È difficile dire quale potrebbe essere un blockbuster ideale nella Hollywood contemporanea. Quelli che escono spesso sono deboli, popolati di personaggi con dimensioni interiori ridotte e inquadrati in una rappresentazione comprensiva che riduce genere, etnia e sessualità a categorie di marketing. Questa è la realtà cinematografica su cui si affaccia Matrix resurrections, più di vent’anni dopo l’originale del 1999: un universo di sequel, reboot e aggiornamenti continui. Un universo in cui l’immaginazione è coagulata in qualcosa che si può facilmente vendere e comprare. Eppure Lana Wachowski, con il suo primo lungometraggio da solista, riesce a respingere formule stanche e offrire al pubblico qualcosa di fresco, curioso e divertente. Thomas Anderson (Keanu Reeves) è il creatore di The Matrix, un videogioco di successo ambientato in una realtà virtuale. Dopo un incontro casuale con Tiffany (Carrie-Anne Moss), una donna sposata e madre di due figli, comincia ad avere confuse visioni del passato e quando il suo capo (Jonathan Groff) gli dice che vuole realizzare un sequel di Matrix la sua realtà comincia a scivolare via. In bilico tra una meta-resa dei conti con l’eredità della prima trilogia e la fioritura di qualcosa di nuovo e audacemente romantico, Matrix resurrections è un incasinato e imperfetto trionfo. Era impossibile prescindere dall’influenza sulla cultura statunitense che ha avuto la trilogia originale, allora la regista ha deciso di costruire questo sequel sul suo aspetto forse più grande e singolare: la bizzarria.
Angelica Jade Bastién, Vulture

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Questo articolo è uscito sul numero 1442 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati