Immaginate i vostri bisnonni che, da adolescenti, mettevano le mani su una novità rivoluzionaria: il primo gioco che permetteva d’immergersi completamente nella realtà virtuale. Non degli sciocchi occhialoni, più un dispositivo stile Matrix, un’elegante bandana imbottita di elettrodi in grado di collegarsi direttamente con il sistema percettivo del cervello di chi la indossava, sostituendo qualunque cosa vedesse, sentisse, toccasse, annusasse o addirittura gustasse con nuove sensazioni generate da una macchina.

Il marchingegno ha avuto un enorme successo, le bandane magiche ben presto sono diventate parte imprescindibile della vita quotidiana, di fatto i vostri bis­nonni si sono conosciuti in Bandanalandia, e i loro figli, i vostri nonni, sono entrati in contatto con il mondo esterno solo raramente. Le generazioni successive – i vostri genitori, voi – non ci sono entrate mai. Tutto quello che avete conosciuto, l’intero universo che chiamate realtà, vi è stato fornito da una macchina.

Pierluigi Longo

È il genere di scenario bizzarro a cui continuo a pensare quando rifletto sull’ipotesi della simulazione, cioè l’idea, molto discussa negli ultimi tempi tra esperti di tecnologia e filosofia, che il mondo intorno a noi possa essere una finzione digitale, qualcosa di simile al mondo simulato di un videogioco.

L’idea non è nuova. Esplorare la natura profonda della realtà è un’ossessione dei filosofi dai tempi di Socrate e Platone. Dopo Matrix queste idee sono diventate anche un caposaldo della cultura pop. Ma fino a qualche tempo fa l’ipotesi della simulazione riguardava gli studiosi. Perché dovremmo prendere in considerazione la possibilità che la tecnologia riesca a creare simulazioni indistinguibili dalla realtà? E anche se una cosa del genere fosse possibile, che differenza farebbe per noi, paralizzati nel presente, dove la realtà sembra fin troppo tragicamente reale?

Per queste ragioni mi sono tenuto alla larga dai molti dibattiti sull’ipotesi della simulazione che animano le comunità di esperti di tecnologia dai primi anni duemila, quando Nick Bostrom, un filosofo di Oxford, ventilò l’idea in un saggio. Ora un nuovo, straordinario libro del filosofo David Chalmers – Reality+. Virtual worlds and the problems of philosophy – mi ha trasformato in un simulazionista accanito.

Dopo aver letto il libro e parlato con il suo autore, ho cominciato a credere che il prossimo mondo di realtà virtuale un giorno potrebbe essere considerato reale come la realtà reale. Se succederà, la nostra attuale realtà sarà immediatamente messa in dubbio: dopo tutto, se siamo riusciti a inventare mondi virtuali significativi, non è plausibile che possa averlo fatto anche qualche altra civiltà chissà dove nell’universo? Ma se questo è possibile, come possiamo sapere di non essere già nella sua simulazione?

La conclusione sembra inevitabile. Forse non siamo in grado di dimostrare che ci troviamo in una simulazione, ma come minimo è una possibilità che non possiamo escludere. E forse c’è dell’altro: Chalmers sostiene che se ci troviamo in una simulazione non ci sarebbe motivo di pensare che questa sia l’unica. Proprio come molti computer oggi utilizzano lo stesso software, molte macchine diverse potrebbero usare lo stesso modello di simulazione. Se così fosse, i mondi simulati sarebbero di gran lunga più numerosi di quelli non simulati, il che significa – a livello puramente statistico – che non solo sarebbe possibile, ma addirittura probabile che il nostro mondo sia una delle tante simulazioni. Chalmers scrive che “le probabilità di essere delle simulazioni sono almeno il 25 per cento o giù di lì”.

Chalmers insegna filosofia alla New York university e ha passato gran parte della sua carriera a riflettere sul mistero della coscienza. È noto per aver coniato la frase “il difficile problema della coscienza” che, grosso modo, è una definizione della difficoltà di spiegare perché una certa esperienza è percepita in quel modo dall’individuo che ne sta facendo esperienza (non vi preoccupate se vi gira la testa: non è un caso se si chiama “difficile problema”).

Chalmers dice di aver cominciato a riflettere sulla natura della realtà simulata dopo aver usato dei nuovi visori di realtà virtuale ed essersi reso conto che la tecnologia è già abbastanza sviluppata per creare situazioni che sembrano reali.

La realtà virtuale oggi sta avanzando così rapidamente che sembra ragionevole ipotizzare che il mondo al suo interno un giorno possa essere indistinguibile da quello esterno. Secondo Chalmers potrebbe succedere entro un secolo. Personalmente non sarei sorpreso se ci arrivassimo nel giro di qualche decennio.

In qualunque momento accadrà, lo sviluppo di una realtà virtuale realistica sarà un terremoto, per ragioni al tempo stesso pratiche e profonde. Quelle pratiche sono evidenti: se le persone potessero spostarsi facilmente tra il mondo fisico e mondi virtuali che sono percepiti esattamente come la realtà fisica, quale dovremmo considerare reale?

Potreste sostenere che la risposta è chiaramente il mondo fisico. Ma perché? Oggi quello che succede su internet non rimane su internet. Il mondo digitale è così profondamente radicato nella nostra vita che i suoi effetti rimbalzano nella società. Dopo che tanti di noi hanno passato buona parte della pandemia a lavorare e socializzare online, sarebbe sciocco affermare che la vita su internet non è reale.

Lo stesso varrebbe per la realtà virtuale. Il libro di Chalmers – che viaggia piacevolmente attraverso l’antica filosofia cinese e indiana passando per Cartesio fino a raggiungere i teorici moderni come Bostrom e le sorelle Wachowski, creatrici di Matrix – è un’opera di filosofia, quindi naturalmente si addentra in un’esplorazione sfaccettata delle differenze tra realtà fisica e virtuale.

Il risultato è questo: “La realtà virtuale non è la stessa cosa della comune realtà fisica”, ma poiché i suoi effetti sul mondo non sono sostanzialmente diversi da quelli della realtà fisica “è una realtà autentica”. Perciò non dovremmo considerare i mondi virtuali come fughe immaginarie: quello che succede nella realtà virtuale “succede davvero”, dice Chalmers, e quando sarà abbastanza reale, potremo viverci una vita “pienamente significativa” .

A me sembra evidente. Esistono già parecchie prove del fatto che le persone possono costruire realtà sofisticate partendo da esperienze che vivono su internet attraverso uno schermo. Perché non dovrebbe essere così in un’internet immersiva?

Questo ci porta a cosa c’è di profondo e inquietante nell’avvento della realtà virtuale. La commistione tra realtà fisica e digitale ha già sprofondato la società in una crisi epistemologica, una situazione in cui persone diverse credono a versioni diverse della realtà basate sulle comunità digitali in cui si ritrovano. Come affronteremmo questa situazione in un mondo digitale molto più realistico? È possibile che il mondo fisico continui a funzionare in una società in cui tutti hanno uno o più alter ego virtuali?

Non lo so. Non ho molte speranze che possa funzionare senza problemi. Ma le possibilità che ci spaventano sottolineano l’importanza di riflessioni apparentemente astratte sulla natura della realtà nell’epoca della realtà virtuale.

Dovremmo cominciare a riflettere seriamente sui possibili effetti dei mondi virtuali adesso, prima che diventino troppo reali per farci sentire a nostro agio. ◆ gc

Farhad Manjoo

è un giornalista statunitense. Questo articolo è uscito sul New York Times con il titolo We might be in a simulation. How much should that worry us?

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Questo articolo è uscito sul numero 1448 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati