Il pomeriggio in cui scoprii Ver­meer stavo curiosando tra i libri e le pubblicazioni accatastate sugli scaffali di casa mia a Lagos, in Nigeria. Avevo quattordici o quindici anni. Tra i ricordi degli studi universitari dei miei genitori (opere teatrali nigeriane, storie francesi) avevo trovato la relazione annuale di una multinazionale. Non so che azienda fosse, ma doveva avere qualcosa a che fare con gli alimenti o le bevande, perché sulla copertina c’era un dipinto con dei contadini su un grande campo di grano e sul retro il ritratto di una donna che versava del latte.

Mi ricordo la quiete di quel pomeriggio e il fascino esercitato su di me da quei dipinti che sembravano trasfigurare l’ambiente intorno a me. Appresi dalle didascalie che i quadri erano Mietitura di Pieter Bruegel il Vecchio e Lattaia di Johannes Ver­meer. All’epoca questi nomi mi erano nuovi, ma ero già un insaziabile studente di arte e ne sapevo abbastanza per capire quando qualcosa mi colpiva. Il dipinto di Ver­meer, in particolare, era un vero mistero. Non avevo mai visto un muro così ben dipinto o una figura umana posizionata in modo così convincente in uno spazio pittorico. E tutto era soffuso di una luce che lo rendeva più simile alla vita che a un dipinto. Sapevo di guardare qualcosa di alieno e seducente, ambientato in un mondo radicalmente diverso da quello tropicale in cui vivevo.

Un quadro di Ver­meer è un’opera immersa nel caos del mondo, il mondo in cui è stata realizzata e il mondo di oggi. Quella che prima era solo una superficie diventa un portale

Sono ancora commosso dal miracolo silenzioso di quel pomeriggio. Il mio rapporto con l’arte, però, è cambiato: adesso cerco quello che mi mette a disagio. Un quadro di Ver­meer non è più semplicemente “alieno e seducente”. È un’opera inesorabilmente immersa nel caos del mondo, il mondo in cui fu realizzata e il mondo di oggi. Guardare i quadri in questo modo non li rovina ai miei occhi, semmai li apre: quella che prima era solo una superficie diventa un portale che rivela altre cose che ho bisogno di sapere.

La scorsa primavera sono andato di nuovo a guardare la Lattaia, al Rijksmuseum di Amsterdam, tornando, 33 anni dopo quel pomeriggio a Lagos, all’umiltà di questa donna, alla sua solidità, alla consuetudine del suo lavoro domestico. Amo il quadro – e amo lei – come la prima volta. È questa figura che ha ispirato la poesia Ver­meer di Wisława Szymborska (tradotta dal polacco da Pietro Marchesani): “Finché quella donna del Rijksmuseum / nel silenzio dipinto e in raccoglimento / giorno dopo giorno versa / il latte dalla brocca nella scodella, / il mondo non merita / la fine del mondo”.

Lattaia (GL Archive/Alamy)

Un’acclamatissima mostra che si è tenuta al Rijks­museum da febbraio a giugno è riuscita a mettere insieme la più grande collezione di sempre di dipinti del maestro di Delft: 28 sui circa 35 superstiti che gli vengono generalmente attribuiti. L’impresa è stata il frutto tanto del coordinamento degli organizzatori quanto della generosità di chi ha prestato le opere: difficilmente, nei prossimi anni, rivedremo una collezione del genere.

Ma io non avevo voglia di visitare la mostra, per una serie di motivi. I biglietti disponibili, circa 450mila, erano andati esauriti in poche settimane, e anche se ero riuscito a procurarmene uno, le sale sarebbero state sicuramente affollate. Inoltre, ero scettico su uno sguardo così brutalmente ristretto: un dipinto di Ver­meer, poi un altro, poi un altro ancora. Di solito le mostre riuscite offrono un contesto più ampio. Ma quello che stava davvero cominciando a darmi sui nervi era il plauso incondizionato della critica. Ver­meer, ormai, è un nume che riassume l’eccellenza artistica e gran parte degli elogi mi sembravano una scorciatoia emotiva. Grandezza, perfezione, sublimità: il vocabolario appropriato per un certo tipo di esperienza culturale. Chi ha visto la mostra è stato invidiato da chi non l’aveva vista. Il fatto che fosse un’esperienza “che si fa una volta sola nella vita” era preso come verità assoluta. Eppure, quanti dei nostri incontri più indimenticabili con l’arte avvengono in piccoli musei in giornate tranquille? Quale momento, pienamente vissuto, non è “una volta sola nella vita?”. L’idea che quei quadri fossero meravigliosi si era in qualche modo confusa con il dogma che fossero meravigliosi e basta. Era difficile sentire voci contrarie a questo consenso entusiasta e unanime.

