Energia e comunicazioni Il primo parco eolico offshore al mondo fu realizzato al largo della costa di Lolland, in Danimarca, nel 1991. Da allora la capacità installata a livello mondiale è cresciuta fino a raggiungere quasi 32 gigawatt (GW) – abbastanza da dare energia a tutto il Regno Unito – per lo più in acque europee (25 GW) e cinesi (9 GW). Si stanno valutando anche altre fonti di energia rinnovabile alimentate dall’oceano, come onde, maree, correnti, gradienti di salinità, gradienti termici e biomassa marina. L’Unione europea si è data l’obiettivo di installare 1 GW di queste fonti alternative entro il 2030, dice Benjamin Lehner del Dutch marine energy centre dell’Aja.

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Queste cifre sono una goccia nel mare rispetto ai 1.840 GW di capacità delle centrali a gas. Eppure, con la produzione di energia eolica che diventa sempre più economica – i costi sono scesi del 70 per cento tra il 2012 e il 2021 – è scontato aspettarsi una crescita veloce. L’associazione di categoria Wind Europe stima che entro il 2050 l’Europa avrà 450 GW di energia eolica offshore. Gli ostacoli da superare sono molti. Ci vorranno circa 45mila chilometri quadrati di oceano, quasi tutti tra gli 11 e i 22 chilometri dalla costa, la zona più favorevole per i venti. L’Europa ha a disposizione 550mila chilometri quadrati in questa fascia, ma più del 60 per cento è occupato da aree marine protette, dice António Sarmento, della società di consulenza WavEC offshore renewable di Lisbona. La costruzione, la gestione e la manutenzione dei parchi eolici offshore possono danneggiare il fondale marino, mentre i cavi che trasportano a riva l’elettricità emettono campi elettromagnetici a cui alcune specie sono sensibili.

Una soluzione, dice Sarmento è “l’uso multiplo dello spazio marittimo”, unendo parchi eolici e aree marine protette, e aggiungendo l’allevamento di alghe e molluschi. “Possiamo creare valore economico e posti di lavoro e allo stesso tempo aiutare l’ambiente”, dice.

Intanto, il 99 per cento circa delle telecomunicazioni internazionali viaggia attraverso cavi a fibra ottica sottomarini. La rete attuale corre per 1,4 milioni di chilometri e cresce sempre più man mano che aumenta la domanda di banda larga.

I cavi sono sepolti nel sedimento o semplicemente adagiati sul fondo del mare. In entrambi i casi l’impronta ecologica è minima, dice Lionel Carter della Victoria university di Wellington, in Nuova Zelanda, che è stato consulente ambientale marino del Comitato internazionale per la protezione dei cavi dal 2003 al 2019. I cavi possono avere effetti positivi, perché favoriscono lo sviluppo sostenibile nelle regioni povere del mondo e costituiscono una barriera contro la distruttiva pesca a strascico. Il primo cavo marino, una linea telegrafica che nel 1850 collegò il Regno Unito alla Francia, fu tagliato da alcuni pescatori francesi che lo scambiarono per un’alga.

Estrazione di minerali Le compagnie minerarie hanno messo gli occhi sui fondali marini fin dagli anni sessanta. Entro il 2030 le estrazioni in alto mare potrebbero passare dallo zero di oggi a quindici miliardi di dollari.

Il 99 per cento delle telecomunicazioni internazionali viaggia attraverso cavi a fibra ottica sottomarini, una rete lunga 1,4 milioni di chilometri

Finora l’Autorità internazionale per i fondali marini, istituita nel 1994 per regolamentare lo sviluppo del settore, ha distribuito 31 licenze di esplorazione a 21 aziende. Ma non può ancora autorizzare operazioni di estrazione in alto mare a scopi commerciali, perché gli stati stanno ancora mettendo a punto le norme.

Questa situazione potrebbe cambiare presto. Nel giugno 2021 lo stato insulare di Nauru, nell’oceano Pacifico, si è appellato a una clausola della Convenzione dell’Onu sul diritto del mare (Unclos) per chiedere che le norme siano definite entro due anni. Nauru sostiene un’azienda privata canadese, The Metals Company, che vuole sviluppare una miniera non vicino a Nauru, ma all’estremità orientale della zona di Clarion-Clipperton (Ccz), dalla parte opposta del Pacifico, tra le Hawaii e il Messico.

La Ccz è piena di noduli polimetallici grandi come patate e ricchi di nichel, cobalto, rame e manganese, tutti elementi d’importanza cruciale per la transizione energetica. I noduli giacciono sul fondale, e la Metals Company definisce l’attività che sta pianificando come “raccolta”, e non estrazione. Secondo l’azienda e altri sostenitori delle estrazioni in alto mare questa soluzione è meno dannosa per l’ambiente delle estrazioni sulla terraferma. La Ccz è in gran parte una piana abissale, il tipo di ambiente più diffuso nel nostro pianeta, che copre un terzo circa del fondale oceanico. “Laggiù è buio pesto e fa freddo, la pressione è alta e il cibo scarseggia, quindi la biomassa è inferiore di 1.500 volte a quella di una foresta pluviale”, dice Rory Usher della Metals Company. “È sostanzialmente un deserto”.

Ma altri non sono d’accordo. “C’è una grande diversità in queste aree”, dice Megan Cook dell’Ocean exploration trust, un’organizzazione per l’esplorazione degli oceani. “Ci sono molte specie che dipendono dai noduli e usano la loro superficie per svilupparsi, come spugne e anemoni, e a ogni spedizione troviamo decine di nuove specie”. Più sono densi i noduli, maggiore è la biodiversità, dice.

Delfini al largo dell’isola Clarión, in Messico, marzo 2019 (Andy Schmid)

Altre due fonti di minerali metallici fanno gola alle aziende: i solfuri che si trovano intorno alle bocche idrotermali e gli strati di cobalto che coprono i guyot, rilievi sottomarini dalla sommità piatta. Il loro sfruttamento è molto più dannoso della raccolta di noduli sparsi sulla pianura abissale.

La Nautilus Minerals, un’azienda canadese controllata in parte dal governo della Papua Nuova Guinea, ha cercato di estrarre minerali dalle bocche idrotermali nelle acque territoriali del paese, a partire dal 2011. L’impresa è fallita nel 2019. Per il momento l’unica parte del fondale marino al di fuori delle acque territoriali preso in considerazione è la Ccz, perché è la sola area per cui l’Autorità internazionale per i fondali marini ha completato un piano di gestione ambientale regionale.

Ma Nauru potrebbe avere risorse accessibili anche all’interno delle sue acque territoriali, che potrebbero essere sfruttate dopo la creazione di un’industria mineraria d’alto mare nella Ccz. Altri stati insulari vogliono seguire questa strada: le isole Cook hanno grandi quantità di noduli e vogliono sfruttarli appena possibile, anche se le loro acque sono designate come area marina protetta. I progetti all’interno delle acque territoriali sono fuori dalla portata dell’Autorità per i fondali marini. Circa novecentomila chilometri quadrati di fondale marino sotto giurisdizione nazionale sono attualmente oggetto di prospezioni per la ricerca di minerali.

Acquacoltura Gli esseri umani mangiano pesce in grande quantità e varietà. Il consumo annuo mondiale è di circa 155 milioni di tonnellate, circa un terzo di tutta la carne animale, e si prevede che la domanda raddoppierà entro il 2050.

Già oggi l’effetto è devastante. Il 70 per cento delle popolazioni di pesce selvatico è oggetto di pesca eccessiva, dice Julian Barbière dell’Unesco, e alcuni metodi, come la pesca a strascico, sono terribilmente dannosi. I pescherecci moderni bruciano moltissimo gasolio per spostarsi, trascinare le loro reti e refrigerare il pescato, perciò l’impronta media di carbonio di un chilo di pesce selvatico catturato è superiore a quella di un chilo di maiale e si avvicina a quella del manzo.

Da sapere
Vicini al limite
Stato di conservazione delle riserve ittiche mondiali, percentuale (fonte: fao)

A causa della pesca eccessiva, la quantità di pesce selvatico catturato ha raggiunto il picco negli anni novanta. Da allora quasi tutto l’aumento dei consumi è stato coperto dall’allevamento, o acquacoltura, che oggi fornisce metà del pesce mangiato in tutto il mondo. Ma non è una soluzione a tutti i problemi. Gli obiettivi per la biodiversità fissati nel 2010 alla conferenza di Aichi, in Giappone, scaduti nel 2020, stabilivano che l’acquacoltura fosse “gestita in modo sostenibile, garantendo la conservazione della biodiversità”. Come tutti gli altri obiettivi del vertice, anche questo è stato mancato di parecchio. Tra le accuse mosse all’acquacoltura ci sono la distruzione delle paludi costiere, soprattutto delle mangrovie, l’enorme costo energetico e l’inefficienza di un sistema basato sull’alimentare i pesci più grandi con pesciolini piccoli come le acciughe.

L’idea che l’acquacoltura com’è praticata oggi possa sfamare il mondo è una sciocchezza, dice Daniel Pauly della University of British Columbia, in Canada: “Può nutrire solo i ricchi. Prende pesci che erano a disposizione dei poveri e li trasforma nei pesci preferiti dai ricchi”.

Nel 2021 Jessica Gephart e i suoi colleghi dell’American university di Washing­ton hanno studiato quello che chiamano “cibo blu”, un’ampia categoria che include qualunque cosa commestibile proveniente dall’acqua dolce o dal mare. Vi rientrano pesci, molluschi e cefalopodi, ma anche creature consumate meno frequentemente come cetrioli di mare, meduse, alghe e microalghe. Secondo gli autori, se gestito con attenzione il cibo blu ha grandi margini di crescita sostenibile. “La pesca gestita in modo sostenibile esiste”, dice John Virdin della Duke University in North Carolina. “Bisogna introdurre norme intelligenti e farle rispettare, ma è ipotizzabile. E non è impossibile praticare un’acquacoltura sostenibile”.

In parte significa mangiare più alghe e bivalvi come le ostriche e i mitili, che hanno un impatto ambientale minimo e assorbono grandi quantità di carbonio. Può significare più salmone, che può vivere con una dieta vegana e ha un’impronta paragonabile all’allevamento di pollame, il più efficiente tra quelli sulla terraferma. Anche i ricci di mare sembrano promettenti. Il tonno allevato non è una soluzione, ma quello selvatico può esserlo, a patto che sia pescato con imbarcazioni e attrezzature che consumano meno energia.

Biotecnologie Nel 1951 i ricercatori dell’azienda farmaceutica Pfizer isolarono un composto prodotto da una specie di spugna che avevano scoperto al largo della Florida e delle Bahamas. Chiamata spongouridina, in seguito ne fu ricavato un antivirale, la vidarabina, il primo farmaco di origine marina al mondo. Le specie marine sono molto interessanti per l’industria biotecnologica, perché si sono evolute per vivere in condizioni estreme di pressione, temperatura, chimica e oscurità che non si trovano sulla terra, acquistando potenziali superpoteri biologici che potrebbero rivelarsi utili nella biomedicina e nelle applicazioni industriali. Fino a oggi sono stati individuati più di 34mila prodotti naturali dell’oceano potenzialmente utili, tra cui un composto derivato da una spugna che è stato adattato per creare l’Azt, il primo trattamento contro l’hiv. Dal 1988 sono state brevettate circa 13mila sequenze genetiche di 865 specie marine. Tre quarti sono di microrganismi, ma sono stati estratti geni anche da pesci, crostacei, coralli, molluschi, spugne e perfino balene.

Finora questa abbondanza si è tradotta in pochi prodotti veri e propri, ma i progressi nei veicoli teleguidati e nelle tecnologie di campionamento dovrebbero favorire lo sviluppo del settore. Secondo Jean-­Baptiste Jouffray dell’università di Stoccolma, entro il 2025 il mercato mondiale della biotecnologia marina potrebbe raggiungere i 6,4 miliardi di dollari. ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1468 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati