13 aprile 2020 09:47

Il covid-19 è arrivato in circostanze storiche particolari. Da un lato l’umanità, dopo aver creduto per trent’anni che un allineamento di capitalismo globale e democrazia liberale fosse l’unico scenario immaginabile, si stava gradualmente svegliando dal coma: l’idea che le cose potessero andare meglio, ma anche molto peggio, non sconvolgeva più nessuno.

D’altro canto negli ultimi quattro anni la Brexit, l’elezione di Donald Trump, l’ascesa e la caduta di Jeremy Corbyn e di Bernie Sanders hanno rivelato l’immensa resilienza del capitalismo globale. I semplici cambiamenti d’ideologia, dal globalismo al nativismo o dal neoliberismo alla socialdemocrazia, hanno fatto poco per trasformare le relazioni sociali ed economiche. Di fronte alla prospettiva di trasformare il capitalismo, le ideologie che in passato apparivano così radicali si sono dimostrate impotenti.

Che dire, quindi, dell’attuale emergenza sanitaria? Chi ha speranze nelle potenzialità di trasformazione ed emancipazione dell’attuale crisi del covid-19 è destinato a un brusco risveglio. Il problema non è che abbiamo aspettative troppo alte. Dal reddito di base al new deal verde, gli interventi proposti sono ragionevoli e necessari. La realtà, semmai, è che sottovalutiamo la resilienza dell’attuale sistema e sopravvalutiamo la capacità delle idee di trasformare il mondo in assenza di solide infrastrutture tecnologiche e politiche che rendano effettivi questi interventi.

Va di moda dare la colpa dei nostri problemi al dogma del neoliberismo, ma questa è solo una parte della verità. Da quasi dieci anni, sostengo che c’è anche un altro colpevole: l’ideologia apparentemente postideologica del “soluzionismo”. Al cuore del “soluzionismo” c’è una serie di misure, in teoria pragmatiche, in grado di mantenere in funzione la macchina del capitalismo globale risolvendo le contraddizioni che emergono nel corso del suo funzionamento: il tutto, sorprendentemente, con notevoli profitti. I suoi effetti più deleteri non vanno cercati nelle startup, ma nei governi.

Il mantra della tecnologia della sopravvivenza
Lo stato soluzionista, una versione più umana ma anche più sofisticata dello stato di sorveglianza che lo ha preceduto, ha una doppia missione. Da un lato vuole dissuadere sviluppatori, hacker, imprenditori e altri dall’usare le loro capacità e le risorse esistenti per sperimentare forme alternative di organizzazione sociale. Il fatto che sia necessario creare una startup ben finanziata per sfruttare appieno l’intelligenza artificiale e il cloud informatico non è una coincidenza, ma il risultato di politiche deliberate. Il risultato è che gli sforzi più rivoluzionari, che potrebbero dar vita a istituzioni di coordinamento sociale senza fini di lucro, muoiono in fase embrionale. Non è un caso se da vent’anni non nasce una nuova Wikipedia.

D’altra parte, visto che viviamo tutti in un mondo che è stato digitalizzato da grandi aziende affamate di dati, lo stato cerca di incassare una parte dei profitti che derivano dalla sorveglianza. La digitalizzazione guidata dalle aziende ha permesso ai governi di fare a loro volta vari interventi soluzionisti favorevoli al mercato. La teoria del nudge, secondo cui l’aiuto o il sostegno indiretto possono influenzare il processo di decisione, è un esempio perfetto di pratica soluzionista: si basa sull’idea che si possa evitare di affrontare le cause di un problema, concentrandosi invece sull’“adeguare” i comportamenti individuali alla crudele, ma immutabile, realtà.

Oggi siamo tutti soluzionisti: il covid-19 sta allo stato soluzionista come l’11 settembre sta allo stato di sorveglianza. Tuttavia le minacce che pone alla democrazia sono più sottili, e quindi più insidiose. Si è molto parlato di come Cina, Corea del Sud e Singapore, con il loro approccio verticistico alla crisi del covid-19, abbiano usato applicazioni, droni e sensori per dire ai cittadini cosa possono e non possono fare. Gli autoproclamati difensori del capitalismo democratico in occidente, come prevedibile, si sono affrettate a rimproverarle.

L’alternativa, formulata in modo persuasivo sulle pagine del Financial Times dallo storico Yuval Noah Harari (Il mondo dopo il coronavirus, Internazionale 1351), il più eloquente celebratore dell’opinione dominante nell’élite, sembra provenire da un manuale di propaganda della Silicon valley: dobbiamo emancipare i cittadini dandogli la conoscenza! I soluzionisti umanitari vogliono che i cittadini si lavino le mani perché sono consapevoli di cos’è giusto per loro e per la società, non perché sono obbligati a farlo, come a Pechino, dove lo stato minaccia di tagliargli il riscaldamento se disubbidiscono.

Una simile retorica non può che finire con una app-ificazione della politica. L’appello di Harari all’emancipazione dei cittadini attraverso interventi cognitivi e comportamentali non è molto diverso dalle misure proposte da Cass Sunstein, Richard Thaler e altri sostenitori dellateoria del nudge. È così che la politica della più grande emergenza sanitaria del secolo viene ridotta a discussioni “pragmatiche” sulla progettazione di erogatori di sapone e lavandini.

Nell’idea dei soluzionisti è più o meno tutto quello che serve, perché i corpi e le istituzioni intermedie scompaiono. Per persone come Harari e Sunstein esistono cittadini-consumatori, aziende e governi. In mezzo non c’è molto altro: né sindacati, né associazioni di cittadini, né movimenti sociali, né istituzioni collettive tenute insieme da sentimenti di solidarietà.

Il mantra dell’emancipazione attraverso il sapere, il fondamento del liberalismo classico, oggi può significare solo una cosa: più soluzionismo. Mi aspetto quindi che i governi riversino miliardi in quella che, un anno fa, ho definito la “tecnologia della sopravvivenza”: tecnologie digitali che permetteranno al capitalismo di andare avanti, alleviando nel frattempo alcuni dei suoi problemi. Questo rafforzerà anche la legittimità dello stato soluzionista, che potrà vantarsi di aver respinto “l’opzione cinese”. Abbiamo bisogno di una politica post-neoliberista che ci porti fuori da questa crisi. Ma abbiamo ancor più bisogno di una politica post-soluzionista. Si potrebbe cominciare con il distruggere l’artificiale opzione binaria che definisce il nostro modo di pensare all’innovazione e alla cooperazione sociale: startup da un lato ed economia pianificata e centralizzata dall’altro.

Perché serve un compromesso tra privacy e salute pubblica? Forse perché le infrastrutture digitali di cui disponiamo sono state costruite dalle aziende per favorire i loro affari?

La domanda al cuore del nuovo dibattito politico non dovrebbe essere “quale forza può controllare la concorrenza di mercato?”. Ma semmai, “quale forza può sfruttare appieno le immense opportunità di avere nuove forme di solidarietà e coordinamento sociale fornite dalle nuove tecnologie?”.

Il soluzionismo non è altro che una versione applicata del famoso slogan di Margaret Thatcher “non c’è alternativa”. Negli ultimi quarant’anni i pensatori di sinistra hanno rivelato la crudeltà e l’impraticabilità di questa logica. Ma l’incoerenza logica non impedisce l’accumulazione di potere politico. E così il mondo tecnologico in cui viviamo oggi è stato progettato per garantire che non possa emergere alcuna alternativa a un ordine globale basato sulle logiche di mercato.

I dilemmi attuali sulla giusta risposta tecnologica al covid-19 dimostrano quanto abbiamo bisogno di politiche post-soluzioniste. In un paese come l’Italia (sono a Roma, alla terza settimana di quarantena) le alternative sono poco esaltanti. Il dibattito è incentrato, da un lato, sul compromesso tra privacy e salute pubblica e, dall’altro, sulla necessità di promuovere l’innovazione delle startup per una “tecnologia della sopravvivenza” in grado di emancipare i cittadini, sulla falsariga della proposta di Harari.

Perché non ci sono alternative? Perché serve un compromesso tra privacy e salute pubblica? Forse perché le infrastrutture digitali di cui disponiamo sono costruite da aziende tecnologiche per favorire i loro affari? Sono state progettate per identificarci e fare di noi micro-bersagli d’interesse commerciale. Poca riflessione è stata dedicata alla costruzione d’infrastrutture digitali che proteggano la privacy. Perché? Semplicemente perché nessun progetto politico ha bisogno di una simile analisi.

Le infrastrutture di cui disponiamo sono, è triste dirlo, infrastrutture di consumo individualizzato, non di solidarietà e assistenza reciproca. Come ogni piattaforma digitale, possono essere usate per vari scopi, tra i quali attivisimo, difesa dei diritti e collaborazione, ma simili usi solitamente implicano un costo elevato e spesso invisibile. Costituiscono delle fondamenta molto fragili per un ordine sociale non liberista e post-soluzionista, che dovrà essere popolato da attori che non siano consumatori, startup e imprenditori. L’idea di costruire questo nuovo ordine sulle fondamenta digitali offerte da Amazon, Face-book o dall’operatore di telefonia mobile del vostro paese può sembrare allettante, ma non ne verrà niente di buono. Sarà, nel migliore dei casi, l’ennesimo parco giochi per soluzionisti. Nel peggiore, una società totalitaria fondata su controllo e sorveglianza diffusi.

Molte persone di sinistra incitano i paesi democratici a dimostrare che possono affrontare questa crisi meglio degli stati autoritari. Ma questa esortazione suona vuota, perché le democrazie esistenti dipendono talmente dall’esercizio antidemocratico del potere privato da essere democrazie solo di facciata. Quando celebriamo la “democrazia” omaggiamo, senza saperlo, il complesso invisibile di startup e tecnocrati su cui si basa lo stato soluzionista.

Se la nostra incerta democrazia sopravvivrà al covid-19 il suo primo compito dovrebbe essere quello di tracciare una via post-soluzionista. Altrimenti rivivremo probabilmente l’opzione totalitaria. Ma con molta più ipocrisia da parte delle élite quando parleranno di “valori democratici”, “sistema di pesi e contrappesi” e “diritti umani”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul numero 1352 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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