Poi, però, alcuni amici olandesi hanno trovato il modo di farmi entrare, fiaccando la mia determinazione. Martine Gosselink, direttrice del Mauritshuis dell’Aja (il museo in cui è conservato Ragazza con l’orecchino di perla e uno degli istituti che avevano contribuito di più alla mostra) mi ha invitato a visitare il Rijksmuseum con lei dopo l’orario di chiusura. A quel punto sarebbe stato assurdo rifiutare. Nel tardo pomeriggio del 13 marzo sono entrato nel museo insieme a un amico. Gli ultimi visitatori erano stati accompagnati fuori, ed eravamo rimasti solo noi tre fortunati a goderci i 28 Ver­meer.

Donna con collana di perle (Incamerastock/Alamy)

Ver­meer non era prolifico: si ritiene che abbia realizzato in tutto 42 dipinti. È ragionevole pensare, come hanno fatto per anni gli storici dell’arte, che questa lentezza nella produzione fosse dovuta a una tecnica particolarmente meticolosa. I raggi X e le immagini a infrarossi, tuttavia, evidenziano una sottopittura veloce e pochissimi disegni preparatori. Cosa faceva Ver­meer nel resto del tempo? Primo, era anche mercante d’arte, un mestiere che aveva ereditato dal padre. Secondo, era padre di quindici figli (undici dei quali gli sopravvissero): la casa doveva essere molto rumorosa. Sullo sfondo di questo probabile rumore, Ver­meer sfornava due o tre quadri all’anno, uno più sbalorditivo e magistrale dell’altro. Quadri che sembrano fare cose con la luce che nessun quadro aveva mai fatto prima. Lo storico dell’arte britannico Lawrence Gowing ha parlato di una sorta di noncuranza del soggetto, una fedeltà alla pura apparenza: “Sembra quasi che a Ver­meer non importi cosa sta dipingendo, o addirittura non lo sappia. Come si chiama questo cuneo di luce? Un naso? Un dito? Cosa sappiamo della sua forma? Per Ver­meer tutto ciò non ha importanza, il mondo concettuale dei nomi e della conoscenza è dimenticato, niente lo preoccupa tranne ciò che è visibile, il tono, il cuneo di luce”.

Ci fermiamo davanti a Donna in azzurro che legge una lettera, un quadro magnifico. La pittura gioca su una gamma ristretta di tonalità: la parete è biancastra con sfumature azzurre; la grande cartina delle regioni dell’Olanda e della Frisia occidentale è marrone chiaro con un accenno di verde; le due sedie ai lati della donna hanno file di borchie di ottone luccicante che tengono tesa l’imbottitura blu scura. Una sedia è più grande dell’altra, più vicina a noi, mentre l’altra è distante e in mezzo c’è lo spazio occupato dalla donna, in piedi. Indossa una giacca blu e una gonna verde oliva. Tutti i colori sono talmente smorzati che sembrano ricordati anziché dipinti. La donna, di profilo, profondamente assorta, gli occhi bassi e sognanti, tiene la lettera con entrambe le mani. Ha un nastro nei capelli. Indossa una beddejak, una giacca da casa scampanata. È incinta. Alcuni studiosi mettono in dubbio quest’ultimo punto, oppure dicono che non possiamo saperlo. Ma gli studiosi li interpelliamo perché ci spieghino ciò che non riusciamo a vedere, non ciò che è evidente.

Cosa le ha scritto il suo uomo? Perché sicuramente è un uomo, e sicuramente è il padre del suo bambino. La donna ha le labbra dischiuse. La mappa, il primo mattino, la lettera che ha viaggiato nella notte: una narrazione prorompe dal silenzio della scena. È in corso un dramma, se non un melodramma. Immaginiamo una presenza lontana, la cui lontananza è immaginata da quest’altra presenza, la donna che è stata lasciata indietro. Forse la presenza lontana è un soldato, o un marinaio. Il dorso dello schienale della sedia a sinistra proietta ombre soffici e bluastre sulla parete. La finestra da cui entra la luce è implicita, non rappresentata, e la luce si posa sulla fronte della donna e sulla distesa acquamarina dolcemente rigonfia della sua beddejak. Le pennellate sono precise ma non pignole, un cuneo di luce qua, un altro là. Il nostro respiro collettivo di spettatori è sospeso perché non vogliamo interrompere quello che sta succedendo. La donna aspetta il ritorno del suo uomo, aspetta che nasca il suo bambino, mentre il pittore, dopo aver lavorato al cavalletto ogni mattina, è in attesa del mattino dopo, e poi di quello dopo ancora, di quelle ore propizie, finché l’opera non sarà completata. Gowing ha ragione a dire che Ver­meer è un pittore della luce. È anche un finissimo pittore del tempo.

Donna che scrive una lettera (Incamerastock/Alamy)

Adesso, però, cerchiamo quello che ci mette a disagio. In tutta l’opera di Ver­meer ci sono oggetti, come quelli in Donna in azzurro che legge una lettera, che ci ricordano la vastità del mondo. Il mondo di Ver­meer stava emergendo dopo la lunga lotta dei Paesi Bassi per l’indipendenza dalla dominazione spagnola. Durante la guerra degli ottant’anni e immediatamente dopo, gli olandesi avevano stabilito delle basi commerciali in Asia, in Africa e nelle Americhe. Il capitalismo stava fiorendo in patria e all’estero, creando le premesse di un impero coloniale. Il fatto di essere stati soggiogati non aveva mitigato il desiderio di soggiogare gli altri. La Compagnia olandese delle Indie orientali dominava le vie marittime e i suoi azionisti ne raccoglievano i profitti. La Compagnia olandese delle Indie occidentali, parallelamente, era diventata una potenza nel commercio degli schiavi. I cittadini comuni olandesi si arricchivano grazie a queste imprese criminali. Con un senso rinnovato del loro posto nel mondo, riempivano le loro case di oggetti rari e abiti stravaganti. Potevano possedere cose lussuose e farle ritrarre nei quadri. I dipinti erano preziosi promemoria della loro mortalità, sì, ma anche della loro ricchezza.

Nel suo perspicace saggio Il cappello di Ver­meer (2008), lo storico Timothy Brook ricostruisce la provenienza globale di alcuni oggetti che vediamo nei dipinti di Ver­meer. Secondo lui, per esempio, l’argento sul tavolo in Donna con una bilancia veniva probabilmente dalla famigerata miniera d’argento di Potosí, un posto infernale mandato avanti grazie al lavoro degli schiavi che faceva parte del vicereame del Perù (oggi Bolivia). Il feltro che riveste il cappello dell’ufficiale in Soldato con ragazza sorridente veniva quasi certamente dalle pelli di castoro acquistate con la violenza dagli avventurieri francesi attraverso le reti commerciali del Canada del seicento. Brook stabilisce un collegamento tra questa spensierata scena di genere e l’amaro inverno della fame del 1649-1650, quando la brama europea di pelli portò a espulsioni, guerre e alla strage dei bambini indiani huron.

Donna in azzurro che legge una lettera (Peter Horree, Alamy)

La beddejak in Donna in azzurro che legge una lettera, mi dice Martine Gosselink, è dipinta con il blu oltremare, il più raro e costoso dei pigmenti di blu tra quelli che avrebbe potuto procurarsi un pittore olandese nel seicento. Il blu oltremare era ricavato dal lapislazzuli, importato in Europa occidentale dalle miniere afgane: veniva letteralmente dall’altra parte del mare. È possibile che l’uso di un pigmento così costoso permettesse a Ver­meer di dare un maggiore prestigio e un prezzo più alto ai suoi dipinti. Ed è possibile che il pittore apprezzasse l’associazione con dipinti di epoche precedenti, in cui si usava colorare il manto della Vergine Maria di azzurro. L’effetto del blu oltremare è abbagliante, emozionante. Ma chi estraeva i lapislazzuli dalle miniere dell’Afghanistan, e in quali condizioni di lavoro?

Ogni opera d’arte è la testimonianza delle circostanze materiali in cui è stata prodotta. Le migliori sono più che testimonianze. Dentro una cornice, dentro un grande dipinto, coesistono complicità e trascendenza. È questo che ho pensato quando ho visitato il Rijksmuseum. La mostra non affrontava nessuna di queste questioni e il catalogo, compilato in modo scientifico e approfondito, l’avrei letto solo qualche tempo dopo. Quel pomeriggio, però, sono stato a pranzo con Valika Smeulders, la responsabile del dipartimento di storia del Rijksmuseum. Smeulders era stata una delle curatrici di Schiavitù, una mostra epocale organizzata dal museo nel 2021 che riuniva reperti presi dalle collezioni dello stesso Rijksmuseum e da molte altre fonti. C’erano dipinti, stampe, disegni e documenti, ma anche campane provenienti dalle piantagioni, ceppi per le caviglie, un collare di ottone, un ferro per la marchiatura con uno stemma (probabilmente della Compagnia olandese delle Indie occidentali) e un calice cerimoniale usato dagli schiavisti per i brindisi. I visitatori del museo di Amsterdam, abituati a ricostruzioni più vanagloriose della loro storia nazionale, erano stati messi di fronte alla brutalità quotidiana delle piantagioni della Batavia, del Sudafrica e delle isole Banda, e alle testimonianze di alcune delle centinaia di migliaia di persone ridotte in schiavitù dagli olandesi.

Uno dei dipinti esposti alla mostra era di Pieter de Wit, che fu probabilmente allievo di Rembrandt. Il quadro ritrae il direttore generale della Costa d’Oro olandese, un certo Dirk Wilre, in un interno sfarzoso del castello di Elmina, nell’attuale Ghana. De Wit non è un pittore all’altezza di Ver­meer, ma mi hanno colpito i particolari che il suo dipinto ha in comune con Geografo, realizzato dal pittore di Delft nello stesso anno, il 1669: l’unica finestra aperta sulla sinistra, il vetro piombato, il mappamondo, il tappeto dal motivo elaborato sul tavolo. A differenza del Geografo, però, nel quadro di de Wit ci sono altre due figure. Una è una donna: nera, nuda fino alla cintola, piegata su un ginocchio, chiaramente in una posizione di asservimento. Se le pantofole sul pavimento sono sue, allora l’asservimento è anche sessuale. La donna inginocchiata offre a Wilre un dipinto con un paesaggio in cui si vede il castello di Elmina. Il suo corpo e la sua terra. La brutalità è esplicita.

Soldato con ragazza sorridente (Archivart/Alamy)

La mostra di Ver­meer al Rijksmuseum era piena di quadri magnifici, molti realizzati nella metà degli anni 1660, quando la carriera del maestro era all’apice. In quegli anni Ver­meer produsse una serie di opere immortali, spesso variazioni sul tema della donna in un interno silenzioso, sola, vestita con una beddejak dall’orlo di pelliccia. In Donna con una bilancia, la donna è incinta e la stanza è più buia del solito, illuminata principalmente dalla luce del sole che fa capolino dalla tenda color giallo limone. I piatti che tiene sospesi sono vuoti: sta bilanciando, non sta pesando. Sul tavolo di fronte ci sono monete d’oro e d’argento e perle, e alle sue spalle c’è un dipinto del giudizio universale. In un altro dipinto, Donna con collana di perle, la protagonista è in piedi di profilo e guarda davanti a lei. Troviamo la stessa tenda gialla, ora scostata per far entrare la luce soffusa. Su quel lato, nell’ombra, c’è un vaso blu scuro di porcellana, il cui riflesso aspro contrasta, sulla destra, con il giallo tenue – un giallo leggermente più freddo di quello della tenda – della sua beddejak. Donna che scrive una lettera è un’altra orchestrazione di gialli e blu. Non sappiamo chi sia questa donna di tanto tempo fa; non sappiamo chi sia nessuna di loro, e probabilmente non lo sapremo mai. Anche lei indossa la giacca gialla (i pochi oggetti di scena di Ver­meer ricorrono come gli attori preferiti di un drammaturgo). È seduta allo scrittoio e ci guarda direttamente con quella che sembra autentica comprensione umana. È un quadro stupefacente, parte della collezione della National Gallery di Washing­ton. L’avevo già visto, ma non l’avevo mai osservato attentamente. Ecco perché, alla fine dei conti, si va nei musei: per l’opportunità di imparare a vedere di nuovo, per vedere la bellezza e ciò che ci mette a disagio. E sì, alla mostra c’era anche Ragazza con l’orecchino di perla, una visione sbalorditiva e immediata. Nel contesto era solo un’altra vetta di una grande catena montuosa. Ma che catena montuosa, e che vetta!

Mentre stavamo per uscire dalla mostra, sono tornato indietro per piazzarmi di nuovo davanti al dipinto che mi aveva sorpreso di più: Donna che scrive una lettera. Nel suo sguardo c’è un’ombrosa complessità, un sorriso lieve; sulle iridi due puntini bianchi (mi sembrava molto più vera di quanto mi sia mai sembrata la Gioconda). Altri punti di luce bianca spuntano sui suoi enormi orecchini di perla. Se vere, le perle dovevano essere state raccolte nel golfo di Mannar, tra lo Sri Lanka e l’India di oggi. La donna stringe nella mano destra una penna d’oca, staccata dal foglio. Sotto, una striscia di colore delinea perfettamente una pila di carta bianca. La preziosa scatola da scrittura, di diversi tipi di legno e con borchie tonde di metallo, viene probabilmente da Goa, allora sotto il dominio portoghese. Fatta da chi? In quali condizioni di lavoro? Dietro la donna c’è un dipinto di una viola da gamba, una musica muta che suggerisce o conferma il tema amoroso del quadro. Ma se il suo amante è assente, chi l’ha interrotta? A chi sta sorridendo con tanta gentile familiarità?

Allo spettatore. Questo sguardo rapisce il nostro da secoli, sospendendo il tempo al nostro posto. Non c’è una sola linea di disegno nel dipinto, solo strati di pittura accostati, chiazze di colore che sfumano l’una nell’altra come se osservate attraverso l’obiettivo di una vecchia macchina fotografica che si rifiuta di mettere a fuoco. La morbidezza della Donna che scrive una lettera è così pervasiva che è come se il quadro fosse sul punto di dissolversi.

Una mattina dopo l’altra, Ver­meer si siede davanti al cavalletto, mentre fuori infuria il mondo, un mondo dove le persone s’inchinano in segno di sottomissione, dove vengono marchiate con un ferro rovente. Appena fuori della sua porta c’è il cognato violento che minaccia di picchiare le donne della casa. Ma i quadri sono permeabili a questi problemi esterni, anzi sono in continuità con essi. Questi soldati appassionati non stanno giocando a mascherarsi. Combattono e uccidono. Passiamo in rassegna l’opera di Ver­meer cercando invano una semplice famiglia felice, una madre, un padre, un bambino nella pace domestica. E invece no: il mondo di questi quadri è poetico e lirico, ma è anche spezzato, vulnerabile, isolato e ansioso. I dipinti di Ver­meer (così come quelli degli altri; le implicazioni di questa tesi non si limitano a lui) non possono essere presi come semplici decorazioni o capolavori di tecnica. Contengono la consapevolezza del dolore e sono in grado di sopportare un contesto più onesto di quello che spesso gli concediamo. Ridurli a spot pubblicitari della bellezza, a simboli fluttuanti di cultura ed eleganza, gli rende un disservizio. Nel loro lungo viaggio attraverso le epoche, i dipinti di Ver­meer portano con sé consolazione e terrore. E finché le cose stanno così, il mondo non merita ancora la fine del mondo. ◆ fas

Teju Cole è uno scrittore e fotografo statunitense di origine nigeriana. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è L’estraneo e il noto. Entusiasmi, incontri, letture, fotografie (Contrasto 2018). Questo articolo è uscito sul New York Times con il titolo Seeing beyond the beauty of a Ver­meer.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1532 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati