una spiaggia burrascosa, proseguiva:

quando ho visto

parlamentari che invece di servire la nazione,

temere Allah,

essere vicini alle persone più deboli,

che si erano riunite sotto il sole cocente per votarli

quando avevano avuto bisogno di loro;

raggiunto il loro scopo,

hanno dimenticato i diritti della gente,

tradito le loro promesse

diventando affaristi

vendendo la loro dignità

e le vostre risorse naturali.

Xasan Daahir Ismaaciil scriveva poesia nel tempo libero con lo pseudonimo Weedhsame. Quella sera del 2017, mentre declamava quei versi , non sapeva ancora che il suo nome sarebbe entrato nella rosa dei poeti riveriti nel paese come saggi dei tempi moderni. Non era consapevole di aver appena avviato un dibattito poetico, e che quel dibattito avrebbe scosso la nazione.

questa poesia inquieta

come un canto per gli agnelli

questa poesia che geme

la responsabilità mi impone di parlare

a voi le circostanze impongono di ascoltare.

Gabriella Giandelli

Quando aveva finito, il testo superava i trecento versi e il video durava più di dieci minuti.

Cominciando a scrivere poesia, da adolescente, Weedhsame aveva avuto la sensazione di liberare qualcosa che portava da sempre dentro di sé. I suoi primi testi parlavano di amore, anche se non aveva mai avuto una ragazza. Il ritmo lo attirava più delle parole. Ma quando aveva preso a scrivere di corruzione, tasse, cattiva gestione delle risorse e nepotismo, le parole erano sgorgate. Non era strano: nella società somala poesia e politica s’intrecciavano. Per un poeta denunciare le ingiustizie che vedeva era considerato un dovere.

E nel Somaliland le ingiustizie non mancavano, a partire da quelle imposte dal mondo esterno. Dato che poche nazioni avevano riconosciuto l’autonomia di quel piccolo territorio, il suo popolo era escluso dalle istituzioni internazionali. L’isolamento era cominciato ufficialmente nel 1991, quando una guerra civile aveva portato alla separazione del Somaliland dalla Somalia. In realtà, si trattava del ritorno a una frontiera tracciata dai colonizzatori britannici e italiani alla fine dell’ottocento, con la creazione del Somaliland britannico (1884) e della Somalia italiana (1889). Dopo la guerra e la conquista di una parziale indipendenza, nel Somaliland le ingiustizie erano diventate meno visibili, senza però sparire. Le persone si lamentavano della corruzione, del nepotismo e della repressione. I soldi degli aiuti esteri finivano nelle tasche dei politici, e la musica e il teatro che avevano reso celebre il Somaliland erano presi di mira da leader religiosi ultraconservatori.

Gli esempi di quelle ingiustizie erano ovunque. Così, quando Weedhsame cominciò a scrivere poesia, fece quello che generazioni di poeti avevano fatto prima di lui: si guardò intorno. All’inizio i suoi testi sulla corruzione non suscitarono molta attenzione. Anni dopo, però, sarebbero stati imparati a memoria da una generazione alla disperata ricerca di qualcuno che dicesse la verità.

Nessuno sa dire a quando risalga il primo dibattito poetico del Somaliland. Per secoli, la poesia è stata presente in ogni aspetto della vita delle persone. Si potrebbe riempire un’intera enciclopedia con le norme poetiche racchiuse nella mente dei poeti somali. Ci sono stili per i componimenti d’amore e stili usati nei testi nazionalisti durante la lotta per l’indipendenza; stili pensati per essere accompagnati dall’oud, uno strumento a corde mediorientale; e un metro più breve e rapido riservato alle donne.

A metà dell’ottocento, quando l’esploratore britannico Richard Burton raggiunse la punta del Corno d’Africa, scoprì con stupore che ogni capo somalo aveva un suo poeta personale, incaricato di esaltare la sua figura e di difendere l’onore del clan. “È sorprendente che un dialetto privo di scrittura possa essere tanto ricco di poesia ed eloquenza”, osservò mentre si trovava in quello che è l’attuale Somaliland. “Il paese brulica di ‘poeti, poetastri, poetucoli e poetacci’: la posizione di ognuno in letteratura è accuratamente definita, come fosse stato oggetto di un secolo di recensioni”.

Negli anni il popolo somalo provò diciotto diversi sistemi di scrittura, ma la storia e la cultura continuarono a essere tramandate oralmente e memorizzate attraverso canzoni, poesie e testi teatrali. Solo nel 1972 la lingua somala adottò una forma scritta standardizzata.

Per oltre un secolo, il Somaliland ha sofferto a causa del colonialismo, della dittatura, della guerra civile e della crisi economica. A volte le tensioni erano così forti che sembravano esplodere sotto forma di versi. Mentre i giornalisti erano spesso messi a tacere, i poeti erano più liberi di esprimere pubblicamente le loro rimostranze e di vederle diffondersi. Una poesia poteva ispirarne un’altra, e poi un’altra e un’altra ancora.

Quando un dibattito – chiamato Silsilad (catena) – era al culmine, poeti vicini e lontani intervenivano con i loro versi, declamando i componimenti in pubblico e affidandosi alla memoria dei presenti perché li facessero circolare. In seguito la tecnologia gli avrebbe permesso di registrarli su cassetta e distribuirli nella diaspora, dove sarebbero stati copiati e condivisi.

Quando Weedhsame ha pubblicato la sua poesia su Facebook, erano passati decenni dall’ultimo dibattito poetico nel Somaliland, che secondo alcuni aveva gettato le basi per il rovesciamento della dittatura.

Nel 2017 il parlamento doveva decidere se permettere agli Emirati Arabi Uniti di costruire una base militare nella città portuale di Berbera. Con sgomento, Weedhsame ha visto la proposta passare senza una vera discussione. Si è chiesto se dietro ci fosse stato un giro di mazzette.

Sentendosi frustrato e impotente, ha pensato ai suoi figli, al loro futuro, e si è messo a scrivere. La poesia, intitolata Il querelante, si presentava come un dramma giudiziario in cui lui stesso accusava il governo di corruzione.

A differenza dei poeti del passato, Weedhsame non si è nascosto dietro allegorie o metafore. Il querelante era il componimento più esplicito che avesse mai scritto. Da matematico, Weedhsame odiava fare affermazioni che non poteva dimostrare, ma per lui quel voto era stato troppo.

Weedhsame sapeva che la poesia era in grado di smuovere emozioni più di altre forme di protesta. Ma fu comunque sconvolto quando il testo è diventato virale. Aveva sfogato le sue frustrazioni senza realizzare che migliaia di somali in tutto il mondo provavano le stesse emozioni. Mentre le visualizzazioni aumentavano a colpi di decine di migliaia, dal Canada ad Abu Dhabi le persone lasciavano commenti sotto il suo post. L’hanno chiamato candidati alle presidenziali e leader dei partiti di governo e di opposizione, alcuni per ingraziarselo, altri per lamentarsi, altri ancora per minacciarlo e tentare di corromperlo. Weedhsame non poteva camminare per strada o andare in giro in macchina senza ricevere commenti entusiasti. Il suo telefono squillava continuamente.

Negli Stati Uniti il poeta Cabdullaahi Xasan Ganey, suo amico, ha visto la poesia e ha deciso di rispondere. Sarebbe intervenuto come testimone dell’accusa in un’aula di tribunale allestita online da Weedhsame. Ha scritto un lungo componimento su come il paese fosse stato tradito dai suoi politici:

Gli oppressi hanno detto:

“Per quanto amara,

la verità è necessaria:

voi cedete gli aeroporti,

mettete in vendita i porti,

esportate i minerali,

o fate da intermediari;

disorientate la gioventù,

la vendete ai trafficanti.

In nome di Allah, vi siete

messi in pericolo;

Gabriella Giandelli

siete privi di coscienza”.

In un dibattito ci devono essere almeno due parti, e ben presto è intervenuto un altro poeta, Daaha Cabdi Gaas, prendendo le difese del governo e chiamando Weedhsame e Ganey traditori che negavano lo sviluppo economico del paese:

Nella mia mente e nel mio cuore spirituale

è come se ai poeti fosse stato detto

che la poesia ha lo scopo

di attaccare ingiustamente il governo;

sappiate che è una tragedia

e un guaio usare la poesia

come una lama affilata.

Dopo di lui un altro poeta ha impersonato un giudice che dava ragione a Weedhsame. Ben presto si sono moltiplicate le reazioni e i commenti al post. Weedhsame aveva riportato in vita una tradizione che risaliva ai suoi antenati: il dibattito poetico.

La poesia somala è quasi sempre metrica e allitterativa, con versi che ruotano intorno a una sola lettera. Il querelante usava la m, e chi interveniva doveva seguire quella struttura, tanto che il dibattito poetico prese il nome di Miimley (quello in m).

Mentre la diffusione delle catene precedenti, che dipendevano dalle cassette, era stata lenta e costante, quella del Miimley è stata fulminea. Nei due mesi seguenti Weedhsame si è occupato di coordinare la pubblicazione delle poesie, controllando che non ci fossero riferimenti a rivalità etniche prima di condividere le ultime reazioni sulla sua pagina Facebook.

“Abbiamo adottato la poesia come lingua per trasmettere questioni d’importanza vitale”, spiega Weedh­same. “Siamo ancora una società orale. Dipendiamo dalle parole recitate dai nostri poeti”.

Quando Radio Hargeisa fu lanciata, nel 1941, non aveva niente da mandare in onda. La poesia e la musica somale non erano praticamente mai state registrate, ma la necessità di avere una programmazione cambiò tutto. Secondo alcuni ricercatori, il 1941 fu l’anno in cui la poesia somala fu registrata per la prima volta. Prima ancora di trasmettere canzoni, Radio Hargeisa diffondeva poesia.

L’archivio dell’emittente – una stanza nel centro di Hargeisa, piena di scaffalature alte fino al soffitto – è di fatto un archivio della storia somala. Quando nel 1988 scoppiò la guerra civile, chi lavorava in radio si diede da fare per salvare l’archivio, trafugando le cassette fuori città o sotterrandole sotto l’edificio. Dopo la guerra, il nuovo ministero dell’informazione cominciò a raccogliere il materiale che trovò in città. Oggi, quelle cassette sono la più ampia col­lezione storica in possesso del governo del Somaliland.

Il Centro culturale Hargeisa si è invece dedicato a recuperare quelle sparse nel mondo. Le cassette tappezzano i muri del centro. L’archivista è una studente di 21 anni, Hafsa Omer, che cerca di tenere insieme gli studi di psicologia, l’impegno nella squadra di pallacanestro locale e il lavoro di catalogazione delle poesie e delle canzoni dei suoi antenati.

Nel Somaliland in cui è cresciuta Omer, la guerra era al centro di tutto. La vicina Somalia è stata a lungo considerata uno stato fallito dalla comunità internazionale. Il Somaliland offre poche opportunità a chi vuole produrre cultura. L’ascolto di quelle cassette ha aperto gli occhi a Omer. “Mi ero fatta l’idea che i somali non fossero svegli, che non fossero capaci di far cominciare qualcosa”, spiega. Scoprendo i dibattiti poetici che avevano agitato la generazione dei suoi genitori, ha cambiato idea. “All’epoca pensavano a noi, immaginavano il mondo come sarebbe stato dopo cinquanta o settant’anni”.

Dall’archivio online che ha costruito nel corso degli anni, Omer seleziona una cassetta. Comincia con una poesia, seguita dalla morbida cadenza di un conduttore radiofonico: “Sono Xasan Mohamed, e qui con me c’è Yusuf Shaacir per parlare delle poesie delSiinley”

Il poeta Yusuf Shaacir aveva imparato a memoria ogni testo del Siinley (quello in s), un dibattito poetico che si era svolto agli inizi degli anni settanta del novecento. Shaacir ricostruiva la storia di quel dibattito inframmezzandola di versi che conosceva a memoria. Il Siinley, spiegava, nacque spontaneamente da una canzone contenuta in uno spettacolo scritto da Cabdi Aadan Xaad, noto come Cabdi Qays. In quella canzone, Qays si chiede dove si trovi l’aldilà: nelle stelle, sulla terra, tra le montagne?

La canzone risvegliò qualcosa in Mohamed Ibrahim Warsame, detto Hadraawi, considerato il padre della poesia somala. Dal 1969 la Somalia, che all’epoca comprendeva il Somaliland, era governata da Mohamed Siad Barre, brutale dittatore che esercitava il suo potere attraverso un sistema chiamato “socialismo scientifico”.

Hadraawi interpretò l’aldilà su cui s’interrogava Qays come una forma di ricerca della libertà e della giustizia, una via di fuga dalla repressione. La canzone gli sembrava offrire lo spunto per una discussione sul governo, e decise di rispondere con una poesia.

Cominciò così uno scambio poetico tra Qays, che nel frattempo si era trasferito a Gibuti, e Hadraawi, che viveva a Mogadiscio, in Somalia. Ben presto il simbolismo e l’allegoria presero il sopravvento. “Io mi chiedo: è carne il tendine? È ricchezza la carità?”, scriveva Qays in uno dei testi. “Il dito medio è uguale al pollice?”. Evocava una storia raccontata dalle loro madri, che parlava di un cammello con una casa sulla groppa. Si chiedeva se i gemiti di dolore potessero dare vita a una canzone. Ben presto da Gibuti, Mogadiscio e Hargeisa venti poeti si unirono allo scambio, offrendo criptiche visioni personali sullo stato della nazione.

C’erano stati altri dibattiti poetici prima di allora. All’inizio del novecento la catena Halac dheere si era interessata all’etica dell’ospitalità tra due clan. Era durata quasi dieci anni, coinvolgendo otto poeti. In quei versi, uno dei clan era stato definito avido, cosa che aveva lasciato una macchia indelebile sulla sua reputazione. Qualche decennio dopo, la catena Guba (quello che brucia) aveva coinvolto due generazioni di poeti nell’arco di quasi trent’anni, ed era stata accusata di aver fomentato due guerre tribali. “La bocca è una lama tagliente”, avrebbe detto in seguito uno dei poeti.

Ma la catena del Siinley era diversa. I suoi versi erano talmente avvolti in simboli e codici che pochi capivano esattamente di cosa parlassero. Di amore? Di politica? Era una gara a chi possedeva il vocabolario più ricco? Perfino alcuni dei poeti sembravano non cogliere i temi su cui si esprimevano. Un partecipante paragonò le poesie a una tempesta di sabbia, confessando di non capirne l’esatto significato. Dietro il velo della metafora, toccavano gli argomenti più scottanti del momento, come l’unificazione del popolo somalo in una sola nazione.

Era tutto jaantaa rogan (che in somalo letteralmente significa scarpa rovesciata), cioè privo di direzione. Vent’anni dopo, ritrovandosi a una conferenza a Gibuti, quei poeti si sarebbero chiesti quale fosse il senso delle rispettive poesie. Ma nonostante quell’opacità, la dittatura aveva capito che una poesia dalle parole forti poteva minacciare il suo potere e le cassette furono rapidamente vietate.

Durante il programma, il conduttore osservava che, nonostante il caos, la repressione del governo aveva permesso di rivelare il vero senso di quelle poesie: “Molte persone pensano che il Siinley abbia aperto la strada alle critiche contro il governo”.

Hadraawi fu arrestato e messo in carcere, dove sarebbe rimasto cinque anni. Ma era troppo tardi. I cittadini somali ascoltavano le cassette al riparo sotto le coperte e le nascondevano nel tetto di casa prima di passarle ad amici. Erano “assetati di voci critiche verso il governo”, spiegava il poeta Shaacir durante l’intervista radiofonica.

“Ciò che dà senso a una poesia è la comunità che l’ascolta. E ogni comunità la interpreta secondo i suoi bisogni. Il Siinley era qualunque cosa servisse alla persona che lo ascoltava”. E poco dopo diede vita a un dibattito poetico così potente da rovesciare il governo.

Creare un archivio di tradizioni orali è un po’ come cercare di acchiappare le foglie mentre cadono da un albero. La sfida è stata raccolta da Abdirahman Yusuf Ducaale, il cronista non ufficiale del Somaliland. Tra la fine degli anni ottanta e la caduta di Barre nel 1991, Ducaale ha combattuto nella guerra per l’indipendenza del Somaliland, interrompendo il suo lavoro di raccolta per poi riprenderlo da ministro dell’informazione del nuovo governo.

La sua casa, in una zona tranquilla e sabbiosa di Hargeisa, è piena di fogli, ritagli di giornale, verbali di riunioni, fotografie, cassette e film. Ci sono perfino i bastoni che un tempo hanno sostenuto i leader del Somaliland. Una collezione che ripercorre a grandi linee la storia della nazione.

La produzione letteraria di Ducaale occupa un tavolino nel suo salotto: libri su poeti famosi e oscuri, sulla guerra e sulla pace. In questo momento sta dettando il suo ultimo volume a uno studente dato che, a 75 anni, la sua vista comincia ad annebbiarsi.

Quando Ducaale decide di scrivere un libro, comincia da zero. Per la biografia del suo poeta preferito, un contadino analfabeta di nome Timacadde, è andato di casa in casa, raccogliendo i versi imparati a memoria da chi viveva nel suo villaggio.

Cerca un video su YouTube e lo mette, accompagnando i versi. “Con una voce simile, Timacadde penetrava nelle orecchie della gente”, spiega. Ogni poeta aveva una melodia che lo contraddistingueva. Quando un poeta non aveva una voce abbastanza potente, poteva assumere dei cantanti professionisti per assicurare la diffusione dei suoi testi.

“Abbiamo usato la poesia in tempi di guerra, l’abbiamo usata in tempi di pace, l’abbiamo usata per combattere il colonialismo”, spiega Ducaale. “Per questo era in costante evoluzione”.

Per scrivere Deelley: una profezia che si è avverata, il suo libro sul più importante dibattito poetico del Somaliland, ha rintracciato tutte le decine di poeti coinvolti, inviandogli un questionario. I risultati della sua ricerca riempiono 468 pagine.

Quel dibattito cambiò il Somaliland per sempre. Nel 1979 il poeta Maxamed Xaashi Dhamac, noto come Gaarriye, pubblicò un testo intitolato Il tribalismo non offre alcun rifugio. La società somala è fondata su una serie di complessi alberi genealogici legati a cinque clan, i quali a loro volta discendono da due fratelli. Questo sistema alimenta conflitti e dinamiche politiche. Alla fine degli anni settanta, il governo di Siad Barre decise di contrastare il potere di quelle alleanze tribali lanciando un dibattito, e incaricò Gaarriye di avviarlo.

La poesia di Gaarriye, che in somalo comincia con la parola dugsi, diede il via a una catena allitterativa basata sulla lettera d. Una cinquantina di poeti contribuì alla catena, che fu ribattezzata Deelley (quello in d). In sei mesi le poesie arrivarono a essere quasi settanta e il governo ritirò il suo sostegno all’iniziativa.

A differenza di quel che era successo qualche anno prima con il Siinley, ora nessuno si nascondeva. Ben presto le poesie furono rivolte contro il governo.

“Per la prima volta le persone criticavano apertamente il regime”, ricorda Ducaale. Non volendo imprigionare i poeti, rischiando l’impopolarità, Barre organizzò una cerimonia di premiazione al teatro nazionale. Distribuendo medaglie, pensò, avrebbe fatto capire che il dibattito era finito. Il piano fallì: un anno dopo, il Deelley era ancora in corso. L’anno seguente, nel 1982, nacque il Movimento nazionale somalo, che sarebbe diventato la principale forza di opposizione durante la guerra civile scoppiata alla fine degli anni ottanta.

“Fu come una prova generale della lotta armata”, osserva Ducaale. “Un modo con cui le persone potevano provare a esprimersi davanti al dittatore e criticarlo”.

Oggi, i poeti più anziani ricordano l’epoca in cui poesia e politica cospirarono insieme per costruire una nuova nazione. Dopo una brutale guerra civile durata tre anni, nel 1991 la dittatura finì e il Somaliland si separò dalla Somalia per formare un suo governo. Alcuni poeti si fecero avanti per aiutare a risolvere antiche rivalità e trovare una strada verso la pace. Erano una decina, noti come i poeti della riconci­liazione.

Oggi Jamac Cali Xassan, detto Gaashaan-cade, ha i capelli grigi e cammina con un bastone. Ricorda i giorni in cui i leader tradizionali si riunirono per eleggere il primo presidente, mentre i poeti si riunivano per recitare i loro versi. Erano molto amati. I politici invitavano Xassan nelle loro case e le cassette con le sue poesie erano spedite ai somali della diaspora.

Quando la conferenza ufficiale sulla riconciliazione finì, gli fu chiesto di restare e registrare cassette. Passò più di due mesi seduto in una stanza a recitare a memoria le sue poesie mentre venivano registrate, anche dieci alla volta. “La poesia ci dice chi siamo, è la nostra letteratura, è la nostra cultura”, spiega. “Voglio che le persone usino questa cultura”.

I poeti del Somaliland sono guide con una responsabilità sociale pesante. Weedhsame, che oggi ha quarant’anni, sa che quasi nessuno presta attenzione alle lezioni della storia. Nella sua cultura, queste lezioni sono ancora trasmesse attraverso la poesia: le persone si rivolgono ai poeti per analizzare la società e rivelare ciò che è nascosto.

“Ogni poeta è in un certo senso un politico”, sostiene Weedhsame. “I poeti non hanno posizioni politiche ma sono le voci della società”.

I suoi predecessori speravano che le loro poesie si sarebbero diffuse naturalmente grazie alle cassette. Oggi Weedhsame condivide i suoi testi con le 314mila persone che lo seguono su Facebook. Scrivendole, si allontana dalla tradizione orale e al tempo stesso la preserva. E i suoi follower prestano attenzione.

Quando il Miimley si è concluso, oltre novanta poeti avevano contribuito con circa centoventi poesie ufficiali e no. Aveva coinvolto più poeti e prodotto più testi di ogni altro dibattito, molto velocemente. Circa sei mesi dopo, il Somaliland ha eletto un nuovo presidente. I candidati hanno discusso di corruzione, risorse naturali, riconoscimento internazionale, tutti temi sollevati dal dibattito poetico. Muse Bihi Abdi, che poi ha vinto, ha voluto perfino incontrare i poeti per parlare delle loro osservazioni.

Quel riconoscimento è stato una soddisfazione per Weedhsame. “Hanno capito che una generazione di giovani poeti è in grado di organizzarsi”, dice, “e che possiamo influenzare i voti della gente”.

Weedhsame sa che la corruzione contro cui si è battuto infesta ancora la politica, ma per lui quel dibattito ha ricordato ai politici che non possono ignorare la poesia. I poeti sono riusciti a lungo ad avanzare delle critiche, anche se mascherare le loro opinioni sotto forma di versi non sempre li ha protetti. Durante il regime autoritario di Barre, alcuni furono arrestati, uccisi. Altri ancora accettarono soldi dal governo e restarono in silenzio o aderirono alla linea del partito.

“La poesia permette alle persone di dire cose che altrimenti non potrebbero esprimere”, scrive Christina Woolner, un’esperta di poesia somala dell’università di Cambridge, nel Regno Unito, in uno studio sul Miimley di prossima pubblicazione. “E così crea uno spazio per un bilancio collettivo della sfera democratica del Somaliland di oggi e di domani”.

Ogni generazione porta un nuovo sguardo alle abitudini della generazione precedente, compreso il modo di fare poesia. Per catturare l’attenzione sempre più sfuggente delle persone, gli stili poetici di oggi prediligono versi più corti e dinamici. Anche le parole cambiano, ora che le tribù nomadi s’insediano nelle città e che i dialetti cedono il posto a una lingua più uniforme.

Ma ogni nuova poesia immette una cultura orale nel mondo moderno. Negli ultimi anni il governo del Somaliland ha represso la libertà di espressione imprigionando un gran numero di poeti e di giornalisti. La loro persecuzione ha però ispirato proprio quello che il governo sperava di soffocare: un dibattito poetico. È intitolato Liinta xoorka leh, dal nome di una bevanda servita ai detenuti nelle carceri del Somaliland, tra cui ci sono appunto poeti e giornalisti. Il dibattito non è durato a lungo, e non ha suscitato la stessa attenzione del Miimley, ma è stato un fatto nuovo e importante. Una nuova tappa in una lunga e onorata tradizione. ◆ fs

Nina Strochlic è una giornalista statunitense che racconta le migrazioni, i conflitti e le persone interessanti incontrate in tutto il mondo. Ha collaborato con National Geographic. Questo articolo è uscito sul giornale culturale statunitense Noēma con il titolo A country shaped by poetry.

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Questo articolo è uscito sul numero 1557 di Internazionale, a pagina 104. Compra questo numero | Abbonati