05 maggio 2020 13:30

“Non farti queste domande, perché rischi di perdere la testa”, mi ha detto Mika mentre sorseggiava il gin tonic che avevo preparato e trasportato in un termos disinfettato. Mika vive a Zagabria. Anche se l’amministrazione comunale ha introdotto restrizioni piuttosto blande, Mika si è imposta regole tutte sue, molto più rigide.

A Zagabria i casi di covid-19 sono pochi, ma per convincere Mika a mangiare gli snack che avevo preparato ho dovuto metterli in contenitori scrupolosamente disinfettati. Le ho portato anche una bottiglia di acqua di Colonia tradizionale turca che a causa dell’epidemia ora costa moltissimo. “Non dovevi, tesoro”, mi ha detto Mika con il suo solito tono distaccato. “Non sono terrorizzata dal virus, sto solo cercando di gestire questo periodo allucinante a modo mio. Te lo dico per questo: smetti di pensare al futuro, altrimenti rischi di impazzire. Lo dico per esperienza”.

Mika ha la mia età, 46 anni. È una delle poche amiche che ho a Zagabria. È cresciuta in Bosnia-Erzegovina e quando è scoppiata la guerra, nel 1992, si è rifugiata a Zagabria. “Per sopportare le giornate nel campo profughi non ho parlato con nessuno per più di un mese. È il mio modo di affrontare la realtà quando diventa assurda. Mi chiudo in me stessa”.

Egemonia mentale
Mika mi ha raccontato che ha voluto rivivere quei ricordi per affrontare l’insensatezza dell’epidemia. Mi ha fatto i complimenti per il mio gin tonic e intanto io mi sono ricordata di Rosa Luxemburg, che per sopportare la vita in prigione si alzava prima dell’appello e si era imposta una disciplina ancora più ferrea di quella dei secondini. In questo modo aveva l’impressione che fosse lei a comandare.

Ho pensato anche al poeta russo Iosif Brodskij e alle sue memorie da un penitenziario dell’ex Unione Sovietica. Ogni giorno i detenuti dovevano spaccare legna per due ore. Così un giorno Brodskij decise di cominciare a spaccare la legna e non fermarsi più. Alla fine riuscì a spaventare le guardie con i suoi comportamenti da svitato, al punto tale che nessuno gli chiese più di spaccare la legna.

Ma questi sono metodi per combattere una dittatura, un potere visibile. Come si fa se non c’è niente a cui opporsi? Come si può restare lucidi davanti a un nemico invisibile che ti chiede solo di non fare niente?

Il covid-19 ha creato un’egemonia mentale specifica e peculiare. Non solo è impossibile parlare o pensare a qualcos’altro, ma l’emergenza mondiale si è presa anche i nostri sogni. Il lato positivo è che tutti, dalle steppe dell’Asia centrale alle Montagne rocciose degli Stati Uniti, facciamo gli stessi sogni in cui abbracciamo e baciamo qualcuno. E tutti ci svegliamo con gli stessi sudori freddi. Inforniamo pane e torte. Usiamo Zoom o House Party. Pubblichiamo e consumiamo avidamente video divertenti sui social network. I personaggi famosi si presentano su Instagram per ricordarci che dobbiamo restare in casa, dalle loro ville e dai loro yacht. Sui social network si parla tantissimo di alcuni libri, ma quasi nessuno li legge.

Il virus è un vortice che ci istupidisce. Se dovesse andare avanti così, tra un anno potremmo essere completamente rincretiniti.

Avevo bisogno di un giorno normale, un giorno senza paura, senza nascondermi

Per questo, come atto di resistenza, la settimana scorsa ho deciso di ignorare tutto. Ho voluto fare finta che la pandemia non esistesse e ho trascorso una giornata intera come se tutto fosse normale. Credevo che l’immaginazione umana avrebbe prevalso. E così, anziché indossare mascherina e guanti di lattice, mi sono messa il rossetto e sono uscita, sorridendo come faccio sempre nei giorni normali.

Il problema è stato ritrovarmi nel centro della città e sentire il mio respiro e i miei passi, come in un film dell’orrore. La gente mi stava lontana perché non indossavo la mascherina. Immediatamente mi sono dovuta arrendere al fatto che l’egemonia mentale del virus sovrasta anche l’immaginazione più ostinata.

In quel momento mi sono ricordata di una donna che ho incontrato anni fa. Anche lei è bosniaca. L’ho conosciuta a Spalato, sulla costa della Croazia. Dopo qualche bicchiere di Pelinkovac mi ha raccontato del suo sedicesimo compleanno, durante la guerra. “Avevo deciso di farmi un regalo. Avrei passeggiato per la città come se non ci fosse la guerra. Era pieno di cecchini e le poche persone correvano da un palazzo all’altro, pregando di non essere uccise. Ma avevo bisogno di un giorno normale, un giorno senza paura, senza nascondermi. Così ho fatto una lunga camminata. È un miracolo che quel giorno non mi sia capitato niente. Dio protegge chi è veramente pazzo”.

La mia immaginaria giornata normale è stata sette giorni fa. Quindi ne servono altri sei per capire se il corona-cecchino mi ha abbattuta. Quello stesso giorno ho soffiato nel vento alcuni denti di leone, perché avevo paura che se nessuno lo avesse fatto l’anno prossimo sarebbero spariti. Mi piace pensare che dio abbia fatto la scelta giusta e mi abbia inserita tra le persone “da proteggere”. In realtà non credo in dio, ma credo nella follia virtuosa come strumento di resistenza contro l’assurdità dei nostri tempi.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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