Compiuti ottant’anni, il pianeta Pollini continua a girare intorno alla stella Beethoven. Dopo aver pazientemente finito l’integrale delle sonate, il pianista italiano sembra ripartire per la stessa strada, in concorrenza diretta con il leggendario album delle ultime cinque sonate, che nel 1977 diede il via alla sua prima avventura beethoveniana. Il nuovo cd è il seguito logico di quello del 2019, che aveva una rilettura radicale delle ultime tre sonate. Qui ritroviamo la stessa intransigenza, ma nel tentativo di rispettare il più possibile il metronomo (impossibile?) di Beethoven il pianista non trova la serenità che poteva arrivargli dalla maturità e realizza due esecuzioni tese all’estremo. È impressionante soprattutto il senso di angoscia e inquietudine di questo nuovo Pollini. Un esempio è l’inizio dell’op. 101, di solito radioso, o il devastante fragore dell’allegro della Hammerklavier, che non ci lascia neanche il tempo di respirare. Nelle fughe finali si resta colpiti dal coraggio di un interprete che si espone a rischi sempre enormi. Ma resta il rimpianto per il suo vecchio istinto da architetto, oggi sostituito da queste letture a sepolcri scoperchiati che risultano meno esemplari di quelle una volta. Ci sono momenti folgoranti, vere lezioni di pianoforte, e rendono ancora più amaro il “manuale del pessimismo” che ci presenta il grande maestro in questa sua stagione autunnale.
Laurent Muraro, Diapason

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Questo articolo è uscito sul numero 1497 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati