L’essenza del cinema è il simbolo: filmare un’azione che implica qualcos’altro e che trae la sua identità da quello che sta fuori dallo schermo. C’è molta azione in Nope di Jordan Peele, ed è fantasioso ed emozionante se visto solo come miscela di generi: un film di fantascienza che è anche un western contemporaneo. Una premessa con un enorme, intrinseco potere simbolico, visto che i due generi sono accomunati dal concetto dell’arrivo di estranei indesiderati (gli alieni sulla Terra come i bianchi nel continente americano). Ma Peele porta avanti il concetto. Nope è una fantasmagorica storia sui neri nel west, indesiderati tra gli indesiderati, ed è ambientata ai nostri tempi, quindi in un west la cui mitologia è quella costruita da Hollywood. Ancora, Nope è un grande film sul cinema, sulle implicazioni morali e spirituali della rappresentazione cinematografica. È un film di exploitation, sull’exploitation e sulla storia cinematografica dell’exploitation come essenza stessa del mezzo. Otis (Keith David) ha una fattoria in California in cui alleva cavalli che fornisce a set di film, serie e spot pubblicitari. Quando muore misteriosamente, colpito da una specie di scheggia proveniente dal cielo, i figli O.J. (Daniel Kaluuya) ed Emerald (Keke Palmer) sono in qualche modo costretti a rilevare l’azienda del padre e, poi, a lottare contro il misterioso ufo che ha ucciso Otis. Basta con gli spoiler, è giusto che ognuno si goda pienamente i tanti e ingegnosi colpi di scena concepiti da Peele.
Richard Brody, The New Yorker

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Questo articolo è uscito sul numero 1474 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati