La storia non è cominciata il 7 ottobre 2023. Tutti quelli che hanno a cuore la causa palestinese ci tengono a ricordarlo per contrastare una narrazione dominante che ha fatto diventare quella data l’alfa e l’omega di tutto ciò che è successo in questo anno terribile, stabilendo un parallelo ingannevole e semplicistico con gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti.

Il 7 ottobre è stato un’ignominia: 1.177 persone sono state uccise, in grande maggioranza civili, compresi una decina di bambini; centinaia sono state prese in ostaggio. Sono stati segnalati anche casi di stupri, mutilazioni e profanazione di cadaveri. Mai tanti ebrei erano stati uccisi in un solo giorno dai tempi della Shoah. Il mondo arabo avrebbe dovuto prendere atto di questo orrore e condannarlo in massa, invece di celebrarlo o di negarlo. Ma per quanto raccapricciante sia stata e quali che fossero i calcoli di Hamas e dell’Iran, l’operazione “Diluvio di al Aqsa” non è piovuta dal cielo. È il risultato della spoliazione di un popolo, della negazione dei suoi diritti più elementari, della privazione della sua libertà e della sua disumanizzazione. Pensare che massacrare dei civili israeliani avrebbe reso più accettabile la vita quotidiana dei palestinesi è un’aberrazione. Ma pensare che quegli stessi palestinesi avrebbero accettato di morire in silenzio perché la loro sorte non interessa più a nessuno è una follia, a cui in molti avevano finito per credere.

Un anno dopo, non è stata imparata alcuna lezione. La distruzione di Gaza, che alcuni esperti definiscono un genocidio, l’impunità di Israele, le decine di migliaia di morti, tra cui migliaia di bambini, e la retorica razzista dei suprematisti ebrei senza dubbio provocheranno, tra qualche anno o decennio, altri 7 ottobre. Questo ciclo infernale di violenza non avrà fine finché Israele e i suoi alleati continueranno a far finta di non capire cosa ha simboleggiato e generato la creazione dello stato ebraico nel mondo arabo e, soprattutto, fino a quando non sarà creato uno stato palestinese degno di questo nome.

Potenza simbolica

Si può pensare che la guerra a Gaza segni l’ingresso in una nuova fase – più violenta e fanatica – di un conflitto vecchio di settant’anni e la cui posta in gioco principale resta la colonizzazione della Cisgiordania. Ma è molto di più. È lo specchio di un mondo che sta morendo sotto i nostri occhi. È uno spartiacque nella storia contemporanea che avrà grandi ripercussioni non solo nella regione ma anche in occidente, e in misura minore in quello che per semplicità chiamiamo il “sud globale”.

La guerra di Gaza non ha la stessa importanza strategica di quella che lacera l’Ucraina da più di due anni. Il fatto che Israele riesca o meno a sconfiggere Hamas non sconvolgerà gli equilibri mondiali. Ma ha una potenza simbolica incomparabile a tutti gli altri conflitti. Ognuno vi proietta la propria griglia di lettura e, per estensione, la propria visione del mondo – scontro tra nord e sud, ultimo conflitto coloniale, guerra di religione o perfino di civiltà, guerra al terrorismo jihadista – tanto che nessun altro conflitto ha una tale capacità di lacerare le società dall’interno, anche se a volte si trovano a migliaia o decine di migliaia di chilometri di distanza.

A questo suo super-potere simbolico si è sovrapposta una sfida strategica dovuta alla strumentalizzazione della causa fatta dall’Iran e dai suoi alleati nella regione. Fino a pochi mesi fa si poteva affermare che questa guerra non costituisse una svolta geopolitica. Nessun paese arabo che aveva normalizzato i rapporti con Israele aveva messo in discussione gli accordi, e il braccio di ferro iraniano-israeliano era uscito dall’ombra ma rimanendo contenuto. La situazione oggi è completamente diversa, con l’indebolimento di Hezbollah, l’allargamento della guerra al Libano e la possibilità di un conflitto diretto tra Israele e Iran. La frantumazione dell’asse iraniano, costruito in decenni di potere dalla guida suprema Ali Khamenei, in un momento in cui la Repubblica islamica vacilla anche all’interno, è un evento di grande importanza che potrebbe portare a una profonda riconfigurazione del Medio Oriente, paragonabile a quella del 1979. La normalizzazione israelo-saudita, altro potenziale punto di svolta strategico, è di nuovo condizionata alla creazione di uno stato palestinese.

Oltre a queste evoluzioni geopolitiche e ai bilanci vertiginosi in termini di morti e distruzione – che sono in continuità con tutte le tragedie che ha conosciuto la regione negli ultimi vent’anni, dall’Iraq allo Yemen, passando per la Libia, il Sudan e la Siria – è su un altro piano che la guerra di Gaza avrà le conseguenze più disastrose.

Ha risvegliato, alimentato o acceso qualcosa nella testa di decine o centinaia di milioni di persone. Ha radicalizzato gli animi in tutta la regione e oltre. Ha fatto scomparire le sfumature, ha ucciso ogni possibilità di dialogo, ha scavato un immenso divario tra il mondo arabo e l’occidente, e anche all’interno delle società occidentali. L’israeliano è tornato a essere l’ebreo, e il palestinese l’arabo. L’antisemitismo è esploso e la disumanizzazione degli arabi ha raggiunto l’apice. La rabbia, la vendetta, il rancore e l’odio hanno preso il sopravvento su tutto il resto, al punto che non si è mai parlato tanto di questo conflitto ma con così poca prospettiva.

La guerra di Gaza segna la fine di un’illusione: quella di una volontà occidentale, che a volte è stata sincera, di costruire un ordine internazionale basato su qualcosa che non fosse la legge del più forte. È la pietra tombale su un ordine liberale, contestato da molte potenze mondiali o regionali, di cui l’occidente voleva essere il custode. Dall’Iraq a Gaza passando per la Siria, questo ordine non è mai stato tanto calpestato sia da chi lo rivendica sia nella nostra regione. Il risultato è senza appello: ormai è a brandelli, come il mondo arabo. ◆ fdl

Anthony Samrani è un giornalista libanese, condirettore del quotidiano L’Orient-Le Jour.

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Questo articolo è uscito sul numero 1584 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati