È un venerdì pomeriggio di metà maggio e un ciclista della Repubblica Ceca mangia un cono gelato al bancone di una stazione di servizio in un tratto desolato del deserto del Mojave, in California. Fuori i suoi compagni di viaggio si riuniscono intorno a una gigantesca insegna dell’era atomica per una foto di gruppo prima di sfrecciare lungo la Route 66.

Una coppia di britannici beve un tè caldo anche se la colonnina di mercurio sfiora i 38 gradi. Una ragazza con un top corto è seduta a gambe incrociate in mezzo alla strada, mentre un uomo la riprende apparentemente indifferente alle auto che gli passano accanto. In alcuni giorni gli ultraleggeri atterrano sulla pista sterrata, per consentire ai passeggeri di gustare un root beer float (un affogato di gelato alla vaniglia in una bibita analcolica) e di mangiare un hot dog.

“Siamo in mezzo al deserto, ma qui ad Amboy si possono incontrare tante persone diverse”, spiega Kyle Okura, 31 anni, proprietario della stazione di servizio Roy’s e del resto del villaggio fantasma, ereditati dal padre nel 2023. “Puoi ascoltare storie di ogni parte del mondo”.

Amboy accoglie da sempre i viaggiatori sfiniti: prima era una stazione ferroviaria e poi è diventata un’attrazione popolare tra i turisti della “strada madre” degli Stati Uniti, la Route 66. Ma negli ultimi cinquant’anni questo tratto di storia e folclore statunitense è stato colpito da una serie di crisi, e ultimamente le forti piogge hanno obbligato a deviare il traffico per settimane. Durante la pandemia il turismo internazionale è praticamente scomparso e non è ancora ripreso. Ma Okura pensa di potercela fare. Dopotutto in ballo c’è l’eredità del padre.

Fondata come centro minerario nel 1858, la cittadina fu battezzata Amboy venticinque anni dopo, quando diventò una stazione dell’Atlantic and pacific railroad, seguita dalle stazioni di Bolo, Cadiz, Danby, Essex, Fenner, Goffs, Homer, Ibis e Java. Tutte in ordine alfabetico per ricordarle più facilmente.

Il paese si trova in un angolo battuto dal vento del deserto del Mojave, in California, e ricorda il paesaggio di Marte. Oggi non ci abita più nessuno stabilmente. Ci sono case vuote, fabbricati inutilizzati, un ufficio postale dismesso, una chiesa senza fedeli e una scuola senza studenti. I turisti possono salire su un vulcano spento nelle vicinanze, facendo attenzione ai serpenti a sonagli e agli ordigni militari inesplosi.

Alti e b assi

A parte un paio di miniere di sale appena fuori città, la stazione di servizio Roy’s è l’unica attività in funzione. Il negozio vende bevande fresche, snack e souvenir, e i gestori offrono assistenza per fare rifornimento alle tre pompe meccaniche: la benzina costa 6,49 dollari al gallone (quasi il doppio del prezzo medio negli Stati Uniti).

Ma per Jan Kuzelka, 49 anni, una guida che da dodici anni accompagna gruppi di turisti della Repubblica Ceca e della Slovacchia a fare escursioni nei parchi nazionali statunitensi, Roy’s è un’attrazione allo stesso livello del Grand Canyon e dello Yosemite.

L’insegna al neon della stazione di servizio, alta quindici metri, è diventata un simbolo della Route 66. Il suo ingresso con la tettoia a punta è una meraviglia dell’architettura googie (un genere di architettura futuristica in voga negli anni cinquanta e sessanta nel sud della California). “Qui ti immergi negli anni sessanta. È come un museo vivente”, dice Kuzelka, che si ferma a chiacchierare con noi a metà del suo itinerario giornaliero, cominciato a Joshua Tree e che la sera finirà in Arizona.

Nel giro di poche ore arrivano turisti da Brasile, Belgio, Canada e Francia. Il posto sembra essere particolarmente apprezzato dai tedeschi, racconta da dietro il bancone cromato del negozio Nicole Rachel, 48 anni, vicedirettrice della stazione di servizio, mentre le casse sparano musica doo-wop (un genere del rhythm and blues). “Sono appassionati della cultura statunitense, della Route 66, e dei vecchi diners. Arrivano, guardano e chiedono: ‘Cosa sono quelli?’ E io rispondo: ‘Sono hot dog’”.

Un gruppo di motociclisti compra cinque galloni di diesel (circa diciotto litri). Dopo aver saputo che arrivano dalla Polonia, il direttore della stazione di servizio, Ken Large, 49 anni, gli mostra un video musicale di Daria Zawiałow sul telefono. I turisti esultano quando nel video vedono la popstar sbucare da uno dei bungalow del Roy’s, scompigliandosi i capelli, con le montagne sullo sfondo.

La gioia è contagiosa, dice Large, ex imprenditore nel settore delle pavimentazioni cresciuto nella vicina Twentynine Palms. “Hanno pagato tutti una bella somma per venire dall’altra parte del mondo e vedere quello che pensano sia il cuore degli Stati Uniti. Non è cosa da
poco”.

La storia di Amboy è fatta di alti e bassi legati alle strade che la attraversano.

Quando negli anni venti fu posato l’asfalto della Route 66, diventò una città in espansione con circa duecento residenti. Roy Crowl aprì una stazione di servizio per i viaggiatori che percorrevano quella che allora era la principale arteria tra l’est e l’ovest degli Stati Uniti. Insieme al genero Buster Burris ingrandirono il Roy’s, aggiungendo prima un caffè dove gli automobilisti potevano mangiare e poi un motel per ospitarli di notte. Nel 1972, però, la costruzione dell’Interstate 40, sedici chilometri più a nord, dirottò quasi tutto il traffico lontano da Amboy, dando un duro colpo al Roy’s.

La località era già in declino quando quasi venti anni fa il padre di Okura, Albert, la comprò per 425mila dollari dalla vedova di Burris, con la promessa di restaurarla. Riaprì la stazione di servizio e rimise a posto la hall del motel, che oggi sembra una capsula del tempo per tornare agli anni cinquanta. Ma tra il 2022 e il 2023 alcuni violenti uragani, tra cui la tempesta tropicale Hilary, uniti ad alluvioni e piogge hanno danneggiato i vecchi ponti di legno, distrutto le strade e spinto le persone a ripensare i propri viaggi. Al di là del turismo, Amboy vive principalmente grazie a chi si ferma al Roy’s per comprare una bibita o usare i bagni mentre viaggia tra la California, il Nevada e l’Arizona. All’inizio del 2024 la strada principale che collega Amboy all’Interstate 40 è stata chiusa per circa un mese. “È stato un colpo durissimo per la nostra attività”, spiega Okura.

L’ultima rinascita è cominciata quando hanno riacceso la vecchia insegna

Un tratto della Route 66 appena a est di Amboy è chiuso dal 2017 per lavori, e questo costringe i turisti a deviare dalla strada storica e a tornare indietro. Lungo quel tratto sessantanove ponti di legno devono essere sostituiti da altrettanti ponti in cemento, solo all’apparenza fedeli allo stile dell’epoca ma più solidi, spiega Amy Ledbetter, del dipartimento dei lavori pubblici della contea di San Bernardino. I lavori dovrebbero cominciare alla fine del 2024. Ogni nuovo ponte costerà circa tre milioni di dollari, a seconda della lunghezza, aggiunge Ledbetter.

Per molti turisti della Route 66, Amboy è già difficile da raggiungere perché si trova verso la fine della strada e nel mezzo di una lunga distesa arida con pochi servizi, spiega Teresa Stamoulis, direttrice marketing della California historic route 66 association. Secondo le sue stime, il 95 per cento dei viaggiatori lascia la Route 66 dopo aver raggiunto Needles, dirigendosi a nord verso Las Vegas e poi verso il Grand Canyon. A quel punto devono fare una scelta: tornare indietro e completare la strada storica, attraversando chilometri di deserto, oppure prendere una delle autostrade fino a Santa Monica e considerare concluso il viaggio. Nel 2021 l’associazione ha ottenuto che la Route 66 tra Needles e Barstow rien­trasse tra le strade nazionali di interesse paesaggistico (National scenic byway) nella speranza di far aumentare i visitatori. E mentre i turisti stranieri continuano a rappresentare una buona parte degli ospiti di Amboy, i grandi gruppi in autobus non arrivano più come una volta, dice Okura. Prima della pandemia ne passavano dieci o dodici alla settimana. Ora sono circa la metà, dice Stamoulis.

Okura ricorda ancora lo stupore che provò a dodici anni quando suo padre annunciò che voleva comprare Amboy.

Albert aveva già un locale a San Bernardino, sempre sulla Route 66, quello dov’è nato il primo McDonald’s, e aveva deciso di trasformarlo in un museo dedicato alla catena di hamburger. E credeva che Amboy avrebbe attirato l’attenzione sulla sua catena di ristoranti, racconta Okura. Tuttavia quando la visitò con il padre, non ne rimase molto convinto, “era un posto fuori del mondo”.

All’arrivo trovarono “solo una serie di edifici abbandonati”, racconta. Okura, però, poco alla volta ha cambiato idea. Ogni crisi e ogni festa sono state un’occasione per rafforzare il legame con il padre, che per circa quarant’anni ha lavorato senza sosta. I dipendenti lo ricordano come un capo serio, che spesso era il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene. Tornava a casa a bordo di una vecchia Subaru, anche se avrebbe potuto permettersi qualsiasi auto.

Ottanta aerei

Secondo Okura, l’ultima rinascita di Amboy è cominciata nel 2019, quando hanno riacceso la vecchia insegna dopo averla riverniciata e aver restaurato i tubi al neon. Per la festa di inaugurazione sono arrivati circa ottanta aerei, alcuni dei quali sono ripartiti il giorno dopo. Anche se non si può promuovere la pista di atterraggio, perché non è autorizzata dalla Federal aviation administration, gli aerei arrivano comunque, spiega Okura. Il padre non è riuscito a vedere la sua idea prendere forma pienamente. L’anno scorso si è ammalato ed è morto, aveva 71 anni.“Pensavo che avrei lavorato con lui per sempre”, dice Okura, ricordando che a suo tempo Albert aveva accompagnato ogni giorno al lavoro il padre fino a un mese dal suo centesimo compleanno. “Pensavo che avremmo lavorato insieme fino ai suoi cento anni”.

Okura è in trattative per far rinominare una parte della National trails high­way, il nome con cui oggi è ufficialmente conosciuta la Route 66, in Albert Okura memorial highway, e vorrebbe appendere targhe in tutta Amboy che ne raccontino l’impegno per salvare la stazione di servizio. Ma il miglior modo per onorarlo, dice, è proseguire i lavori di ristrutturazione e cercare di realizzare il suo sogno.

Kyle Okura, che è diventato anche presidente della Juan Pollo, la catena di ristoranti di Albert, ha creato la sua piccola squadra per avviare la rinascita di Amboy: spera di riaprire il motel e la caffetteria. Large, il direttore della stazione di servizio, è appassionato di storia ma si occupa di tutto: dalla riparazione degli scaldabagni al trasporto delle forniture. Colleziona francobolli e un giorno spera di riaprire l’ufficio postale di Amboy, il suo timbro postale è tra i più rari degli Stati Uniti

Rachel, che lavorava nell’assistenza all’infanzia ed è da sempre attirata da ciò che è bizzarro e surreale, gestisce i social media del posto, la pubblicità e la logistica delle riprese. Oltre a occuparsi della cassa e dei rifornimenti di benzina è una sorta di “direttrice artistica” di Amboy, perché mantiene un’atmosfera allegra, consiglia alle persone dove mettersi in posa per le foto migliori o le incoraggia a schizzarsi con le pistole ad acqua messe a disposizione in una piscina gonfiabile piena di ghiaccio.

Okura sta sostituendo il sistema di scarico per riaprire i bagni pubblici e liberarsi di quelli chimici. Sta installando generatori a gas d’emergenza per le interruzioni di corrente dovute al vento, che possono durare giorni, e nuove condutture del gas per i bungalow del motel, in attesa di inserirli in una piattaforma di affitti brevi.

Una foto con Cindy Crawford

La sfida più grande è avere l’acqua potabile, indispensabile per riaprire la caffetteria. Si dice che quella del pozzo nella proprietà sia dieci volte più salata di quella del mare, come si intuisce anche dalle vicine miniere, il che rende difficile mantenere attivo un depuratore.

L’obiettivo è completare gran parte dei lavori entro il 2026, quando si celebrerà il centenario della Route 66. Gli enti per il turismo sperano che l’anniversario sia un’opportunità per far crescere il giro d’affari lungo la storica strada. Per garantire la sopravvivenza di Amboy, secondo Okura, bisogna promuoverla tra le nuove generazioni, non solo tra i fan irriducibili della Route 66.

Poiché il luogo è particolarmente fotogenico, i social media sono una risorsa, aggiunge Okura. Basta una rapida ricerca su qualsiasi piattaforma per trovare immagini di persone appoggiate a un’auto d’epoca sotto l’insegna del Roy’s o sedute sul simbolo della Route 66 dipinto sull’asfalto, o foto della strada che si allunga verso le montagne in lontananza.

La squadra di Okura continua inoltre ad affittare Amboy per le riprese di film e spot pubblicitari, anche se spesso ha fatto da sfondo ai film horror. “Non abbiamo mai avuto un set di una commedia romantica”, dice Rachel. Qualche anno fa il Roy’s è apparso sulla copertina del Route 66 Travel Book di Louis Vuitton. Olivia Rodrigo ha girato qui una parte del suo documentario musicale Driving home 2 U. David Yarrow l’ha scelto per un servizio fotografico con Cindy Crawford e una Ferrari Spider del 1953 del valore di sette milioni di dollari.

“Uno dei miei ricordi più belli è aver assistito al tramonto qui con Cindy Crawford”, dice Large. “Ho una certa età. Forse non mi capiterà niente di meglio”.

Okura pensa che questa nuova visibilità abbia aiutato Amboy a diventare almeno sostenibile sul piano economico. In genere il padre finanziava ogni attività con i suoi risparmi. L’anno scorso, però, per la prima volta da quando possiedono il posto, i conti non sono stati in attivo.

E anche se un tempo Okura qui vedeva solo sale, sabbia e case vuote, oggi guarda Amboy con gli occhi del padre: come un luogo che vale la pena salvare. Un luogo che può esistere solo negli Stati Uniti, solo lungo la Route 66 e solo in questo angolo del deserto del Mojave.

“Non c’è niente di simile e un posto come Amboy non è replicabile”, dice.

“Destino” era la parola preferita di Albert, tanto che se un giorno avesse una figlia Okura vorrebbe chiamarla Destiny: “Quando mio padre arrivò ad Amboy continuava a ripetere che era il destino. Perciò credo che ora sia compito mio portare avanti quello che lui ha cominciato, per rendergli omaggio”. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1584 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati