Nel 1989 la PepsiCo Inc., l’azienda che produce la Pepsi-Cola, acquistò dall’Unione Sovietica 17 sottomarini, un incrociatore, una fregata e un cacciatorpediniere. Negli ultimi anni attorno a questa transazione è nata una leggenda secondo la quale, per un breve periodo, la Pepsi sarebbe stata proprietaria della sesta flotta più grande del mondo. Tecnicamente, l’affermazione non è così lontana dalla realtà: secondo quanto si legge sulla rivista specializzata Jane’s Fighting Ships, nel 1989 un paese con 17 sottomarini attivi avrebbe vantato la settima flotta d’attacco più grande del mondo, a pari merito con l’India.

All’atto pratico, però, è una bufala. Quelli acquistati dalla PepsiCo erano mezzi navali obsoleti, e furono immediatamente ceduti a un cantiere norvegese per essere rottamati. Più che una potenza marittima, la PepsiCo fu una semplice intermediaria commerciale.

luigi bicco

Anche le interpretazioni di questa storia nella maggior parte dei casi ne travisano il significato. La flotta della Pepsi è spesso descritta come un motivo d’imbarazzo per l’Unione Sovietica, ma non lo era per niente. La multinazionale statunitense e il paese fondato da Lenin erano soci d’affari, e nel 1989 i dirigenti della Pepsi erano molto ottimisti sulle loro prospettive in Unione Sovietica. La PepsiCo acquistò la vecchia e cadente flotta con una scommessa multimiliardaria sulla stabilità a lungo termine dell’Urss, un mercato enorme che nell’immediato non aveva nulla da scambiare tranne materie prime e la promessa di profitti futuri.

Quella della flotta navale della Pepsi, quindi, non è una storia dell’epoca del crollo sovietico, ma della fase appena precedente, quando l’Unione Sovietica sembrava destinata a sopravvivere nonostante la fine della guerra fredda.

I leader politici statunitensi speravano che il contatto con le imprese occidentali trasformasse l’Unione Sovietica in un paese simile al loro. I dirigenti della Pepsi volevano assicurarsi un vantaggio decisivo nella loro storica rivalità con la Coca-Cola. E il Cremlino vedeva l’accordo come parte di una strategia commerciale più ampia che avrebbe dovuto rilan­ciare la scricchiolante economia sovietica. Alla fine, quasi nessuno ottenne ciò che voleva.

La storia della flotta navale della Pepsi parte da un uomo che sognava di vendere bibite gassate ai sovietici. Schietto, espansivo e intraprendente, Donald Kendall aveva cominciato come operaio in un impianto d’imbottigliamento della Pepsi-Cola, ma aveva scalato rapidamente le gerarchie e nel 1957, poco più che trentenne, era stato promosso capo della divisione internazionale dell’azienda.

Kendall avrebbe svolto un ruolo spesso sottovalutato dagli studiosi. Questi tendono a descrivere le relazioni internazionali come qualcosa di molto lontano dall’esperienza quotidiana: strategia nucleare, negoziati sui trattati, discussioni di principio sui diritti umani. Ma le interazioni formali tra governi, in realtà, sono solo una piccola parte delle relazioni internazionali. Gran parte di quello che succede tra i paesi riguarda qualcosa di molto più semplice e diretto: gli affari. I responsabili delle attività internazionali delle aziende e i loro collaboratori legali, amministrativi e operativi gestiscono le complessità del commercio e degli investimenti trans­frontalieri, ma questi complicati accordi hanno sempre un semplice obiettivo: fare soldi.

Non c’è nessun fascino in questa ambizione, il che spiega perché se ne scrive molto meno rispetto all’attività dei politici e dei diplomatici. All’atto pratico, però, a influenzare gran parte delle relazioni internazionali sono i Donald Kendall, non gli Henry Kissinger. La pressione costante esercitata dai dirigenti d’azienda può far vacillare le più solide fondamenta della politica nazionale. Se la corsa al profitto si rivela compatibile con gli obiettivi ufficiali, tanto meglio; altrimenti, i dirigenti proveranno a costruirsi delle opportunità per perseguire i loro interessi.

Queste pressioni si manifestano in modi inaspettati. Alla fine degli anni cinquanta, mentre Kendall veniva promosso dirigente, il presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower cercava di usare la propaganda per contrastare l’iniziale vantaggio dell’Unione Sovietica nella guerra fredda. I sovietici potevano vantarsi dei loro strabilianti tassi di crescita nel dopoguerra, che superavano talmente quelli statunitensi che perfino i principali manuali di economia davano per scontato che presto l’Urss avrebbe scavalcato gli Stati Uniti. I trionfi sovietici nello spazio, tra cui il lancio del primo satellite artificiale, lo Sputnik, erano la testimonianza di un mondo comunista proiettato nel futuro, mentre l’apartheid razziale nel sud degli Stati Uniti li faceva apparire come paladini di un passato imperialista.

Parte della controffensiva di Eisenhower fu l’organizzazione dell’Esposizione nazionale americana del 1959 a Mosca. La scommessa era che il confronto con l’opulenza quotidiana della vita statunitense, esemplificata dai prodotti di grandi marchi come Kodak, General Electric e Pepsi-Cola, avrebbe convinto i sovietici che la pace era un obiettivo desiderabile e, cosa ancora più importante, che sarebbero stati meglio sotto il capitalismo.

Il momento culminante dell’esposizione fu la visita del vice di Eisenhower, il fervente anticomunista Richard Nixon, che accompagnò il leader sovietico Nikita Chruščëv in un giro del padiglione. I due discussero sui meriti dei rispettivi sistemi di fronte a una delegazione di giornalisti.

L’idea di Eisenhower di organizzare un’esposizione per far vacillare le fondamenta del comunismo si rivelò un fiasco. Tre persone, però, ottennero quello che speravano dalla manifestazione. Chruščëv dimostrò al suo pubblico interno che l’Unione Sovietica poteva primeggiare in una competizione pacifica. Nixon ebbe un picco di popolarità e si guadagnò il plauso di giornali e tv per aver difeso il sistema americano.

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Il terzo a trarne vantaggio fu Donald Kendall. Nel 1999 raccontò che la sera prima della visita aveva detto a Nixon che i vertici della Pepsi-Cola consideravano la partecipazione all’esposizione uno spreco di denaro. Il giorno dopo, Nixon guidò abilmente il leader sovietico verso lo stand della Pepsi. I fotografi dell’azienda immortalarono Nixon e Chruščëv mentre bevevano la bibita insieme. Il giudizio di Chruščëv sulla Pepsi fu tiepido (Time descrisse la sua reazione come “scettica”), ma la mossa pubblicitaria accelerò la carriera di Kendall, che nel 1963 fu nominato presidente e amministratore delegato dell’azienda.

Kendall ora era nella posizione per restituire il favore a Nixon. Quest’ultimo ne aveva decisamente bisogno: all’epoca era famoso soprattutto per le sue sconfitte, la prima nel 1960 alle elezioni presidenziali contro John F. Kennedy e la seconda, ancora più umiliante, nel 1962, quando si era candidato a governatore della California.

Kendall offrì a Nixon una specie di vitalizio: qualsiasi studio legale che lo avesse accettato come socio avrebbe curato gli interessi legali della Pepsi. Il grande studio Mudge, Stern, Baldwin & Todd di New York colse al volo l’opportunità. L’accordo arricchì Nixon e gli diede il pretesto per girare il mondo come rappresentante della Pepsi. Così, grazie a Kendall, diventò ricco e preparò il terreno per il suo ritorno in politica.

Il ruolo di protettore politico di Kendall cominciò a dare i suoi frutti nel 1968, quando Nixon fu eletto presidente degli Stati Uniti. Il più evidente fu quando Kendall sfruttò i buoni uffici della Casa Bianca per concludere uno dei primi accordi tra l’Unione Sovietica e un’azienda nordamericana durante la guerra fredda. Già negli anni venti diverse aziende statunitensi, come la Ford, avevano avuto un ruolo di primo piano nell’Unione Sovietica, ma si erano ritirate dal mercato poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.

Nel 1972 Kendall e le autorità sovietiche annunciarono un accordo di scambio alla pari tra la Pepsi e la vodka sovietica prodotta dalla Stolichnaya e dalla Sovetskaya. In questo modo la Pepsi sarebbe diventata non solo la prima bibita analcolica statunitense venduta in Unione Sovietica, ma avrebbe tagliato fuori la Coca-Cola da quel mercato.

Nel 1975, durante un incontro a Ginevra, il ministro degli esteri sovietico Andrej Gromyko si chiese perché i sovietici avevano la Pepsi ma non la Coca-Cola. L’ambasciatore Anatolij Dobrynin osservò diplomaticamente che “il loro presidente era più energico”. Henry Kissinger, segretario di stato di Washington, disse senza mezzi termini che era perché Donald Kendall “era un amico”.

Kissinger non era sempre così magnanimo. Nel 1973, durante un incontro con il consulente per gli affari esteri del grande sindacato Afl-Cio, aveva ringraziato le organizzazioni dei lavoratori per il loro sostegno alla politica estera del presidente e aveva esclamato: “Gli uomini d’affari in questo paese sono una vergogna. Guardate Kendall della Pepsi, venderebbe il paese per un contratto”.

Lo scambio alla pari Pepsi-vodka fu sicuramente funzionale alla politica nixoniana di distensione tra Unione Sovietica e Stati Uniti, ma fu soprattutto un trionfo per Kendall. Sulla relazione annuale per il 1972 della Pepsi spiccava una sua foto a tutta pagina di fronte all’inconfondibile cattedrale di San Basilio nella piazza Rossa di Mosca, accompagnata da una citazione da uomo di stato, più che da dirigente d’azienda: “Ho sempre creduto che il commercio tra le nazioni possa contribuire ad avvicinare culture e sistemi economici diversi”. La convinzione di Kendall era che l’impresa privata potesse riuscire dove i Kissinger del mondo erano destinati a fallire.

L’accordo, però, incontrò diversi ostacoli. Il farraginoso scambio tra la Stolichnaya e la Pepsi era una conseguenza della difficoltà di trattare con chi non seguiva le normali regole commerciali del mondo capitalista. Poiché la moneta sovietica, il rublo, non poteva essere scambiata sui mercati internazionali e l’Unione Sovietica tesaurizzava le sue riserve in valuta estera pregiata, ogni accordo si basava su complicati, lunghi e rischiosi scambi di beni materiali, senza i vantaggi della moneta.

Ma gli ostacoli erano anche politici. Alcuni gruppi ebraici in Unione Sovietica boicottarono la Pepsi, accusando l’accordo di mettere i profitti prima dei diritti dei cittadini sovietici di origine ebraica confinati all’interno delle sue frontiere (l’Unione Sovietica imponeva agli ebrei che volevano emigrare una tassa esorbitante). Negli Stati Uniti, il parlamento vincolò gli scambi commerciali con l’Urss al rispetto dei diritti umani, bloccando una proposta di riduzione del 75 per cento dei dazi sulle importazioni, tra cui quelle della vodka Stolichnaya.

Le interazioni tra governi sono solo una piccola parte delle relazioni internazionali. Gran parte di quello che succede tra i paesi riguarda qualcosa di molto più semplice e diretto: gli affari

A volte le difficoltà economiche e politiche si sovrapponevano, soprattutto alla fine degli anni settanta, quando la distensione cominciò a entrare in crisi. La PepsiCo promuoveva la Stolichnaya come un’autentica vodka sovietica, esponendosi così ai boicottaggi nei momenti di massima tensione, come quando l’Unione Sovietica invase l’Afghanistan nel 1979 o nel 1983, quando un caccia sovietico abbatté un aereo di linea sudcoreano.

Nonostante tutto, però, la Pepsi nell’Urss era in crescita e nel 1985, quando Michail Gorbačëv prese il potere, poteva vantare 16 impianti d’imbottigliamento in territorio sovietico.

Cosa ci guadagnava Mosca? Per i leader sovietici arrivati al potere dopo Stalin, il commercio con l’occidente offriva molti vantaggi. L’esportazione di materie prime come l’oro e il petrolio dava all’Unione Sovietica l’opportunità d’incassare valuta pregiata che poteva essere spesa per acquistare macchinari all’avanguardia (o, quando i raccolti scarseggiavano, derrate alimentari) sui mercati internazionali. Ma i sovietici, consapevoli del loro ritardo rispetto agli stati capitalisti tecnologicamente avanzati, vedevano negli accordi commerciali anche una strategia per importare tecnologie migliori. Nel 1966, per esempio, la casa automobilistica italiana Fiat aveva firmato un accordo per costruire una grande fabbrica in collaborazione con l’industria sovietica, un investimento il cui impatto in termini reali fu molto superiore a quello della Pepsi.

All’inizio degli anni settanta i sovietici speravano che quello con la Pepsi fosse solo il primo di una serie di accordi dello stesso tipo con gli Stati Uniti, l’Europa occidentale e il Giappone. A Mosca, secondo i tecnici di orientamento riformista il pragmatismo dell’amministrazione Nixon era un’opportunità per accelerare la crescita sovietica. Quando il parlamento degli Stati Uniti vincolò l’accordo sul commercio al rispetto dei diritti umani, indebolì tanto la posizione di questi riformisti quanto la politica della distensione, che ricevette un altro duro colpo con l’elezione alla Casa Bianca dell’intransigente anticomunista Ronald Reagan.

L’ascesa di Gorbačëv segnò un ritorno alla politica sovietica di distensione internazionale, cooperazione economica e riformismo interno. Le circostanze, però, erano cambiate. Le aziende occidentali erano diventate più diffidenti sugli scambi commerciali con i paesi comunisti. E soprattutto avevano sperimentato le concretissime difficoltà di fare affari in Unione Sovietica: intoppi doganali, violazioni dei contratti, lavoratori sempre sul piede di guerra, un sistema finanziario rudimentale e una logistica inaffidabile.

Nonostante queste avversità, marchi statunitensi come McDonald’s e Pizza Hut (all’epoca anch’essa di proprietà della PepsiCo) si affacciarono su un mercato sovietico che si stava aprendo alle liberalizzazioni. Perfino la Coca-Cola entrò in Unione Sovietica (con molte limitazioni: all’inizio la bibita era disponibile solo nei negozi in valuta estera aperti ai turisti) quando scadde il contratto di esclusiva con la Pepsi.

Entrare nel mercato sovietico aveva anche vantaggi indiretti: gli spot pubblicitari della Pepsi negli Stati Uniti lasciavano intendere che le bevande dell’azienda avessero favorito la glasnost di Gorbačëv. La scommessa più importante, però, era quella a lungo termine. Kendall e altri manager erano ancora convinti che, nonostante le difficoltà, valesse la pena di costruire un business che avrebbe dato i suoi frutti quando l’economia sovietica avesse spiccato il volo. Le loro aziende sarebbero state in una posizione ideale: avrebbero sbaragliato la modesta concorrenza delle imprese sovietiche e sfruttato la loro influenza per tagliare fuori i rivali occidentali.

Il 1989 si rivelò un anno cruciale. A giugno a Pechino arrivarono i carri armati in piazza Tiananmen. A novembre cadde il muro di Berlino. Un evento altrettanto importante fu che in Unione Sovietica alle elezioni per il rinnovo dell’organo legislativo del paese, il congresso dei deputati del popolo, vinse Gorbačëv, un risultato che sembrò confermare il potere dei riformisti.

Questo era il contesto in cui la PepsiCo finalizzò l’accordo per l’acquisizione della sua flotta navale. Il valore del rublo sui mercati internazionali era ancora nullo e le prospettive di crescita della vodka Stolichnaya erano più limitate rispetto al 1972, quindi aumentare le vendite della Pepsi in Unione Sovietica significava attingere a nuove fonti di ricavi.

Queste furono le circostanze che portarono la PepsiCo ad acquistare i 17 sottomarini e il resto della flotta. La notizia finì sulle prime pagine dei giornali, ma in realtà l’azienda non fece neanche in tempo a prendere possesso delle navi. Come scrisse l’Associated Press nel luglio 1989, la Pepsi fu semplicemente un’intermediaria per la rottamazione della flotta, che finì in mano a un’azienda di demolizioni norvegese.

A conti fatti, c’era assai poco da dire sulla vendita dei sottomarini a parte il fatto che era coinvolta la Pepsi. Già dalla seconda metà degli anni ottanta la marina sovietica aveva cominciato a far rottamare la sua flotta, obsoleta e non più idonea alla navigazione: era una goccia in un mare di rottami provenienti dall’Unione Sovietica e dall’Europa dell’est. Nel 1990 l’Economist scriveva che l’eccesso di offerta aveva contribuito a far crollare il prezzo dei rottami da 70 sterline (quasi 125 dollari dell’epoca) per tonnellata a meno di 40 in pochi mesi. All’epoca si poteva comprare un sottomarino sovietico per 50mila dollari o un cacciatorpediniere per 400mila dollari. Ma nonostante i prezzi stracciati le navi sovietiche valevano a stento il costo della rottamazione, perché contenevano grandi quantità di amianto. I critici occidentali più inflessibili sostenevano che così facendo si finanziava solo l’ammodernamento navale dell’Unione Sovietica con il rischio di trasformare la sua marina in un nemico ancora più formidabile.

La rottamazione della flotta navale della Pepsi fruttò qualche milione di dollari, portando nelle casse della marina sovietica la valuta forte di cui aveva disperatamente bisogno. Ma in realtà fu un’attività collaterale: il vero accordo prevedeva l’acquisto di navi funzionanti. Inizialmente, la PepsiCo fece includere nell’accordo di scambio per la vodka due petroliere sovietiche da 28mila tonnellate, acquistate in collaborazione con una ditta di trasporti marittimi norvegese guidata da un amico di Kendall. Nell’aprile 1989, secondo il Financial Times, la PepsiCo strinse un accordo simile ma più grande, del valore di circa 2,6 miliardi di dollari, con un’organizzazione commerciale sovietica e due aziende norvegesi per la produzione di 85 navi di fabbricazione sovietica in dieci anni (la stima del valore dell’accordo varia a seconda della fonte, probabilmente perché le aziende statunitensi coinvolte nello scambio sottovalutavano il loro valore reale per evitare dazi e tasse).

La Pepsi annunciò che l’accordo avrebbe fatto raddoppiare le vendite di bevande gassate in Unione Sovietica in dieci anni permettendo così all’azienda di aprirci anche una catena di Pizza Hut. I partner norvegesi si sarebbero occupati di mettere sul mercato le navi sovietiche, assumendosi anche i rischi della vendita. L’Unione Sovietica, dal canto suo, si assicurava non solo un mercato per le sue imbarcazioni ma anche un finanziamento per la ristrutturazione dei cantieri dove sarebbero state costruite le navi.

Con un governo riformista a Mosca, Kendall e altri dirigenti d’azienda erano convinti che le prospettive dei loro investimenti in Unione Sovietica fossero più che rosee. Una delle conseguenze della liberalizzazione, tuttavia, fu una nuova ondata di critiche. Anatolij Sobčak, sindaco democratico di Leningrado (oggi San Pietroburgo), denunciò l’accordo allargato con la Pepsi come un esercizio di “gigantomania” che avrebbe destabilizzato il mercato. All’inizio del 1991 Kendall osservò sconsolato che prima di Gorbačëv era facile fare affari con l’economia centralizzata ma che “operare in una democrazia nell’Unione Sovietica di oggi è molto più difficile”.

Il fatto stesso che queste obiezioni potessero essere espresse pubblicamente, tuttavia, sembrava un’ulteriore conferma che le riforme erano reali e che la democratizzazione era possibile. Il 30 luglio 1991 il presidente degli Stati Uniti George Bush annunciò grandi passi avanti verso una piena normalizzazione degli scambi commerciali. “Il mio paese è pronto a dare il suo contributo a questa nuova rivoluzione sovietica”, disse. Ma “i governi occidentali, vista la loro scarsa disponibilità di risorse, hanno un potere d’intervento limitato. Perciò dobbiamo coinvolgere gli imprenditori in Europa e negli Stati Uniti, e i loro part­ner in tutta l’Unione Sovietica”. La visione di Kendall si sarebbe finalmente realizzata: il capitalismo occidentale avrebbe non solo messo fine alla guerra fredda, ma sarebbe diventato ancora più ricco.

Meno di tre settimane dopo, alcune fazioni oltranziste del governo e dei servizi segreti organizzarono un colpo di stato contro Gorbačëv. Nel giro di pochi mesi, i leader delle principali repubbliche sovietiche sciolsero l’unione. Il 25 dicembre 1991 Gorbačëv diede le dimissioni da presidente dell’Unione Sovietica, che sparì con un tratto della sua penna.

Oggi gli interessi della Pepsi in Russia non sono spariti. Nel 2020 la PepsiCo ha registrato due miliardi di dollari di ricavi nel paese, il suo terzo mercato più grande dopo il Messico e gli Stati Uniti. Nel 2004 Kendall ha ricevuto dal presidente russo Vladimir Putin l’onoreficenza dell’Ordine dell’amicizia per il suo contributo al commercio russo. L’antico fascino, però, è sfumato. La Russia oggi è solo un mercato competitivo in via di sviluppo come tanti altri.

La vicenda della flotta navale della Pepsi è stata raccontata come un segno dell’inevitabilità del crollo sovietico, una storia quasi incredibile su un trionfo statunitense a spese di un nemico allo stadio terminale della malattia. È una ricostruzione che si sposa bene con il caos che ne seguì, con lo sgretolamento dell’economia sovietica, il saccheggio delle industrie e delle risorse da parte degli oligarchi e la vendita degli arsenali militari – armi funzionanti, non sottomarini arrugginiti – sul mercato nero.

Ma la tesi del commercio e degli investimenti internazionali come fattori di trasformazione di una decrepita economia comunista fu sperimentata negli stessi anni anche nella Repubblica popolare cinese. Come i sovietici, i tecnocrati cinesi puntarono sulle imprese internazionali per assimilarne le tecniche e le esperienze. E come i sovietici avevano garantito alla Pepsi il monopolio in cambio di questi privilegi, nel 1978 la Cina concesse alla Coca-Cola l’accesso esclusivo al suo mercato.

Forse i risultati ottenuti dalla Cina non erano strutturalmente alla portata dell’Unione Sovietica. Al tempo, però, l’idea che uno solo dei colossi comunisti potesse avere successo era tutt’altro che scontata. Se le cose fossero andate come sperava Kendall e come immaginava Gorbačëv, gli anni novanta sarebbero stati un decennio di democratizzazione e crescita in un’Unione Sovietica più forte. E la storia di come la Pepsi fece rottamare 17 sottomarini per consolidare il suo dominio sul mercato sovietico sarebbe stata l’ennesimo esempio di come gli investimenti statunitensi avevano aiutato un ex nemico a diventare un concorrente economico. ◆ fas

Paul Musgrave

è professore di scienze politiche alla University of Massachusetts Amherst, negli Stati Uniti. Questo articolo è uscito su Foreign Policy con il titolo The doomed voyage of Pepsi’s soviet navy.

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Questo articolo è uscito sul numero 1443 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati