Penso spesso agli adolescenti. Mia figlia è una di loro, e naturalmente lo sono stata anch’io – in un mondo diverso e in un momento diverso – e ricordo come mi sentivo. Era tutto estremo. Lo è ancora. Quattro ondate di femminismo, la connettività digitale, la ricerca del benessere personale, l’ordine di “essere gentili”, il solito “vedrai che poi va meglio”: niente di tutto questo sembra scalfire l’infelicità adolescenziale, soprattutto quella che ho conosciuto io. L’estate scorsa, vedendo le ragazze radunarsi fuori dai cinema, indecise tra Barbie e Oppenheimer, ho pensato: sì, questo rende bene l’idea. Da una parte una fragile, impossibile perfezione, dall’altra l’apocalisse. Non ho mai dimenticato gli anni in cui oscillavo fra quei due estremi, e c’è stato un periodo in cui credevo che l’intensità dei miei ricordi adolescenziali mi rendesse diversa dagli altri, che fosse addirittura alla base della mia propensione per la scrittura. Ho smesso di pensarlo molto tempo fa, agli albori dei social network. Friends Reunited, Facebook. A quanto pare ci sono milioni di persone che sentono di non aver mai vissuto così intensamente come in quella particolare estate. “Se la me stessa adolescente potesse vedermi ora, rimarrebbe disgustata!”, ho detto qualche anno fa all’analista. Lei ha risposto: “Perché dai per scontato che la te stessa quindicenne sia l’arbitro della verità?”. È una giusta osservazione, che però non mi ha impedito di portarmi dietro quella versione di me stessa ovunque andassi. A questo punto credo che non me ne libererò mai.

Alla me stessa adulta sono successe molte cose interessanti, ma secondo la me stessa adolescente l’unico fatto importante della nostra vita è quello del 16 aprile 1993, quando sono caduta per una decina di metri dalla finestra della mia stanza. Devo raccontare l’antefatto (la me adolescente era fissata con gli antefatti). Da un paio d’anni avevo cominciato a scrivere lunghe orazioni da leggere al mio funerale (chi le avrebbe lette? I miei fratelli?). Lo scopo di quei discorsi era spiegare perché la me adolescente avesse deciso di lasciare questo mondo e chi, di preciso, dovesse sentirsi in colpa, anzi, direttamente responsabile della sua morte. Oggi rimango perplessa davanti a quella mia vena dark, del tutto scollegata da qualunque intenzione di togliermi la vita. Non ho mai, neppure per un istante, preso in considerazione la possibilità del suicidio. A quei tempi potevo benissimo scrivere un’orazione funebre al mattino e cercare di ottenere un’audizione per Annie nel pomeriggio (la me adolescente voleva essere la prima Annie nera. Non capiva che Annie non può avere più di dodici anni). Eppure ero affascinata da quella scena funebre. Le stronze magre con i capelli lisci e i denti dritti chinavano la serica testa e piangevano di vergogna. Le persone che potevano permettersi di portare le lenti a contatto, o anche solo un paio di occhiali non passati dalla mutua, si sentivano mortificate dalla mia postuma rettitudine proletaria. La sadica insegnante di francese che non mi lasciava tenere il piumino in classe era costretta ad ammettere davanti a tutti che le sue origini senegalesi le conferivano un vantaggio linguistico sleale nei confronti dei suoi alunni, a cominciare da me. Comment dit-on la mort? E Sasha si rimangiava quello che aveva detto sui “meticci”, e le ragazze più carine notavano la mia arguzia e la mia bellezza interiore e pensavano che sarebbe stato bello frequentarmi, e il mio migliore amico capiva di essere innamorato di me… e arrivavano tutti troppo tardi! Troppo tardi!

Mi tirai su a sedere sul davanzale della finestra con un pacchetto di Silk Cut e, piangendo come una fontana, presi una sigaretta e mi preparai ad accenderla

Un po’ di quell’intensa energia adolescenziale l’ho introdotta di straforo in Denti bianchi, ma mentre nel romanzo assumeva il tono della commedia, nella vita reale si prendeva noiosamente sul serio e risultava estenuante per chi vi era esposto. Praticamente continuavo a battere sullo stesso tasto da quando avevo undici anni. Io sono profonda/tu sei superficiale. Tu sei ricca/io sono povera. Tu sei bella/io sono intelligente. Tu sei ammirata/io sono interessante. E così via. Ormai avevo diciassette anni, eppure passavo ancora un sacco di tempo ad accusare gli altri delle fissazioni che riempivano le mie giornate. Chi, in definitiva, era più ossessionato dalla folta e lucida frangia di Eleanor? Eleanor o io? O dal modo in cui i jeans rattoppati di Kelly mettevano in risalto il suo sedere perfettamente caraibico (il mio sedere, piatto come una frittella, lo consideravo un’eredità maledetta delle sorelle di mio padre)? A dire il vero, la mia fissazione per la fortuna e la bellezza altrui aveva preso già da tempo una brutta piega e la mia intelligenza si era rappresa nel rancore: nulla di tutto questo, infatti, era anche solo vagamente interessante.

E ora, il 16 aprile, durante le vacanze di Pasqua, avevo deciso di usare il telefono della stanza di mia madre per chiamare il mio migliore amico e ripetergli per l’ennesima volta che lo amavo, e che il suo rifiuto di ricambiare il mio sentimento mi stava rovinando la vita e avrebbe potuto portarlo ad ascoltare una lunghissima orazione funebre, pronunciata forse dai miei fratelli o forse da Keanu Reeves, a seconda di chi fosse stato disponibile. Ma siccome gli propinavo una versione di quell’ultimatum una o due volte all’anno da quando ci eravamo conosciuti, all’età di dodici anni, il mio migliore amico reagiva al mio istrionismo con grande pazienza ma poche parole. Nel frattempo, all’altro capo della linea, io singhiozzavo tanto da farmi venire i conati, sperando che lui sentisse il messaggio nascosto (nascosto per modo di dire) in Love 2 the 9’s di Prince che avevo lasciato acceso a volume altissimo nella mia stanza. In un modo o nell’altro mi convinse a riagganciare. Tornai stancamente in camera mia. Mi tirai su a sedere sul davanzale della finestra con un pacchetto di Silk Cut che avevo rubato a mia madre, mi lasciai sommergere da 7 di Prince e, in un’orgia di autocommiserazione, piangendo come una fontana, presi una sigaretta e mi preparai ad accenderla.

Retroscena: a quei tempi vivevo in un mondo di puro Prince, ma anche in un porcile di mia personale creazione. A volte, quando sgrido i miei figli per come tengono le loro stanze, ricordo all’improvviso quel che pensavo quando mia madre entrava e cercava di lamentarsi – sopra le note di Sexy MF sparata a tutto volume – per i piatti incrostati di avanzi accumulati sotto il letto, per i mozziconi di sigaretta spenti nei piatti incrostati, per le candele che accendevo e lasciavo sciogliere sul tappeto umido (a volte, se cominciavo a bere un bicchiere d’acqua e poi mi stancavo, lo rovesciavo direttamente sul pavimento). Sì, quando mia madre mi rimproverava, la me adolescente pensava: poveretta. Non hai nient’altro a cui pensare! Devi proprio avere una vita vuota, se non sai fare altro che preoccuparti di queste bazzecole (la me adolescente leggeva il dizionario)! Mi sembra di vederla, magari con in mano un panino al brie costellato di sigarette spente, reduce da una lunga giornata di lavoro come assistente sociale, alle prese con bambini che non avevano brie da mettere nei panini e non potevano gridare “FUORI DALLA MIA STANZA” perché condividevano la stanza con i genitori. Eppure guardavo quella madre single, quell’immigrata che sgobbava dalla mattina alla sera, e pensavo: Gesù cristo, donna, trovati di meglio da fare. A volte, però, avevo pietà di lei. Avere pietà non significava cambiare il mio modo di comportarmi, ma piuttosto mentire e dire che l’avevo cambiato. Quell’aprile, in particolare, le avevo giurato che non fumavo. Perciò: sigarette rubate. Perciò: davanzale.

Non so se di questi tempi sia considerato di cattivo gusto dire il peso di una persona in un racconto, ma un elemento fondamentale di questo antefatto è che la me adolescente era grassoccia e allergica all’esercizio fisico, e questo mi aveva reso piuttosto difficile arrampicarmi sul davanzale. Immagino che una persona più agile avrebbe potuto sedersi con entrambe le gambe rivolte all’infuori, tenendosi con una mano al telaio della finestra, ma io, dopo aver tirato fuori una gamba, non mi presi la briga di tirare fuori anche l’altra, così mi sedetti a cavalcioni sul davanzale mezzo marcio e, troppo sicura di me come sempre, usai entrambe le mani per estrarre la sigaretta dal pacchetto e metterla in bocca.

All 7 and we’ll watch them fall / They stand in the way of love / and we will smoke them all (Tutti e sette li vedremo cadere / Ostacolano l’amore / e li faremo fuori tutti).

Poi scivolai. Il giorno prima aveva piovuto. O forse il davanzale tarlato cedette, non lo so. Ma in una frazione di secondo mi ero letteralmente ribaltata. Ora ero aggrappata al davanzale della finestra con la punta delle dita, sospesa sull’orlo di un precipizio come in un film. Per quanto tempo Cary Grant rimane appeso al monte Rushmore in Intrigo internazionale? Sembra improbabile che resista tanto. Io, appesa a un davanzale di Londra, non resistetti più di tre o quattro secondi. Eppure! Il tempo si dilatò, o si espanse, o qualcosa del genere. Scoprii quanto infinito c’è in un secondo. Una rivelazione adolescenziale. Ebbi addirittura il tempo di pensare: questa è una rivelazione adolescenziale. E anche: è come quel momento in Una pazza giornata di vacanza quando il quadro Le bagnanti si scompone in un sacco di puntini colorati, e dentro ogni puntino ci sono altri puntini! Giuro su dio che lo pensai. Ed ero così tranquilla! La me adolescente – che era paralizzata e terrorizzata dalla morte come lo è tuttora quella adulta – in qualche modo diventò, in quel momento, beatamente calma. Avevo diciassette anni. Amavo la letteratura, il cinema, la pittura e tutta l’opera di quel piccolo uomo che ora chiamavo con riverenza Symbol. Amavo il mio quartiere, Keats, Whitney Houston, la mia scuola, i miei amici, i miei fratelli, Tracy Chapman e il fumo e – ora me ne rendevo conto – anche l’esperienza di quei cinque anni di amore non corrisposto (poiché si trattava di una rivelazione adolescenziale, non pensai ai miei genitori nemmeno per una frazione di secondo). E adesso era tutto finito? Niente può ostacolare l’amore (ora me ne rendevo conto). Il cielo è azzurro. È una bella giornata. Lasciati andare.

So don’t cry / One day all 7 will die (Perciò non piangere / Un giorno moriranno tutti e sette).

Alla me adulta piace pensare alla mia opera come a una cosa viva, in continua evoluzione nel corso degli anni. La me adolescente non la pensa così. Ecco cosa dice: nella tua “opera” (occhi al cielo) non fai altro che ripetere le due cose che io dicevo già il 16 aprile:

(a) il tempo non è quello che pensiamo

Christian Dellavedova

(b) neppure la volontà.

Atterrai seduta, nella metà del giardino appartenente alla vicina del piano di sotto. A quanto pareva, il mio fratellino aveva visto qualcosa di grosso passare davanti alla finestra del soggiorno, ma non aveva capito subito che ero io. Una delle cose per cui gli altri adolescenti mi sfottevano all’epoca era la mia stazza, ma ride bene chi ride ultimo, perché, secondo il medico che mi operò, a salvarmi la vita era stato proprio il mio “sederone”, cioè il mio culo piatto ma di dimensioni considerevoli. Non so se fosse davvero corretto dal punto di vista medico, ma a quanto pare era così che i dottori parlavano alle ragazze nei primi anni novanta. Però io mi sentivo una supereroina! Ero sopravvissuta a una caduta di dieci metri! Ricordo perfino di aver creduto, per un attimo estatico, che avrei proseguito il mio numero alzandomi in piedi e mettendomi a camminare. Poi arrivò il dolore. La vicina, una pachistana che parlava poco l’inglese, apparve d’un tratto al mio fianco, dopo avermi vista attraverso l’enorme squarcio nella recinzione che sia la sua famiglia sia la nostra si rifiutavano di far riparare. Lei era molto spaventata e io ero molto calma, ma non riuscivamo a capirci e dopo un po’ mi sdraiai a guardare il cielo.

Doveva aver chiamato l’ambulanza, però, perché mi sembrò che arrivasse quasi subito (il tempo non è quello che pensiamo), e poi mi gasarono con qualcosa che fece diventare il mondo arancione. Per una questione di coerenza del testo preferirei che fosse diventato viola, invece diventò arancione. Che droga fantastica! A quel punto della mia vita avevo già assunto una discreta dose di sostanze psicotrope e, da giovane critica in formazione, decisi subito di dare a questa, qualunque cosa fosse, quattro stelle piene. Nel frattempo era arrivata anche mia madre, e in quel momento pensai che fosse colpa della fattanza se non riuscivo a rispondere con precisione alla sua domanda: “Cos’è successo?”. Invece sono passati trent’anni e ancora non so rispondere. Perché avevo mollato la presa? L’avevo fatto apposta? Ero triste, certo. Qualche minuto prima ero tristissima. Ma poi ero tornata felice! Allora, ero caduta o mi ero buttata? Era stato un incidente? Una scelta inconscia? Una decisione? Tutte queste cose insieme? Cosa intendiamo quando diciamo di aver preso una decisione? O di aver fatto succedere qualcosa con la forza della volontà? Certo, volere e far succedere una cosa dopo l’altra è il modo in cui creiamo e raccontiamo una storia. Ma non è tutto una storia. E come facciamo a sapere quando vogliamo davvero che una cosa succeda? Insomma, cosa diavolo è la volontà?

Una cosa che non sempre tengo presente, quando penso al giovane Holden Caulfield, è che il suo scopo è impedire alle frotte di bambini che giocano nei campi di segale di cadere da una grande altezza: “E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo”. Sull’altro lato del precipizio, presumibilmente, c’è il mondo adulto dei bugiardi, quelli che sembrano sapere tutto e avere una risposta sensata a ogni tua domanda esistenziale. Il tempo? Be’, lo trovi sull’orologio, no? Basta che ti ricordi di spostarlo avanti di un’ora in primavera. La volontà? Cristo, donna, dacci un taglio. Volevi fare una cosa e l’hai fatta: punto e basta. C’è qualcosa di così adolescenziale negli scrittori. Continuano a fare domande infantili. Sarà una buona cosa? Da ragazzina amavo molto Salinger, ma da adulta, rileggendolo, mi dispiace constatare che reagisco diversamente. Una cosa è continuare a fare domande infantili, un’altra è ritirarsi definitivamente nei campi di segale. Sicuramente lo scopo è proprio quello di continuare a rivolgere le nostre domande infantili al mondo calcificato degli adulti, nella speranza di riuscire a cambiare qualcosa laggiù, sull’altro lato del precipizio.

Da questo punto di vista devo ammettere che quella caduta fu un colpo di fortuna, perché l’ambulanza mi trasferì direttamente dal mondo dell’astratta angoscia adolescenziale alla realtà concreta del Middlesex hospital, durante i giorni di gloria del nostro servizio sanitario nazionale. Lì scoprii che il tempo, oltre a essere una questione esistenziale, può anche essere una quantità concreta che gli esseri umani accettano spontaneamente di prodigare ad altri esseri umani, per infilare chiodi in femori fratturati e sollevare culi piatti per metterci sotto una padella. Mi resi conto che il mio tipo di intelligenza non aveva alcun valore intrinseco, e che la “capacità” di analizzare Salinger diventava d’un tratto insignificante in confronto all’abilità della giovane infermiera che mi toglieva le graffette e mi attaccava il catetere. Imparai che esisteva davvero una cosa chiamata vocazione, e che certe persone decidevano di sviluppare la loro non solo studiando medicina e praticandola, ma anche sedendosi al capezzale dei malati e scherzando con i loro parenti. Scoprii i diversi livelli di volontà che dovevano esistere su scala nazionale per costruire un sistema di assistenza sanitaria finanziato dai contribuenti – quell’insieme eterogeneo di partecipanti volenti e nolenti – capace di portare un gruppo di operatori sanitari a occuparsi per quasi due anni di un’adolescente squattrinata dal pessimo carattere, permettendole di tornare a camminare senza sborsare un soldo. Ma questa è un’altra storia…

Poiché ero troppo pigra per fare gli esercizi di riabilitazione, rimasi a lungo sulle stampelle. Andai agli esami di maturità con le stampelle. Un’insegnante comprensiva mi accompagnò a scuola per sei mesi perché mia madre doveva lavorare. I miei coetanei, invece, si rivelarono molto meno comprensivi. Avevo sempre voluto creare intorno a me un’aura di fascino e mistero, e invece ottenni solo un’impacciata compassione e un silenzio imbarazzato. Nessuno osava chiedermi se avessi tentato il suicidio, neppure i miei familiari, e anche se raccontavo a tutti di essere caduta dalla finestra della mia stanza “mentre fumavo una sigaretta”, non penso che qualcuno ci abbia creduto. Era una storia senza senso, quindi restava lì, indigerita, come una circostanza che mi riguardava, una circostanza che comunque si adattava piuttosto bene alla mia reputazione d’imbranata stizzosa che faceva sempre qualcosa di stonato e un po’ ridicolo. Si poteva quasi credere che la ragazza che si divertiva a girare con una scarpa rossa e una bianca, che veniva spesso beccata a fingere di conoscere film che non aveva mai visto e che una volta aveva interpretato un rabbino in un’opera teatrale sull’Olocausto scritta da lei stessa fosse la medesima tonta che era caduta da un’altezza di dieci metri a casa sua. Era una Sadie alla massima potenza. O meglio, “Zadie” (occhi al cielo), come avevo cominciato a farmi chiamare. La caduta non mi portò né prestigio né rispetto, però mi fece passare l’abitudine di scrivere orazioni funebri. Avevo corso nella segale fino all’orlo del dirupo e avevo dato un’occhiata dall’altra parte, e così facendo avevo scoperto che la segale non mi dispiaceva poi tanto. Tornai sulla mia fetida poltrona con la mia infelicità adolescenziale, aprii un libro e mi ritirai nella segale.

A volte mi chiedo: come gestirebbe ora la sua infelicità, la me adolescente? Dove può andare una ragazza del ventunesimo secolo per ritirarsi dalla realtà (se vi viene in mente la risposta “su internet”, immagino che abbiate più di cinquant’anni o che in qualche modo siate ancora in grado di immaginare internet come separato dalla “realtà”)? Temo che le vie di fuga si siano ridotte. Le mie riflessioni sul tempo, per esempio, non mi hanno mai portata a chiedermi se ne avrei avuto a sufficienza, da un punto di vista esistenziale. Ma oggi la fine dei tempi – l’apocalisse – è un concetto del tutto familiare e domestico per l’adolescente medio. Non ricordo di aver preso sul serio il millennium bug, ma scommetto che oggi sarei una complottista sul bug del 2038. E a chi si rivolgerebbero le mie orazioni funebri? La mia sfera d’invidia potenziale non sarebbe più limitata alla gente della mia scuola o del mio quartiere, ma si estenderebbe a tutte le persone evocabili attraverso il mio telefono, cioè l’interpopolazione del pianeta. Vorrei pensare che Prince sarebbe ancora, in qualche misura, l’intermediario tra me e il mondo, ma so che oggi sarebbe infinitamente più piccolo, ridotto a una particella all’interno di una epica rete di mediazione digitale così immensa e complessa da sembrare quasi cosmica. Immagino che mi sarebbe molto difficile decidere se ciò che ho l’impressione di volere sia davvero quello che voglio. Amo davvero il mio lungo rituale di cura della pelle? Voglio veramente stare in fila tutta la notte per acquistare l’ultima versione del mio telefono? Questo social network mi fa sentire realmente felice e collegata agli altri? Oppure qualche invisibile entità commerciale ha deciso tutto questo per me? Non credo che l’infelicità adolescenziale di oggi sia molto diversa da quella di un tempo, però credo che abbia un raggio d’azione molto più ampio e offra spazi di tregua ormai quasi azzerati. Tuttavia è ovvio che io la pensi così: ho quarantotto anni.

Di questi tempi è fin troppo facile per gli adulti cadere in un baratro di sconforto adolescenziale pensando all’attuale esistenza degli adolescenti, ma cerco di ricordare a me stessa che, nonostante tutte le evidenti trasformazioni, due dei miei metodi di autoguarigione preferiti sono ancora a portata di mano: la gente e i libri. Stare con la gente. Leggere libri. Ogni tanto irrompo senza bussare nella stanza della mia adolescente e cerco di consigliarle entrambe le cose. Potete immaginare come va a finire. Il tempo collassa. Mi pento di averlo fatto. E allora perché l’ho fatto? Devi proprio avere una vita vuota, se non sai fare altro che preoccuparti di queste bazzecole!sp

Zadie Smith è una scrittrice britannica. Il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia è L’impostore (Mondadori 2023). Questo racconto è uscito sul settimanale culturale statunitense The New Yorker con il titolo The fall.

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Questo articolo è uscito sul numero 1548 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati