Negli anni settanta il minuscolo stato insulare di Nauru fu per un breve periodo uno dei paesi più ricchi del mondo. Il suo reddito pro capite era paragonabile a quello dell’Arabia Saudita, solo che questa ricchezza non era basata sul petrolio, ma sulle feci. Per millenni gli uccelli marini di passaggio avevano depositato i loro escrementi sull’isola, creando uno spesso strato di guano ricco di fosfati pronto a essere trasformato in fertilizzante.

Non è durato a lungo: il guano si è esaurito una ventina di anni fa. Ora Nauru, che non è più così ricca, è il principale motore di un’altra, controversa iniziativa per sfruttare le risorse dell’oceano. È a capo di un piano per dare il via alle estrazioni minerarie nelle acque profonde del Pacifico che potrebbe partire già nel 2023.

È un esempio di una storia molto più grande. Mentre la pressione sulla superficie del pianeta s’intensifica e le risorse terrestri sembrano esaurirsi, governi e grandi aziende vedono nuove opportunità nel mare aperto. Che si tratti di esplorazioni minerarie, trasporti, energia, turismo, desalinizzazione, posa di cavi, sfruttamento della biodiversità o altro, le industrie che sfruttano gli oceani si muovono sempre più in fretta.

Questa “accelerazione blu” suscita molte preoccupazioni. Gli esempi di sviluppo sostenibile sulla terraferma non sono certo incoraggianti. Dato che le capacità di sfruttamento delle risorse oceaniche aumentano rapidamente e le leggi in materia sono tutt’altro che chiare, si rischia una corsa sfrenata alle profondità marine. “La nostra società si basa sulla distruzione della natura”, dice l’ecologo marino Enric Sala. “È molto importante capire che non possiamo ripetere nell’oceano gli stessi errori commessi sulla terra”. La domanda da parecchi miliardi di dollari è: come?

Lo sfruttamento degli oceani non è una novità. Pensate alla caccia delle balene e al crollo delle loro popolazioni tra l’ottocento e il novecento, alla perdita di risorse ittiche un tempo abbondanti e alla distruzione dei fondali marini con la pesca a strascico. Negli ultimi dieci anni il nostro interesse per gli oceani è cresciuto moltissimo. Nel 2016 l’Ocse ha avvertito che l’economia legata al mare sarebbe diventata un fattore cruciale della crescita mondiale, raddoppiando di volume fino a raggiungere i tremila miliardi di dollari nel 2030. “Siamo in una nuova fase nel rapporto dell’umanità con l’oceano”, dice Jean-­Baptiste Jouffray dell’università di Stoccolma, in Svezia. “Ci si aspetta che l’oceano diventi la nuova frontiera economica e il motore del futuro sviluppo umano”. Jouffray e i suoi colleghi hanno coniato l’espressione “accelerazione blu” in un articolo del 2020. È un riferimento alla “grande accelerazione”, il periodo intorno al 1950 in cui tutti gli indicatori delle conseguenze dell’attività umana sulla superficie terrestre del pianeta, dall’aumento della popolazione all’estrazione di risorse, crebbero rapidamente.

Più del 50 per cento dell’oceano è colpito da perdita di biodiversità, rumore da attività umana, inquinamento chimico e da plastica

Il nuovo interesse per l’oceano è dovuto in parte al fatto che le tecnologie – perforazioni marine, turbine eoliche off­shore, impianti di desalinizzazione e pescherecci industriali – lo hanno reso possibile. “Molte attività d’alto mare erano impensabili fino a qualche decennio fa”, spiega Jouffray.

E “sostenibile” non è esattamente un termine che si adatta alle industrie marittime di oggi. Il settore di gran lunga più grande dell’economia oceanica, che oggi vale 1.700 miliardi di dollari all’anno, è l’estrazione offshore di gas e petrolio (830 miliardi di dollari), seguita dalla costruzione di attrezzature marittime, dalla pesca e dal trasporto di container, che emette grandi quantità di gas serra ed è poco regolamentato. In questa classifica le industrie sostenibili del futuro figurano a malapena. I parchi eolici offshore si piazzano all’ottavo posto, con un fatturato di appena 37 miliardi di dollari.

Pesci grossi

Questa situazione ha le sue conseguenze. “L’oceano è già in una crisi profonda”, dice Sebastian Unger dell’Institute for advanced sustainability studies di Potsdam, in Germania. Più del 50 per cento di esso è colpito da perdita di biodiversità, rumore prodotto da attività umana, inquinamento chimico e da plastica, e solo poche aree restano intatte. L’obiettivo di tutelare il 10 per cento delle aree costiere e marine entro il 2020, soprattutto quelle di particolare importanza per la biodiversità, non è stato raggiunto: solo il 2,7 per cento è protetto integralmente, mentre il 7,7 per cento lo è parzialmente. Solo l’1 per cento dell’alto mare è protetto.

Hypselodoris apolegma a Sulawesi, in Indonesia, marzo 2020 (Andy Schmid)

Le idee per un futuro più sostenibile circolano da almeno dieci anni. Alcuni parlano di “economia blu”, ma ad altri non piace questa espressione, che può essere usata anche per indicare la continuazione di uno sfruttamento insostenibile. “Non è questo che vogliamo”, dice Julian Barbière dell’Unesco. “Dobbiamo trovare il giusto equilibrio tra conservazione e sviluppo economico”.

Molti fattori ostacolano il raggiungimento di questo obiettivo. Tanto per cominciare, l’economia oceanica di oggi è concentrata nelle mani di poche grandi aziende. Tra le prime dieci, nove sono compagnie petrolifere. Ricerche condotte da John Virdin della Duke university della North Carolina hanno accertato che negli otto settori principali dell’economia oceanica – i cinque già ricordati più la cantieristica, le crociere e i porti – cento aziende si dividono il 60 per cento delle entrate. La maggior parte ha sede in appena sei paesi: Stati Uniti, Arabia Saudita, Cina, Norvegia, Francia e Regno Unito.

E lo status quo è molto redditizio. Il 40 per cento dei ricavi del petrolio e del gas offshore, per esempio, finisce nelle casse degli stati, e i governi ricambiano con generosi sussidi. Negli ultimi dieci anni meno dell’1 per cento del valore totale dell’economia oceanica è stato investito in progetti sostenibili tramite donazioni e fondi pubblici, dice Jouffray.

Il passaggio a una gestione sostenibile dell’oceano dipenderà dalle decisioni che prenderemo nei prossimi mesi

Reindirizzare i sussidi che oggi favoriscono la pesca eccessiva e l’estrazione di combustibili fossili è tra le priorità dell’Organizzazione mondiale del commercio da vent’anni.

Ci sono alcuni segnali vagamente positivi. I finanziamenti all’economia oceanica arrivano in larga misura da grandi fondi di gestione patrimoniale come BlackRock, Vanguard, State Street e altri. Stanno cominciando a interessarsi agli investimenti sostenibili sulla terraferma, e c’è speranza che questa tendenza possa estendersi a quelli offshore.

Ma non si tratta solo di soldi. Un altro ostacolo allo sviluppo sostenibile e alla tutela dell’oceano è che non ne sappiamo abbastanza su ciò che stiamo cercando di sviluppare e conservare. Poi c’è il modo incoerente in cui diverse attività oceaniche sono – o non sono – supervisionate da varie agenzie dell’Onu: le spedizioni marittime dall’Organizzazione marittima internazionale, la pesca dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), la biodiversità dal Programma per l’ambiente, la scienza dall’Unesco, e così via. “Queste istituzioni non comunicano tra loro,” dice Unger.

Ad attraversare tutti i settori è la convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos), entrata in vigore nel 1994. La convenzione ha istituito delle “zone economiche esclusive” (Zee) – aree che si estendono fino a duecento miglia nautiche (370 chilometri) dalla costa, sulle quali un paese ha piena sovranità e diritti di sfruttamento, purché non si sovrappongano alle Zee di altri paesi. La convenzione ha anche confermato la relativa mancanza di regole per ciò che si trova al di là delle Zee. Tecnicamente definita “area al di là della giurisdizione nazionale”, si suddivide nell’“area” vera e propria, ovvero il fondale marino e ciò che si trova al di sotto di esso, e l’alto mare, cioè le acque sovrastanti. Secondo le Nazioni Unite le risorse di questi luoghi sono “patrimonio comune di tutta l’umanità” e ogni paese è tenuto a tutelare e preservare l’ambiente marino.

“L’Unclos è stata un risultato straordinario della cooperazione internazionale, ma due terzi dell’oceano restano al di fuori di ogni giurisdizione”, dice Virdin. “O almeno, due terzi di tutto ciò che è sopra il fondo del mare”. L’“area” è governata dall’autorità internazionale per i fondali marini, istituita dall’Unclos per regolamentare le future estrazioni minerarie – una questione che oggi, vista l’iniziativa di Nauru, è diventata molto attuale.

Questo lacunoso sistema normativo è stato messo in crisi dall’accelerazione blu. Con la scoperta di potenziali ricchezze nelle Zee sono aumentati anche i tentativi degli stati di rivendicare la sovranità su tratti più grandi di mare. Nel frattempo, la tecnologia sta rendendo più facile lo sfruttamento del mare aperto. Nella sua forma attuale, il sistema rende lo sviluppo sostenibile dell’oceano praticamente impossibile, dice Unger. “Dobbiamo trasformare il nostro modo di amministrare l’oceano”, conclude.

In alcuni luoghi sta già succedendo, almeno sulla carta. Un esempio è l’industria della pesca. Mentre l’Unclos garantisce l’accesso all’alto mare, siamo lontani dal selvaggio west di una volta, dice Manuel Barange della Fao. Il fatto che non ci sia molto pesce in alto mare aiuta. La disponibilità di nutrienti fa sì che i pesci siano legati ad habitat specifici, come un fondale marino, una barriera corallina o un litorale. “In mezzo all’oceano ci sono tonni e marlin, ma non c’è molto altro”, dice Barange. Le grandi aree in cui vivono i pesci oggi sono regolate da un mosaico di una cinquantina di accordi tra paesi noti come Organizzazioni regionali di gestione della pesca (Orgp), un sistema che secondo Barange dovrebbe essere applicato a tutte le acque internazionali.

Con le leggi giuste, non c’è motivo per cui la nostra domanda di prodotti ittici non possa essere soddisfatta in modo sostenibile. Lo stesso vale per altri aspetti. Un tentativo in questo senso è la proposta, sostenuta dall’Onu, di un trattato sulla biodiversità nelle aree al di fuori della giurisdizione nazionale. I suoi obiettivi principali sono definire norme per la creazione e la tutela delle riserve marine, imporre valutazioni di impatto ambientale per le attività economiche in alto mare e promuovere l’uso equo e sostenibile delle risorse genetiche, considerate importanti per la nuova industria della biotecnologia marina. Un simile trattato sarebbe un passo importante nell’istituzione di un sistema di regole per i due terzi dell’oceano che attualmente sono quasi senza legge, dice Unger. Ma i negoziati si trascinano da anni e l’ultimo round di trattative si è interrotto a marzo senza l’accordo auspicato.

Da sapere
Corsa ai fondali

◆ La scoperta di importanti risorse nelle acque profonde ha dato il via a un fenomeno chiamato ocean grabbing, accaparramento degli oceani. Succede quando un paese cerca di estendere il proprio territorio marino rivendicando frammenti di terra emersa o scoprendo tratti di piattaforma continentale finora sconosciuti: in base alla convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos), gli stati possono rivendicare certi tratti della piattaforma continentale anche se si trovano oltre il limite delle 200 miglia nautiche dalla costa. È stata la Russia a dare il via a questo processo nel 2001, rivendicando 1,2 milioni di chilometri quadrati del mar glaciale Artico lungo la dorsale sottomarina di Lomonosov, che secondo Mosca è un’estensione della Siberia. La Danimarca non è d’accordo, e sostiene che quella che chiama Lomonosovryggen è un’estensione della Groenlandia. Da allora altri 83 paesi hanno presentato rivendicazioni alle Nazioni Unite per un totale di 37 milioni di chilometri quadrati di fondale marino. Alcuni hanno avuto successo. Nel 2012 l’Australia si è vista assegnare più di 2,5 milioni di chilometri quadrati di fondale marino intorno a un lontano gruppo di isolotti disabitati nell’oceano Antartico. New Scientist


Trenta per trenta

Intanto, al vertice della convenzione sulla biodiversità che si terrà a dicembre a Montréal, in Canada, i paesi partecipanti dovranno concordare una nuova serie di obiettivi sulla biodiversità da raggiungere entro il 2030. Anche se quelli fissati nel 2010 non sono stati raggiunti – compreso quello sulle aree di conservazione marina – la bozza di accordo per il 2030 è decisamente più ambiziosa e chiede che almeno il 30 per cento di terra, acque dolci e oceani sia protetto entro la fine del decennio. Secondo Peter Thomson, inviato speciale per l’oceano del segretario generale dell’Onu, l’obiettivo “30 per 30” sarebbe una svolta nella conservazione degli oceani.

Questa volta ci sono motivi per essere ottimisti, dice Sala. “Alcuni paesi si rendono conto che le loro attività economiche non hanno futuro senza aree protette”. Le zone di pesca, per esempio, sono molto più produttive e sostenibili se sono vicine a zone dove questa attività è vietata. Più di settanta paesi si sono impegnati a raggiungere l’obiettivo 30 per 30 aderendo all’Alleanza oceanica globale guidata dal Regno Unito, e più di cento hanno aderito alla High ambition coalition for nature and people, impegnata a raggiungere il 30 per 30 sulla terraferma e sul mare. Nel 2021 il Regno Unito ha istituito un’area marina protetta di settecentomila chilometri quadrati intorno all’arcipelago Tristan da Cunha, e il Costarica ha ampliato di 27 volte il parco nazionale dell’isola del Cocco, nell’oceano Pacifico. “C’è stato un aumento esponenziale della superficie oceanica protetta”, dice Sala.

Da sapere
Il futuro è allevato
Provenienza del pesce venduto sui mercati mondiali, milioni di tonnellate (fonte: fao)

Ci sono anche altri segnali incoraggianti. L’accordo firmato alla conferenza di Glasgow sul clima nel novembre 2021 ha messo il riscaldamento e l’acidificazione degli oceani nella lista delle priorità, e ai prossimi negoziati sul clima, che si svolgeranno a novembre in Egitto, continuerà il tentativo di affrontare quella che Thomson definisce “la vera nemesi degli oceani”, le emissioni di gas serra. Perfino l’industria dei trasporti marittimi, da sempre refrattaria agli sforzi, comincia a pensare seriamente alla decarbonizzazione: gli stati dell’Organizzazione marittima internazionale si sono impegnati a ridurre le emissioni di almeno il 40 per cento tra il 2008 e il 2030, e starebbero considerando l’impegno ad azzerarle entro il 2050.

A marzo del 2022 il mondo ha stabilito di negoziare un trattato contro l’inquinamento da plastica. A giugno l’Organizzazione mondiale del commercio ha raggiunto un accordo per l’abolizione dei sussidi che finanziano la pesca eccessiva, anche se alcune organizzazioni lo hanno definito insufficiente. Il 1 luglio si è conclusa a Lisbona la conferenza delle Nazioni Unite sull’oceano, durante la quale più di 150 paesi si sono impeganti a rispettare l’obiettivo 30 per 30.

Due scenari

Ma il tempo sta scadendo. Virdin vede due scenari possibili per il 2030, che è solo una tappa verso il 2050, la data limite fissata dall’Onu per ristabilire l’armonia tra gli esseri umani e la natura. Nel primo la situazione resta più o meno così com’è. Il secondo è molto più ottimistico: “La protezione accelererà, e forse l’obiettivo 30 per 30 sarà raggiunto. I trasporti marittimi saranno decarbonizzati, le emissioni diminuiranno. I sussidi alla pesca saranno eliminati o ridotti. Saranno stabiliti sistemi di monitoraggio condivisi per misurare le conseguenze ecologiche e sociali dell’economia oceanica. Sarà firmato un trattato per ridurre i rifiuti di plastica. A questo punto cominceremo a dedicarci al ripristino ecologico, le persone capiranno l’importanza di investire in questo settore, che diventerà una soluzione naturale per il clima. Questo sarebbe uno scenario positivo per il 2030”, conclude Virdin.

Le decisioni che prenderemo nei prossimi mesi stabiliranno se sarà possibile e quanto riusciremo ad allontanarci dalla situazione attuale per passare a un’economia dell’oceano redditizia, sostenibile ed equa. “Ci sono storie di successo e motivi di ottimismo”, dice Virdin. “Non sono un fatalista”.

In ogni caso sarà difficilissimo invertire la rotta. “Assistiamo a una grave perdita di biodiversità, l’inquinamento e la pesca sono insostenibili”, dice Barbière. “Ma se entro il 2030 saranno avviati processi di pianificazione oceanica sostenibile in tutto il mondo, la prospettiva sarà molto migliore. Io credo che sia possibile”. ◆gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1468 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati