La città della vittoria è molte cose: un’epopea storica indiana, una favola lunga secoli, una meditazione sulla natura autodistruttiva del potere. Ma forse, più di ogni altra cosa, è una storia sull’immortalità delle storie. Il romanzo si apre nell’India meridionale del trecento e copre quasi tutti i 247 anni di vita del suo personaggio centrale. Pampa Kampana, che prende il nome dalla dea Pampa e ne è presto posseduta, è solo una bambina quando, dopo una sanguinosa battaglia in cui il suo popolo è sopraffatto, vede la madre gettarsi su una pira ardente, parte di un suicidio collettivo. Diventa presto una sorta di profeta, concedendo a due uomini che entrano nella sua orbita un sacchetto di semi e la consapevolezza di poter coltivare una nuova città e i suoi abitanti, come se fossero piante. Da questo incontro nasce la città e poi l’impero di Bisnaga. Per tutta la durata del romanzo, la vita e la morte della donna e dell’impero sono raccontate da un narratore che, secoli dopo, trova un poema epico che descrive questi eventi. È una premessa meno contorta di quanto sembra. Rushdie scommette sul potere di assuefazione che deriva dal condurre il lettore attraverso la vita secolare di un luogo e di una persona, e la scommessa paga. C’è un’epopea storica molto ben scritta; c’è una mitologia di ampio respiro; ci sono arguzia e occasionali strizzate d’occhio ad alcuni temi, tra cui l’islam, molto discussi. Ma a volte non c’è abbastanza spazio per far convivere pacificamente tutti questi elementi.
Omar El Akkad, Globe and Mail

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Questo articolo è uscito sul numero 1499 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati