Per quasi vent’anni gli Arcade Fire hanno camminato sulla linea sottile tra la sincerità e il sentimentalismo. Dopo la sbandata cinica del quinto album Everything now – un disco per il quale hanno messo in piedi una falsa società, hanno pubblicato recensioni finte e hanno girato il mondo facendosi chiamare Infinite Content – la band canadese è tornata a fare quello che le riesce meglio: toccare i cuori degli ascoltatori con canzoni epiche sul declino, la disperazione e la ribellione. Il nuovo album del gruppo, WE, condensa le caratteristiche dei suoi dischi migliori (Funeral, Neon Bible, The suburbs) in soli sette brani e quaranta minuti. Arrangiamenti orchestrali si scontrano con groove trascinanti, ogni ritornello sembra scritto per gli stadi e verso la fine compare addirittura Peter Gabriel ad alimentare il loro credito verso i rockettari attempati. Eppure WE non è Funeral 2.0. L’album si apre con Age of anxiety, un brano in due parti che riprende le influenze disco di Reflektor e sfodera sintetizzatori degni di Giorgio Moroder. Il fulcro del disco è End of the Empire I-V: dura quasi dieci minuti e lentamente si dispiega in un lamento sul declino dell’America. È musica in pieno stile Arcade Fire. è il brano di Butler e compagnia più simile a una canzone di Bruce Springsteen. Ma da quel momento in poi con la doppietta di Unconditional I e II il disco diventa un po’ troppo piatto. Il mondo è cambiato da quando gli Arcade Fire hanno esordito nel 2004 e in vari momenti di WE la band dà l’impressione di faticare un po’ a tenere il passo.

Mike Vinti, Loud and Quiet

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Questo articolo è uscito sul numero 1459 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati