04 aprile 2016 16:24

Palmira, Siria, 1 aprile 2016. L’automobile accelera, e il mio cuore batte sempre più forte. È domenica 27 marzo e sfrecciamo attraverso il deserto siriano diretti a Palmira, la celebre città dell’antichità dalla quale il gruppo Stato islamico (Is) è appena stato costretto a ritirarsi, dieci mesi dopo averla conquistata.

Le mie fonti hanno confermato che l’esercito siriano ha ripreso il controllo totale sulla città e sul vicino sito archeologico, risalente a oltre duemila anni fa. La notizia ha fatto il giro del mondo e l’Afp sarà la prima testata straniera a entrare a Palmira. Sono letteralmente sopraffatto dalla gioia. Non solo perché sto per realizzare uno scoop ma soprattuto perché ho potuto annunciare una notizia che da tanto tempo moltissime persone, in Siria e altrove, speravano di ascoltare.

Dopo un po’ il mio telefono comincia a suonare, senza interruzione. Sono i miei colleghi dell’ufficio di Beirut, i miei amici siriani rifugiati in Germania, in Norvegia, in Libano o in Turchia. Tutti mi fanno la stessa domanda: in che condizioni è il sito archeologico?

Non so ancora la risposta. E la verità è che ho paura di scoprirla.

Mentre ci avviciniamo a Palmira, vedo una nuvola di fumo nero che si alza al di sopra della città, testimonianza della feroce battaglia appena conclusa. Sono sommerso da un misto di emozioni tanto potenti quanto contraddittorie: gioia ma anche tristezza, ansia e apprensione.

I resti dell’arco di trionfo di Palmira, in Siria, il 31 marzo 2016. (Joseph Eid, Afp)

Gioia, perché sarò uno dei primi a entrare a Palmira e a raccontare al mondo quel che ho visto. Tristezza, perché inevitabilmente darò alla gente un primo assaggio delle distruzioni compiute dall’Is in questo straordinario sito. Ansia, perché io stesso ho paura di avere il cuore spezzato vedendo i danni. Tutte le comunicazioni tra la città e il resto del mondo sono state interrotte durante i combattimenti. In questo momento, non sappiamo neanche se i jihadisti hanno mantenuto la loro parola: se, prima di ritirarsi, hanno fatto esplodere fino all’ultimo monumento della vecchia città greco-romana.

E apprensione, perché entro in una città che fino a pochi giorni fa era ancora controllata dai combattenti dell’Is. Ho sentito naturalmente parlare del loro fanatismo e della loro abitudine di lasciare dietro di sé ogni sorta di trappola mortale, sotto forma di ordigni esplosivi improvvisati.

Come raccontare?

Tutte queste emozioni cominciano a svanire mano a mano che le mie preoccupazioni professionali tornano in primo piano. Verifico la batteria della macchina fotografica, del registratore e del telefono. Indosso un cappellino dell’Afp e impugno matita e bloc notes. Come racconterò questa storia? Come potrò trasmettere al mondo quel che sto per vedere?

Siamo ormai a cinquecento metri dalla città antica. Un primo colpo d’occhio in direzione del sito storico fa subito riaccelerare il mio battito cardiaco. È una visione reale? Quelle colonne sono ancora in piedi? E il teatro? E la cittadella? Intorno a me, osservo molta distruzione. Ma alcune cose sono ancora al loro posto, dove non mi aspettavo di trovare altro che un ammasso di macerie

Mi volto verso il mio accompagnatore militare siriano. “Posso andare a vedere le rovine?”. Scuote la testa. Impossibile, dice. “La città vecchia è piena di mine. È molto pericoloso. L’Is era qui solo qualche ora fa, non se lo dimentichi. Bisogna fare attenzione, molta attenzione”.

Film dell’orrore in una città fantasma

Non potendo accedere al sito archeologico, facciamo un giro nei quartieri residenziali di Palmira. È una città fantasma. L’atmosfera mi ricorda alcune scene di film dell’orrore di molto tempo fa. Una città con le strade piene di fumo. Niente è stato risparmiato. Ci sono carcasse di automobili in mezzo alla strada. Edifici demoliti, appartamenti devastati con le porte ancora aperte. Interi quartieri sono stati distrutti dalla guerra. Il silenzio è totale, lugubre, rotto soltanto dal rumore del vento e dalle sporadiche esplosioni in lontananza. L’aria del deserto solleva una polvere gialla e spessa.

I resti di una statua nella periferia di Palmira, in Siria, il 31 marzo 2016. (Joseph Eid, Afp)

Mi ritrovo a esplorare in punta di piedi quello che un tempo era un complesso d’edifici residenziali. Do un’occhiata ai crateri lasciati da scontri d’artiglieria recentissimi. Non vedo nessuno. Eppure ci sono alcuni segni di vita: della mercanzia intonsa in piccoli negozi, mobili rimasti in appartamenti abbandonati. È come se gli abitanti se ne fossero andati all’improvviso senza fare le valigie. Quanto ai jihadisti, sembrano non aver lasciato niente, se non qualche bandiera nera e qualche pila di scartoffie amministrative.

Esplosioni lontane

In città avanzo con prudenza. Faccio attenzione a ogni passo, a causa delle mine. Mi sforzo di ascoltare il mio accompagnatore militare che mi suggerisce dove andare. Mi guardo intorno, alla ricerca di qualcuno, di qualsiasi persona in grado d’indicarmi dove mi trovo esattamente, di dirmi quale sia il nome della via in cui sto camminando. Con voce alta e forte chiedo: “C’è qualcuno?”. Ma l’unica risposta che ricevo sono sempre il vento e le esplosioni lontane.

Concludiamo la nostra “passeggiata” nei quartieri residenziali e ci ritroviamo sulla piazza principale della città. Cerco di chiamare l’ufficio dell’Afp per dare mie notizie e inviare alcune foto, ma invano. Non c’è campo. Mentre aspettiamo che l’esercito finisca di sminare la strada che conduce alla città antica, il clima si fa un po’ meno teso. Alcuni si mettono a sorseggiare un infuso d’erbe. Molti scattano delle foto ricordo di questo momento storico.

Soldati russi a Palmira, in Siria, il 31 marzo 2016. (Joseph Eid, Afp)

Finalmente ci autorizzano a entrare nel sito. Cerco di non precipitarmi. Non solo per non mettere i piedi nel posto sbagliato ma anche per riempirmi gli occhi di quei monumenti, per cercare d’immaginare le centinaia e centinaia di battaglie e di disastri che hanno devastato questa città nel corso dei secoli, prima di finire nell’oblio. I drammi si dissolvono sempre. La terra, invece, resta dov’è. La storia rimane.

Montagne russe emotive

Faccio una pausa per scarabocchiare alcuni appunti sul mio taccuino, per fare una foto, per filmare. In realtà mi fermo così spesso che i miei colleghi finiscono per averne abbastanza di me e mi lasciano lavorare da solo, per conto mio.

Attraversare queste rovine archeologiche è come salire su delle montagne russe emotive. Proprio quando comincio a sentirmi al sicuro, quando la paura degli ordigni artigianali comincia ad abbandonarmi, il rumore d’una detonazione riecheggia in lontananza. Allora m’irrigidisco, e ricomincio a camminare con prudenza sul terreno sabbioso.

All’improvviso mi ritrovo nel celebre teatro romano di Palmira. È ancora in piedi. Sul mio viso si disegna un ampio sorriso di sollievo. Ma il sorriso sparisce poco dopo, quando scopro che l’Arco di trionfo è stato totalmente distrutto. Mi dirigo poi verso quello che un tempo era il tempio di Baal. Un’opera architettonica di enorme importanza, che mescolava gli stili greco, romano e mediorientale. Non ne rimane che un cumulo di pietre che si scaldano sotto il sole di mezzogiorno. Alcuni fiori gialli hanno invaso i detriti.

I resti della cella del tempio di Bel, a Palmira, in Siria, il 31 marzo 2016. (Joseph Eid, Afp)

Ed è solo l’inizio. Le torri funerarie sono state parzialmente demolite. Quasi dappertutto sono state abbattute delle colonne. Ma molte sono ancora in piedi, testimoni di tutto quello che è successo qui.

Tutto sommato la gioia prevale sulla tristezza. I danni sono pesanti, ma il sito archeologico è sopravvissuto. Festeggio questa constatazione nell’unico modo possibile in questo momento: con un autoscatto. Sorrido con il mio cappellino dell’Afp e fotografo me stesso in mezzo alle rovine.

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Appena il mio telefono riesce a collegarsi alla rete, mi affretto a pubblicare questa foto su Twitter commentando: “L’Afp a Palmira”.

Mi ricordo che, da piccolo, facevo il gradasso coi miei amici dicendo che avevo visto Palmira, anche se non avevo che dei ricordi molto fumosi, privi di dettagli.

Oggi sono fiero d’aver visitato Palmira per la seconda volta. Sono fiero anche d’essere stato il primo corrispondente di una testata straniera ad arrivare sul luogo dopo la riconquista della città da parte delle forze siriane. Le mie immagini hanno fatto il giro del mondo.

Palmira è stato uno dei principali fari culturali dell’antichità. E, per me, questa città è diventata anche il principale traguardo della mia giovane carriera di giornalista. Ho cominciato questo lavoro da meno di un anno e l’aver già raccontato un evento importante come la riconquista di Palmira, strappata all’Is, rafforza la mia autostima. Non dimenticherò mai questa giornata.

Il mio soggiorno a Palmira finisce all’alba. Torniamo sui nostri passi, attraversiamo un posto di blocco governativo, e all’improvviso il mio telefono ricomincia a prendere. Dall’automobile in movimento comincio a trasmettere i miei racconti. Al contempo ricevo una valanga di messaggi dai miei colleghi. Rim, Loay e Youssef a Damasco. Rouba, Layal, Raba, Sammy e Joseph a Beirut. Sono tutti ansiosi di sapere quello che ho visto. Allora gli racconto tutto. Quando finalmente rientro a Damasco, dopo un passaggio a Homs, ricevo una chiamata della mia collega Maya da Beirut.

“Stiamo scrivendo la storia”, mi dice.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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