29 luglio 2013 09:00

Stamattina mi ha telefonato Musa, un operaio edile di Dura, a sud di Hebron. L’ho conosciuto quasi due mesi fa, alle tre del mattino, mentre ero in coda al checkpoint di Tarqumiya con i palestinesi che vanno a lavorare in Israele. Avevo saputo delle condizioni umilianti, della calca soffocante e dell’arroganza del personale israeliano, e così sono andata a verificare insieme a due attiviste di Machsomwatch e al fotografo di Ha’aretz.

Il checkpoint – un labirinto di filo spinato, tornelli, porte elettromagnetiche e celle con vetri scuri e sbarre di ferro – apre alle 3.50. I lavoratori cominciano ad arrivare verso le due nella speranza di essere tra i primi a passare. Mi sono messa in fila insieme ai lavoratori, poi una guardia mi ha ordinato di farmi da parte. Avevo già superato due o tre tornelli, ma non mi hanno permesso di entrare nelle celle dove alcune persone scelte a caso sono costrette a sottoporsi a controlli più stretti. Per attraversare il checkpoint ci vogliono tra i venti minuti e l’ora e mezza.

Musa è il filosofo del gruppo: con me non ha voluto dilungarsi sui dettagli personali, ma ha preferito fare appello al buonsenso israeliano: “Quando qualcuno compra un oggetto lo vuole nuovo e funzionante, giusto? Voi israeliani comprate la nostra manodopera per costruire le vostre città, ma quando arriviamo siamo già stanchi morti. Qual è la logica?”. Stamattina Musa mi ha chiamato per farmi sapere che ora il personale del checkpoint si comporta in modo un po’ più gentile.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it