La California è tutta una contraddizione. A sud c’è San Diego, un parco dei divertimenti militarizzato che è riuscito nell’impresa di nascondere un livello osceno di disuguaglianze con una combinazione di sole, sabbia e spettacoli di delfini. Più a nord c’è Los Angeles, modello di salutismo e benessere fisico famosa per i gas di scarico e lo smog, gloriosa capitale mondiale dell’intrattenimento dove i notiziari parlano continuamente di come i ricchi cercano di tenere in gabbia i poveri. Allontanandosi dalla costa c’è la Central valley, chilometri e chilometri di terreni agricoli così fertili da produrre la metà della frutta e della verdura consumate negli Stati Uniti, in mezzo a un deserto così arido che per procurarsi l’acqua necessaria gli abitanti hanno prosciugato tutte le falde dello stato. E poi naturalmente c’è la baia di San Francisco, il posto più fico, più queer, più progressista del paese, diventato invivibile dopo l’arrivo dei dipendenti delle aziende tecnologiche.

Si potrebbero citare tanti altri posti della zona, ma il più importante si chiama Palo Alto, il cuore economico, culturale e spirituale della Silicon valley, a sud di San Francisco. Partendo da questa piccola città si può raccontare gran parte della storia recente del mondo. Almeno è quello che pensa il giornalista Malcolm Harris, che ha scritto il libro Palo Alto: a history of California, capitalism, and the world (Palo Alto: una storia della California, del capitalismo e del mondo; Quercus 2023).

Da Palo Alto è partito il vangelo dell’ottimizzazione, insieme a un’infrastruttura per la sorveglianza senza precedenti nella storia. Ed è a Palo Alto che si è imposto il dogma della meritocrazia, di pari passo con una produzione scandalosa di ricchezza, potere e stress. Al centro di questa storia c’è quella che Harris considera l’innovazione capitalistica fondamentale della Silicon valley: la promozione dell’individuo come antidoto alla lotta di classe. La capacità di convincere o costringere le persone non solo a lavorare fino allo sfinimento, ma a pensare di non avere altra scelta e, in alcuni casi, a farlo con piacere.

Harris conosce Palo Alto perché ci è cresciuto. E anche se da molti anni si è trasferito sulla costa est degli Stati Uniti, riconosce i tratti distintivi e le influenze culturali ed economiche della sua città d’origine. Il suo libro comincia prima della fondazione dell’università di Stanford, alla fine dell’ottocento, e passa per l’invenzione del computer, internet, le zone residenziali e le startup, spazia dalle guerre di conquista alla guerra fredda, dalla risposta statunitense al terrorismo allo sforzo dell’industria tecnologica per cancellare la privacy.

La forza del libro sta nel presentare una storia ampia della città, in cui s’intrecciano arte, criminalità, droga, economia, eugenetica e robot. Questi elementi si legano per creare una storia della modernità. Per capire la California e il nostro mondo dobbiamo rivolgere lo sguardo verso quella scintillante città.

Quando Harris era in quarta elementare, un supplente della sua scuola rivelò a lui e ai suoi compagni una cruda verità: “Vivete in una bolla”. I bambini, che abitavano in case curate e senza pretese, in una città con un clima mite, dove si respirava un’aria di controcultura, vantaggiosamente vicina ad alcune delle aziende più ricche del paese, e con un eccellente sistema scolastico, erano sconcertati. Il supplente fu licenziato, ma la sua frase rimase impressa nella memoria di Harris, spingendolo a mettere in discussione la spiegazione che la città dava del “perché le cose andavano come andavano, perché alcuni avevano la casa grande e altri no, perché qualcuno viveva qui e tutti gli altri no”. La risposta era questa: “Perché se lo meritavano. Grazie al loro lavoro e al loro talento, alcune persone erano riuscite a cambiare il mondo e si erano guadagnate quello che avevano”. I bambini di Palo Alto, secondo questa versione, erano l’avanguardia di una generazione cresciuta con internet e la meritocrazia, una generazione che aveva avuto il privilegio di un accesso senza precedenti all’informazione ma che, paradossalmente, aveva anche meno tempo di esplorare il mondo rispetto ai bambini delle generazioni precedenti.

Quel racconto ha cominciato a mostrare delle crepe qualche anno dopo, quando c’è stata un’ondata di suicidi tra gli studenti della Palo Alto high school. In teoria, con l’impegno si poteva arrivare al successo, ma ai giovani di Palo Alto si chiedeva così tanto impegno che molti di loro decidevano di togliersi la vita. Harris racconta che alcuni suoi compagni di classe si uccisero gettandosi sotto un treno, sulla stessa linea ferroviaria che molti anni prima aveva portato in California i coloni dall’est, mettendo in moto un sistema malato.

È il cuore economico, culturale e spirituale della Silicon valley, in California. Partendo da questa piccola città si può raccontare gran parte della storia recente del mondo

La ferrovia era stata costruita da Leland Stanford, che Harris descrive come una specie di fannullone baciato dalla fortuna. Nato nel 1824 a Watervliet, nello stato di New York, da giovane Stanford aveva seguito l’esempio di molti bianchi inquieti del suo tempo: era partito per l’ovest in cerca di fortuna, contribuendo a schiavizzare, espellere e uccidere le comunità indigene nel nome del “miglioramento” di una terra che i coloni avevano chiamato California. La California era in pieno boom e Stanford, una decina d’anni dopo il suo arrivo, ne diventò il governatore. In seguito diventò il presidente della linea ferroviaria che collegava l’ovest ricco di risorse all’est, dove c’erano i soldi.

La rete ferroviaria fu realizzata grazie alla generosità del governo federale – che autorizzò gli imprenditori delle ferrovie a costruire su una quantità di terra estesa complessivamente più di trentamila chilometri quadri – e allo sfruttamento dei lavoratori immigrati. Il risultato fu un efficiente sistema di trasporto, la nascita di aziende molto ricche e il consolidamento della piccola élite che gestiva l’economia, ma anche un risentimento tra gli operai talmente forte da convincere Stanford a lasciare la sua villa di San Francisco per trasferirsi in una zona agricola famosa per l’altezza dei suoi alberi: Palo Alto.

Lì Stanford si mise in proprio e creò un impero pseudo-feudale incentrato su un maneggio. Non contento di possedere cavalli, avviò “una seria campagna scientifica su come migliorare il rendimento degli animali da lavoro”. I cavalli erano considerati macchine biologiche da perfezionare e rendere sempre più veloci. Il risultato non fu una scuderia di bestie straordinarie ma “un regime di razionalismo capitalista” con “un’ossessione per il valore potenziale e speculativo”, che Harris chiama il “sistema Palo Alto”. Partendo da qui, il libro descrive il matrimonio diabolico tra dati e controllo al servizio di profitti sempre più alti.

Stanford e i suoi sostenitori non vedevano l’ora di mettere in pratica il sistema Palo Alto, e il posto ideale per farlo era l’università che il barone delle ferrovie aveva da poco fondato in città. La Stanford university, nata nel 1885, era un nuovo tipo di scuola per persone nuove in una terra di nuova colonizzazione, una palestra per i figli della California in quello che, all’epoca, era il più grande campus universitario degli Stati Uniti.

I primi studenti si diplomarono nel 1891. Due anni dopo Stanford morì. Si dice che poi il presidente dell’università – lo scienziato David Starr Jordan – avvelenò Jane Stanford, la vedova del fondatore, per prendere il controllo dell’ateneo. Questo fatto non è mai stato accertato. Comunque Jordan trasformò l’istituto in una “casa per la ricerca e lo sviluppo nell’alta tecnologia”, un “quartier generale globale della scienza” dove gli amministratori applicavano la “scienza” dell’eugenetica per reclutare studenti e insegnanti. Nel 1909 Jordan e il preside del dipartimento d’ingegneria civile diedero a un ex studente accesso al laboratorio ad alta tensione della scuola, favorendo la creazione di una società di telegrafia a lungo raggio e facendo di Stanford l’epicentro della nascente industria della radio. Nel frattempo Jordan aveva assunto Lewis Terman, uno studioso di scienze sociali che trasformò i primi rudimentali test sull’intelligenza in un metodo eugenetico per selezionare i soggetti evolutivamente adatti agli studi, una tecnica che presto sarebbe stata estesa anche al sistema di valutazione di Stanford. Alla fine dell’era Jordan, scrive Harris, la scuola formava sia “ingegneri minerari” sia “cercatori d’intelligenza”, investendo in giovani aziende e in giovani menti. Dati e controllo.

Il più influente degli uomini usciti da Stanford è stato Herbert Hoover, presidente degli Stati Uniti dal 1929 al 1933. Tra i primi a iscriversi all’ateneo, Hoover era uno studente mediocre ma si dimostrò un eccellente amministratore, avviando un servizio di lavanderia nel campus che subappaltò subito ad altri studenti per massimizzare i profitti. Dopo la laurea lavorò come dirigente nel settore minerario in alcune regioni dell’Australia e della Cina, fu segretario per il commercio degli Stati Uniti e infine fu eletto presidente per un unico, disastroso mandato nel pieno della grande depressione. Hoover era un fervente anticomunista. Dopo aver lasciato la Casa Bianca si dedicò a indebolire i sindacati e, dopo la seconda guerra mondiale, contribuì a lanciare un programma di aiuti alimentari alla Germania per creare un’economia che fosse favorevole agli interessi dei gruppi di potere. Nella sua eredità c’è anche la Hoover institution, un centro studi reazionario con sede in una torre che incombe su Stanford.

Christian Dellavedova

Durante la guerra fredda un fiume di denaro pubblico si riversò su Palo Alto, che si arricchì costruendo armi e apparecchiature di sorveglianza. Stanford diventò un laboratorio di elettronica e una casa per grandi aziende come Lockheed Martin, Fairchild Semiconductor e Hewlett-Packard, le cui sedi erano strategicamente posizionate vicino al campus. I computer nacquero proprio da innovazioni sviluppate a Palo Alto: la valvola termoionica, il transistor al silicio e la startup tecnologica. Si affermò anche una cultura fatta di famiglie bianche, patriarcali e conservatrici che vivevano in zone residenziali esclusive: i padri prendevano la macchina per andare in ufficio a progettare sistemi missilistici, le madri badavano amorevolmente alla casa. I prezzi degli immobili schizzarono alle stelle. Tutta questa ricchezza fu creata dai migranti neri, messicani e asiatici. Queste persone erano costrette a cercare alloggio sul lato meno desiderabile della Highway 101, l’autostrada che percorre tutta la costa occidentale degli Stati Uniti, a contendersi i pochi posti di lavoro disponibili nell’agricoltura o nella manifattura non sindacalizzata e spesso ad accontentarsi di fare i custodi o gli addetti alle pulizie.

Nel frattempo Palo Alto cominciava a farsi conoscere fuori dai confini statunitensi, grazie ad aziende californiane che aprivano sedi in altri paesi. Nel resto del mondo i popoli colonizzati insorgevano, sulla scia dei movimenti di resistenza delle popolazioni emarginate negli Stati Uniti. Il partito delle Pantere nere nacque nell’area di San Francisco alla fine degli anni sessanta, e gli studenti radicali (perfino a Stanford) manifestarono contro la nuova tecnologia informatica. I militanti occuparono il laboratorio di elettronica applicata di Stanford per più di una settimana, fecero esplodere una bomba allo Stanford linear accelerator center e invasero lo Stanford research institute nel tentativo di distruggere i suoi dispositivi di memoria a tamburo, una delle prime forme di memoria informatica. Erano convinti che l’attività di ricerca sull’elaborazione dati dell’università facesse parte della macchina bellica statunitense (avevano saputo che lo Stanford research institute stava simulando un’offensiva in Vietnam). Ma la rivolta fu sedata da forze dell’ordine militarizzate e tecnologicamente attrezzate.

Negli anni sessanta e settanta la Silicon valley consolidò definitivamente la sua posizione. Mentre il settore manifatturiero era in difficoltà, l’industria tecnologica era in pieno boom. “I proprietari di casa bianchi”, scrive Harris, “cominciarono a identificarsi come bianchi e proprietari invece che come lavoratori”, soprattutto in California e ancora di più a Palo Alto. Si coalizzarono per spazzare via le ultime tracce del new deal, la serie di leggi volute dal presidente Franklin Roosevelt negli anni trenta: i politici locali deregolamentarono l’industria e la finanza, privatizzarono i servizi, indebolirono i sindacati e approvarono una serie di tagli alle tasse. La svolta era politica e anche culturale: gli hippy della California avevano trasformato la lotta di classe in un melodramma individuale ed esistenziale, dove i viaggi psichedelici e l’autocoscienza avevano preso il posto dell’azione collettiva.

Gli industriali della California scelsero un ambasciatore del marchio del capitalismo liberista e dell’individualismo: Ronald Reagan. Lo convinsero a candidarsi alla presidenza e comprarono spazi sui mezzi d’informazione per diffondere il loro vangelo. Dopo la sua vittoria, l’amministrazione tagliò la spesa sociale a vantaggio della spesa militare, sostenne le forze repressive di varie zone del mondo fornendogli denaro e le sofisticate tecnologie di Palo Alto (sistemi per le intercettazioni telefoniche o missili antiaerei) e contribuì a trasformare la scuola – fino ad allora un’incubatrice alla portata di tutti del pericoloso radicalismo studentesco – in un mercato privato, spingendo gli studenti “a pensare a se stessi come a tanti piccoli investimenti viventi”.

Il sistema Palo Alto era in ascesa: ragazzini ricchi (come Bill Gates) e traffichini della controcultura (come Steve Jobs) investirono nel modo giusto, creando non solo aziende di successo ma anche la mitologia che le accompagnava. Il computer diventò personal, la rete internet diventò privata e il caffè e la cocaina diventarono carburanti importati dall’estero per lavoratori sempre in cerca di maggiore efficienza. Nuove aziende – Cisco, Oracle, Sun Micro­systems, Netscape, Amazon, Google – entrarono prepotentemente sul mercato, rivoluzionandolo e spremendolo sempre di più. A rendere possibili le loro innovazioni erano famiglie d’immigrati che vivevano nei seminterrati della zona di San Francisco, ormai quasi inaccessibile, e operai che sgobbavano per salari ridicoli nelle fabbriche ipersorvegliate del sud del mondo.

Christian Dellavedova

Queste aziende promettevano “una nuova fase di espansione postindustriale” e le autorità di vigilanza fecero in modo di non mettersi di traverso. I legami tra l’industria tecnologica e il governo statunitense diventarono ancora più stretti dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, quando i dirigenti della Silicon valley trovarono nuove opportunità di guadagno consegnando i dati privati dei cittadini alle autorità di controllo. Pochi mesi dopo l’attentato, la Oracle creò una nuova divisione per progettare e vendere “soluzioni per la sicurezza nazionale e il ripristino d’emergenza”. Anche se non riuscì ad aggiudicarsi la commessa per un sistema nazionale d’identificazione biometrica, durante gli anni della presidenza di George W. Bush i ricavi dell’azienda raddoppiarono.

Grazie a ricchi contratti pubblici, tasse basse, un facile accesso al credito e poche regole, i principini di Palo Alto potevano indebitarsi, investire e raggiungere posizioni di monopolio a tempo di record, senza preoccuparsi delle conseguenze.

Più il libro si avvicina al presente, riconosce Harris, più diventa “difficile contestualizzare in un arco narrativo l’ultima fase della storia della Silicon valley”. Sono scoppiate le bolle di internet e del mercato immobiliare, per le strade montava la rabbia, ma i capitalisti di Palo Alto continuavano ad alzare la posta in gioco, sempre con la complicità e il sostegno finanziario della Casa Bianca e di Wall street. “Il processo ha selezionato e promosso un determinato tipo di persone. Ed è a questo punto che la storia diventa stupida”.

Nella storia recente della Silicon valley sono stati gli individui meno intelligenti, improbabili e venali a fare fortuna (almeno per un po’). Gente come Elizabeth Holmes e Sunny Balwani di Theranos, Travis Kalanick di Uber e Adam Neumann di WeWork: persone senza creatività, ingegno o competenze tecniche. E tutto questo prima che Elon Musk comprasse Twitter e si rivelasse un manager così incapace da rovinare nel giro di poche settimane una delle piattaforme di comunicazione più importanti e popolari del mondo, e prima che la più famosa società di scambio di criptovalute si rivelasse un gigantesco schema Ponzi gestito da una cricca di ventenni privilegiati.

L’apice della stupidità si è raggiunto con l’elezione di Donald Trump, che nella campagna elettorale del 2016 è stato sostenuto da importanti imprenditori della Silicon valley. Per Peter Thiel, laureato a Stanford e alfiere della cultura dell’estrema destra, l’elezione di Trump è stata una scommessa vincente. La Palantir, la sua azienda di analisi dei dati, ha vinto un contratto miliardario con la nuova amministrazione, e Thiel è diventato il punto di riferimento della Casa Bianca nella Silicon valley. Poco dopo l’elezione di Trump, Thiel è stato tra i promotori di un incontro tra il nuovo presidente e i massimi dirigenti della Silicon valley, tra cui Jeff Bezos, Tim Cook, Elon Musk, Larry Page, Sheryl Sandberg ed Eric Schmidt. “Dopo l’incontro, le aziende sono diventate sempre più impazienti di trattare direttamente con l’amministrazione”, scrive Harris. “Amazon, Google e Microsoft hanno cercato e ottenuto contratti da decine di miliardi per attività legate alla sicurezza”.

L’incontro con Trump è stato “il culmine del sistema Palo Alto”, conclude Harris. Questa economia regionale rappresentava già la più alta concentrazione di capitali al mondo, e ora i suoi dirigenti potevano rivendicare il loro posto “al centro del mondo capitalista”, giurando fedeltà ai dati e al controllo.

Ma il sistema Palo Alto si è affermato ben oltre i corridoi del potere. Il vangelo dell’ottimizzazione è penetrato in ogni aspetto della vita quotidiana. È la ragione che porta i proprietari di case e di auto a mettere in affitto le loro abitazioni e le loro macchine; che costringe i lavoratori dei magazzini Amazon e gli infermieri negli ospedali sovraffollati a urinare nelle bottiglie perché non possono prendersi una pausa. È il motivo per cui uno studente delle superiori di Palo Alto ha scritto: “Noi non siamo adolescenti. Siamo corpi senza vita in un sistema che alimenta la competizione e l’odio, e scoraggia il lavoro di squadra e l’apprendimento autentico”. Oggi le persone fanno a gara per monetizzare ogni singolo istante, i loro corpi, le loro menti, le loro identità, fino a spremere produttività da ogni secondo libero, fino a non poterne più fare a meno.

Harris non indica una soluzione. Si limita a chiedere che Stanford e Palo Alto siano smantellate, che la ricchezza creata e la terra rubata siano restituite ai nativi ohlone. È un’idea affascinante, che gli attivisti e gli studiosi sostengono da tempo. Mesi prima dell’uscita del libro, Oakland, una città che si trova vicino a San Francisco, ha annunciato la restituzione di una parte della terra agli ohlone, ma appena due ettari. Come ammette lo stesso Harris, è improbabile che il consiglio direttivo di Stanford conceda risarcimenti di terra più consistenti.

In ogni caso, sostiene l’autore, il sistema Palo Alto supera i confini della città e della California. Il regime basato sull’investimento e il lavoro costante descritto nel libro è così diffuso che viene da chiedersi se la cultura contemporanea sia direttamente riconducibile a Palo Alto o se la città sia semplicemente un esempio eclatante di questa cultura. Nell’epilogo Harris scrive: “C’è solo il capitalismo, un sistema impersonale che attraverso le persone mira al progressivo accumulo di ricchezza”. Se è così, dov’entra in gioco il sistema Palo Alto? Cosa lo distingue da quello che lo storico Edward E. Baptist chiama “il sistema ‘della macchina frustatrice’”, che tra il 1800 e il 1860 permise ai proprietari di schiavi di ottenere aumenti costanti di produttività prendendo a frustate i lavoratori neri schiavizzati? Cosa lo distingue dai sistemi di management scientifico adottati in passato dagli agenti dell’imperialismo, che pretendevano di sfruttare e regolare la vita dei nativi a tal punto che, come ha scritto lo storico e medico australiano Warwick Anderson, all’inizio del novecento gli statunitensi volevano addirittura imporre ai filippini il modo corretto di defecare? In altre parole: cosa distingue il sistema Palo Alto dall’impero, dal capitalismo stesso?

Se Palo Alto è una cornice di riferimento insufficiente per capire una storia colossale come quella che Harris vuole descrivere, il libro riesce comunque a essere un racconto di grande respiro, sorprendente nei particolari e ingegnoso nei suoi collegamenti. In definitiva, né la California né il mondo in generale sono incoerenti se osservati alla fredda luce della storia. Cercando di spremere profitto da ogni opportunità, i pionieri e gli innovatori hanno condannato tutti noi e le comunità in cui viviamo ad arrancare inesorabilmente verso il collasso. ◆ fas

Scott W. Stern è un avvocato e giornalista statunitense. Questo articolo è uscito sul settimanale The New Republic con il titolo Blame Palo Alto.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1514 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati