Beth Orton (Eliot Lee Hazel)

Beth Orton non ha fretta. I suoi primi quattro album sono usciti a distanza di tre anni l’uno dall’altro e dal 2002 ne è uscito uno ogni cinque. Non stupisce perciò che a ogni lavoro i cambiamenti siano consistenti. L’ultimo disco compensa l’irrequietezza elettronica del precedente Kidsticks, anche grazie alla conquista di una maggiore tranquillità nella vita personale. È una calma che ha spinto Orton a riflettere sulla memoria e sul tempo, con quella sua voce tremolante che sembra sempre sul punto di spezzarsi. Weather alive è straordinario dal punto di vista musicale. La sezione ritmica, d’impronta jazz, è affidata a Tom Skinner (The Smile) e Tom Herbert, mentre il sassofono di Alabaster DePlume fa pensare al recentemente scomparso Pharoah Sanders. Orton è al piano, mentre qua e là troviamo influenze da Brian Eno, dai Talk Talk e da Jon Hassell. Canzoni come Friday night e Unwritten sono sperimentali ma contengono quel romanticismo in cui convivono Springsteen, gli U2, i Dire Straits e Tom Waits. È come addormentarsi ascoltando una radio che trasmette ballate anni ottanta. Non è un disco per tutte le stagioni: sotto la luce sbagliata la sua vulnerabilità potrebbe essere difficile. Ma per questo autunno è l’ideale. Joe Muggs, The Arts Desk

Joe Muggs, The Arts Desk

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Questo articolo è uscito sul numero 1480 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati