L’Iliade di Omero si apre con alcuni epici musi lunghi della Grecia antica. Agamennone, il re che guida la spedizione achea contro Troia, è costretto a restituire Criseide, la donna che ha avuto in premio dopo una battaglia. Infastidito, rapisce Briseide, la donna-trofeo di Achille, il più valoroso dei suoi guerrieri. Achille si lamenta che è ingiusto, gli annuncia che vuole tornare a casa e va a grandi passi verso la sua tenda. Va bene, risponde Agamennone. Vattene, tanto non mi sei mai piaciuto.

La maggior parte di noi non proverà mai la frustrazione di vedere il proprio trofeo umano confiscato da un re, ma il problema di Achille ha alcuni aspetti familiari. Potremmo essere una persona che tiene il broncio come lui. E probabilmente abbiamo avuto a che fare con il broncio di qualcun altro. Ma di cosa si tratta esattamente? Perché facciamo il broncio? E perché è considerata una cosa negativa?

Vediamo meglio in cosa consiste. Le persone mettono il broncio quando si sentono offese. A volte hanno davvero subìto un torto, ma altre sono solo amareggiate perché hanno perso. Prendiamo l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Dopo la sconfitta elettorale del 2020, in piena pandemia di covid-19, ha alimentato teorie del complotto infondate a proposito della frode che gli aveva tolto una vittoria legittima. Trump non aveva subìto alcun torto, ma questo non gli ha impedito di mettere il muso. In secondo luogo, chi mette il broncio reagisce alla sensazione di essere stato offeso chiudendosi in se stesso. Achille si rifiuta di combattere. Trump si è rifiutato di rispettare i doveri presidenziali. Il resto di noi può semplicemente rifiutarsi di parlare con chiunque ritiene lo abbia offeso. Ma la chiusura non comporta sempre il muso lungo. Perché succeda sono necessarie altre due condizioni. Una è il desiderio di punire: chi è imbronciato vuole che il suo atteggiamento crei problemi al suo destinatario, cioè alla persona che lo ha offeso. Può significare perdere una battaglia (come succede ad Agamennone quando Achille si rifiuta di combattere) o essere devastati da una malattia (come gli statunitensi quando Trump si è risentito) o subire lo stress di essere ignorati. Se non si arreca danno a qualcuno, imbronciarsi non dà nessuna soddisfazione. Non ha senso fare il broncio con qualcuno a cui non interessa comunicare con noi.

La seconda condizione necessaria per trasformare una chiusura in broncio è, sorprendentemente, comunicare con il destinatario. Il broncio funziona se facciamo capire a quella persona che siamo arrabbiati, risentiti con lei per averci fatto arrabbiare e che è suo compito rimettere le cose a posto.

Uno scopo comune

Ma dato che i musoni spesso si rifiutano di parlare con gli altri, come fanno a comunicargli qualcosa? Ci riescono perché non si comunica solo con le parole. Anzi, un’enorme quantità di quello che esprimiamo è di tipo non verbale. Pensate a come un semplice “grazie” può risultare sincero o meno, di cuore o sarcastico, a seconda del linguaggio del corpo e dell’espressione facciale di chi parla. Lo stesso vale per il cupo “niente” dell’imbronciato, quando gli si chiede cosa c’è che non va: non ammette esplicitamente che c’è un problema, ma il suo linguaggio del corpo e il suo comportamento esprimono l’esatto contrario. Per comunicare il turbamento in modo non verbale è importante che il destinatario sia in grado d’intuire che l’imbronciato ha qualcosa che non va. Per questo di solito teniamo il muso con persone che ci conoscono bene.

Spieghiamo meglio questo concetto. Come fa il destinatario a decifrare il broncio? Pensare a come comunichiamo più in generale può aiutarci a rispondere. Il filosofo del linguaggio Paul Grice sosteneva che le conversazioni sono “sforzi cooperativi” in cui i partecipanti hanno “uno scopo comune o almeno una direzione reciprocamente accettata”. Considerarci comunicatori cooperativi ci permette di dare un senso ai contributi alla conversazione che, a prima vista, sembrano irrilevanti o privi di senso. Se ti chiedo: “Ci vediamo per un caffè domani?”, e tu rispondi: “Mi dispiace, mia figlia ha una visita in ospedale”, a prima vista la tua risposta non sembra pertinente. Ma non abbiamo problemi a capire risposte come questa. Partendo dal presupposto che tu stia collaborando al nostro obiettivo condiviso di arrivare a una risposta alla domanda, non interpreto le tue parole come un’informazione irrilevante, ma come un’indicazione del fatto che non potrai prendere un caffè con me, una spiegazione del perché e un’espressione di rammarico. Questo rifiuto indiretto, apparentemente ambiguo e poco pertinente al mio invito finisce per dirmi qualcosa di più di un “no” diretto e conciso.

Anche il broncio è una forma di comunicazione indiretta. Se l’imbronciato volesse comunicare direttamente quello che esprime indirettamente, potrebbe dire qualcosa come: “Sono turbato dal tuo comportamento e mi sentirò meglio solo se risolverai il problema che hai creato e mi consolerai”. Ma questa verbalizzazione comporta alcuni potenziali svantaggi. Uno è che l’imbronciato comunicherebbe (indirettamente) che è disposto a discutere del motivo per cui è arrabbiato, cosa che non intende fare, soprattutto perché l’altro potrebbe mettere in dubbio che il suo comportamento è giustificato e risentirsi a sua volta. Il rifiuto della comunicazione verbale, invece, consente di esprimere indirettamente il proprio turbamento e la mancanza di disponibilità a parlarne. Un broncio riuscito spinge il destinatario a soddisfare le richieste dell’imbronciato senza discutere. Naturalmente, questo presuppone che il primo interpreti correttamente la comunicazione indiretta dei sentimenti e dei bisogni del secondo. È qui che entrano in gioco le riflessioni di Grice sulla cooperazione: partendo dal presupposto che l’imbronciato sia un comunicatore cooperativo nonostante la chiusura, il destinatario deve decifrare quello che sta cercando di dirgli fingendo di non voler comunicare.

Come un incantesimo

Il desiderio di non essere interrogato sui propri sentimenti non è l’unico motivo per cui l’imbronciato si rifiuta di comunicare direttamente. Nel suo libro Il corso dell’amore (Guanda 2017) il filosofo britannico Alain de Botton spiega il fascino del broncio in termini di “promessa di tacita comprensione” di cui abbiamo goduto da bambini, quando i nostri bisogni erano anticipati e soddisfatti senza che dovessimo esprimerli.

De Botton scrive: “Questo potrebbe essere il motivo per cui in un rapporto, anche il più eloquente tra noi può istintivamente preferire di non spiegarsi per vedere se il partner sa capirlo. Solo una lettura della mente precisa e senza parole è un vero segno del fatto che è una persona di cui ci si può fidare. Solo quando non dobbiamo spiegarci possiamo sentirci sicuri di essere veramente compresi”.

Valerie Phillips, Trunk archive

Tuttavia, l’espressione diretta dei sentimenti dell’imbronciato non è l’unica cosa a essere fuori discussione. Nessuna delle due parti dovrebbe fare cenno al broncio, che è come un incantesimo che si rompe se è nominato. Un accenno comprensivo del destinatario – per esempio “Ah, ci sei rimasto male, vediamo che posso fare” – rischia di dare un nuovo motivo per imbronciarsi. Neanche l’imbronciato può parlare in modo esplicito del suo stato d’animo, almeno fino a quando è passato. Non puoi tenere il muso con successo se annunci in anticipo che lo farai. Annunciare il bisogno di chiudersi in se stessi è esattamente il tipo di comunicazione sana, chiara, verbale che molti preferiscono al broncio. Per De Botton, il broncio finisce e “non se ne parla più” dopo che l’immusonito dice qualcosa come: “Sono uno po’ arrabbiato, perdonami”.

Non voler esprimere esplicitamente i propri sentimenti contribuisce a suscitare frustrazione nel destinatario. Questo è curioso, perché in altri contesti il rifiuto di comunicare esplicitamente è più che tollerato o perfino ben accetto. Prendiamo, per esempio, la situazione di chi flirta. Cercare di capire se l’attrazione per un’altra persona è ricambiata può essere una componente eccitante del conoscersi. In queste circostanze comunicare esplicitamente il proprio interesse – dicendo frasi come “mi piaci e spero che faremo sesso il prima possibile” – rischia di smorzare qualsiasi attrazione. Più in generale, la gentilezza spesso richiede una comunicazione indiretta, come sostenevano i linguisti Penelope Brown e Stephen C. Levinson negli anni ottanta (la frase “mi dispiace, mia figlia ha una visita in ospedale” è un modo più educato per rifiutare l’invito a prendere un caffè rispetto a un no diretto).

Se la comunicazione indiretta e ambigua è desiderabile dipende da quello che vogliamo ottenere dall’interazione. Quando abbiamo fretta di prendere un treno e chiediamo il binario a un ferroviere, vogliamo una risposta chiara e precisa. Il destinatario del broncio è simile a chi deve prendere un treno più che a chi flirta: c’è un problema da risolvere e questo rende la mancanza di comunicazione esplicita più frustrante che piacevole.

Dato che gli imbronciati spesso si rifiutano di parlare con gli altri, come fanno a comunicargli qualcosa?

Ma non è solo avere un problema da risolvere a rendere sgradevole che ci mettano il broncio. Avere qualcuno che ci tiene il muso ci fa letteralmente soffrire. La psicologa Naomi I. Eisenberger e i suoi colleghi hanno scoperto che “l’esclusione sociale” provata dalla persona presa di mira quando l’imbronciato si chiude in se stesso attiva le stesse aree del cervello che si attivano con il “dolore fisico”. Kipling Williams, che ha lavorato con Eisenberger e studia l’ostracismo da decenni, osserva che “il silenzio” è “altamente efficace per far star male la persona presa di mira”. La sgradevolezza di essere oggetto di un broncio motiva il destinatario a impegnarsi per risolvere la questione. E questo è conveniente per l’imbronciato.

Tenere il muso, sapendo che la persona presa di mira collaborerà per risolvere la situazione, è un modo di esercitare il potere. Williams osserva che il silenzio è “un sistema di controllo efficace perché impedisce a entrambe le parti di intervenire. Una persona lo impone all’altra, e quella non può farci nulla”. Che il destinatario debba trovare una soluzione senza l’aiuto dell’imbronciato è importante. Per i problemi che nascono nei rapporti tra familiari, amici o partner – come il risentimento, la gelosia e la sensazione che i propri bisogni non siano soddisfatti – essere in grado di esprimere cosa non va è una parte essenziale nella ricerca di una soluzione. E dato che questi sono esattamente i tipi di rapporto in cui chi tiene il broncio ha più probabilità di trovare un destinatario collaborativo, ne consegue che i musi lunghi sono più comuni proprio in reazione ai problemi in cui la soluzione richiede una comunicazione efficace. Più le circostanze sono favorevoli al broncio, maggiore è l’ostacolo che questo rappresenta per la soluzione. Non c’è da meravigliarsi se troviamo così frustrante esserne il destinatario.

Questo chiarisce il motivo per cui consideriamo il muso lungo un atteggiamento infantile. I bambini spesso incontrano problemi che per capacità o esperienza non possono risolvere da soli, e mettendo il broncio si aspettano che chi si occupa di loro offra conforto e assistenza. Man mano che crescono, sono incoraggiati a usare le parole per comunicare quello che non va e a pensare a come migliorare le cose. Il muso lungo, a quanto pare, è per le persone che stanno apprendendo le abilità di base della vita. Gli adulti dovrebbero sapere che non possono chiedere a qualcuno di risolvere pazientemente i loro problemi.

Uno strumento utile

Ma, forse, chi mette il broncio non fa un buon affare. A volte tiene il muso perché ha la sensazione di non avere un’alternativa migliore. Come osserva la psicoterapeuta Catriona Wrottesley, il broncio “spesso funziona come difesa dalle possibili conseguenze di esprimere a parole sentimenti e bisogni o di affermarsi”. Oltre a evitare che il proprio stato d’animo sia messo in discussione, il broncio attribuisce potere a chi altrimenti sarebbe dipendente e vulnerabile. Nel suo libro Con te non parlo più. L’arma del broncio nei rapporti interpersonali (Calderini 1995), lo psicoterapeuta Windy Dryden traccia il profilo di dieci donne – la maggior parte casalinghe – che adottano questo comportamento. Una osserva: “Ti senti come un bambino davanti a un genitore, non puoi mai vincere. Il broncio, invece, ti conferisce una sorta di status, di potere”. Per chi non ha autonomia finanziaria o di altro tipo, imbronciarsi può essere una delle poche strategie disponibili per veder soddisfatte le proprie necessità.

Tenere il muso, sapendo che la persona presa di mira collaborerà per risolvere la situazione, è un modo di esercitare il potere

Anche il filosofo scozzese del settecento David Hume faceva un’osservazione simile: “In molti paesi le donne sono ridotte a una specie di schiavitù e non gli è concesso di possedere nulla, diversamente dai loro signori e padroni. Ma anche se i maschi, quando sono uniti, hanno la forza fisica sufficiente a mantenere questa rigida tirannia, con il loro modo di insinuarsi, di parlare e di esercitare il proprio fascino, le loro compagne sono generalmente in grado di rompere questa alleanza e condividere con l’altro sesso tutti i diritti e i privilegi della società”.

Dato che il broncio è una strategia attraverso la quale chi è impotente può soddisfare i propri bisogni, è strano che ci dia così fastidio. Non ci sono terapeuti o rubriche che lo incoraggiano. Un’eccezione è una riflessione sul Washington Post nel 1982 dell’esperta di galateo Miss Manners (alias Judith Martin) che definiva il broncio un “utile strumento sociale”, “la vendetta ideale di una persona teoricamente impotente su una presumibilmente potente”. Ma il tono della sua rubrica, in cui riportava i consigli di un’anonima “giovane esperta di broncio”, era in genere ironico. Forse l’impopolarità di questo atteggiamento deriva dal fatto che il potere che conferisce ha un prezzo alto: chi mette il broncio e si rifiuta di comunicare è in una posizione di vantaggio per contrattare, ma è difficile contrattare senza comunicare.

Finora ho dipinto il broncio come una richiesta di aiuto per risolvere un problema, ma in alcuni casi non è così. Costringendo il destinatario a sentirsi in obbligo di “fare ammenda”, il muso lungo può essere usato per minacciare e manipolare. Wrottesley osserva che può “essere una forma di controllo coercitivo” sia nei rapporti sentimentali sia in quelli genitore-figlio. Il controllo coercitivo – che nel Regno Unito e più di recente anche in California, negli Stati Uniti, è considerato un reato – è definito dall’organizzazione benefica Women’s aid un comportamento “che mira a rendere qualcuno dipendente isolandolo, sfruttandolo, privandolo dell’autonomia e regolando il suo comportamento”. Chi mira a questo tipo di controllo non mette il broncio per risolvere un problema ma per dominare e terrorizzare.

La posta in gioco

Il broncio funziona perché la comunicazione è complessa e la realizzazione dei nostri obiettivi spesso dipende sia da quello che comunichiamo sia da come lo facciamo. Questo non è sempre riconosciuto nelle culture che apprezzano una comunicazione chiara, trasparente, in cui tutto quello che vale la pena di dire va detto esplicitamente. La nostra disapprovazione per il broncio dipende in parte dal fatto che è una strategia indiretta, ma anche dalla posta in gioco, che è molto alta. Dopotutto, le battaglie relazionali sono regolarmente combattute e vinte o perse attraverso il muso lungo.

Come in altre forme indirette di comunicazione, davanti al broncio è difficile capire cosa sta succedendo. Lo riconosciamo quando lo vediamo, ma è difficile definire cos’è, come funziona, perché lo facciamo e così via. La nostra limitata comprensione rende difficile stabilire cosa sia un comportamento corretto in questi casi. Qual è la differenza tra un broncio fastidioso ma genuino e rispettoso, e uno minacciosamente manipolatorio? E come può il destinatario capire che tipo di broncio ha di fronte, dato che l’altro non vuole parlare?

Accettare di essere il destinatario cooperativo di un broncio richiede, oltre a tanta pazienza, la fiducia incondizionata che l’altro sia corretto e non ci stia manipolando. Spesso questo si accompagna al timore che l’imbronciato ci stia solo prendendo per scemi. ◆ bt

Rebecca Roache insegna filosofia alla University of London, nel Regno Unito. Si occupa di filosofia applicata e conduce il podcast The academic imperfectionist.

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Questo articolo è uscito sul numero 1515 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati