16 aprile 2015 11:41
Nanni Moretti a Parigi, l’8 luglio 2009. (Nicolas Guerin, Contour by Getty Images)

Nei film di Nanni Moretti sono straordinarie le scene in cui tutti in Italia gli spiegano come pensare scrivere girare interpretare e fare il suo lavoro, vivere la sua vita e declinare il suo impegno politico. Un tic molto italiano, come quest’altro: parlare delle ultime opere di registi, cantanti e scrittori rimpiangendo la purezza, la forza e l’onestà delle loro prime prove. Per cui: Madonna non sarà mai più quella di Like a virgin; Philip Roth dopo Il lamento di Portnoy s’è ammosciato; e Moretti era meglio ai tempi di Io sono un autarchico (1976).

Quasi quarant’anni dopo quell’esordio, il regista torna in sala con Mia madre. In mezzo ci sono dodici film e la costruzione e l’esplosione di un personaggio che per molti è un maestro, per altri uno stronzo, per altri ancora uno che passa il tempo a: litigare polemizzare puntualizzare, criticare e dissacrare, incazzarsi e irrigidirsi, girare film su tutto questo.

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Qui si racconta in trent’anni di interviste, smontate e rimontate insieme.

Periodo: 1986-2015.
Lunghezza: 15mila caratteri.
Tra i giornali: Positif, la Repubblica, Libération, Corriere della Sera, l’Espresso, La Stampa, l’Unità.
Tra le firme: Eugenio Scalfari, Jean A. Gili, Marco Damilano, Frédéric Bonnaud, Christophe Musitelli, Alberto Crespi, Olivier Ségueret.

Qual è stato il primo film che ha visto?
Il primo film, non di cartoni animati, l’ho visto a nove anni con mio padre e mio fratello, ed era un western, Soldati a cavallo di John Ford. Però è il secondo quello che mi è rimasto più impresso, L’uomo che sapeva troppo di Alfred Hitchcock. I miei erano professori. Mio padre insegnava epigrafia greca all’università e mia madre lettere al liceo. Ho un fratello più grande e una sorella più piccola. A scuola non andavo particolarmente bene: ho anche ripetuto un anno. Finita la scuola a 19 anni, volevo fare cinema e i miei sono stati molto liberali, mi hanno permesso di rischiare. Il Centro sperimentale era riservato a quelli già laureati. Con mia grande gioia non potei neanche provarci. Tentai anche di fare l’aiuto regista, anzi l’assistente volontario alla regia. Con Paolo e Vittorio Taviani, Peter Del Monte o altri. Per fortuna, tutti mi hanno detto di no. Così ho fatto direttamente il regista.
La Repubblica, 2004

I suoi genitori l’hanno sostenuta?
Col cinema mia madre e mio padre non c’entravano nulla. Ma quando a 19 anni, dopo aver finito le scuole, ho deciso di provare a fare il regista, mi hanno sostenuto con discrezione e con affetto. E non è poco.
CinecittàNews, 2015

E com’è andata?
Dopo i primi tre corti avevo scritto la mia prima sceneggiatura, Militanza militanza… Mi accorsi però che non solo era difficile farmela produrre ma anche solamente farla leggere. Dopo un po’ di sale d’attesa capii che, anziché lamentarmi, avrei dovuto continuare a fare da solo. Ancora in superotto. Lasciai perdere questa storia di un gruppo della sinistra extraparlamentare che si avviava a diventare partitino. E scrissi un canovaccio, più semplice da realizzare in superotto, che era Io sono un autarchico. Alla fine del 76 esce al Filmstudio a Roma, diventa un caso e cominciano ad arrivarmi delle proposte. Avevo, già pronto, il solito Militanza militanza… A febbraio nasce il movimento del 77 e io mi rendo conto che la mia sceneggiatura ha perso di attualità, perché il nuovo movimento è completamente diverso dalle vecchie organizzazioni di estrema sinistra. Scrivo allora tre soggettivi: uno si chiamava Piccolo gruppo, sull’autocoscienza maschile, un altro Delirio d’agosto, sul mio personaggio e i suoi rapporti con la famiglia, le ragazze. Il terzo era una storia d’amore ambientata nell’università. Ecce Bombo nacque dalla fusione dei primi due. Ho girato il film a settembre-ottobre 1977, non immaginando il successo che avrebbe avuto, né che stavo costruendo un personaggio che sarebbe poi tornato tante volte: Michele Apicella. Ero convinto di aver fatto un film doloroso, che raccontava una porzione di realtà molto circoscritta e poco rappresentativa della condizione giovanile italiana. Tutto mi aspettavo fuorché l’identificazione che poi c’è stata, anche da parte di persone lontanissime.
La Repubblica, 2006

Fin dall’inizio, film molto autobiografici.
Per me, il film più autobiografico nei dettagli è senz’altro Ecce Bombo (…). Forse con Bianca e La messa è finita ho cominciato a costruire dei personaggi che avevano una maggiore autonomia. In Sogni d’oro il personaggio si sdoppiava: c’era la vita e poi c’erano i sogni del protagonista (…). Provo i sentimenti di fondo da cui partono i personaggi, la loro sete di perfezione, di assoluto, la loro attenzione alla felicità degli altri, la loro ricerca di armonia. Nei film che faccio, tento di esorcizzare le mie paure, le mie nevrosi, le mie ossessioni, tento di allontanarle con l’arma, inevitabile quando si ricorre all’autobiografia, dell’ironia. A meno di essere un grande poeta, non un regista poetico, ma un regista poeta, se si fa dell’autobiografia senza ironia o distacco, si cade nel ridicolo, da giovani e da vecchi.

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Con gli attori, mi piace amalgamare non professionisti (amici, parenti) con professionisti, anche se adesso lavoro sempre più con persone del mestiere. Durante le riprese, che sono un periodo molto faticoso, siccome non posso ricorrere agli amici per gli aspetti tecnici, tranne forse per l’assistente alla regia, cerco di coinvolgerli in alcune piccole parti, per poter così creare sul set un’atmosfera più familiare, più serena, più distesa.
Positif, 1986

Come lavora durante questa fase?
Prima di tutto, quando scrivo, lo faccio già con l’impostazione regista-attore. Scrivo per me, non ho bisogno di una sceneggiatura accattivante, non ci sono mai indicazioni sulle stagioni, descrizioni di un volto, di una scenografia. Scrivendo, faccio già delle scelte di regia e interpretazione (…). Controllo molto l’inquadratura contrariamente a tanti registi, in Italia e altrove, i cui film vengono fatti essenzialmente dall’aiuto regista, dall’operatore e dal direttore della fotografia. Io non prendo mai un aiuto che faccia questo mestiere in modo convenzionale. Decido l’inquadratura mettendomi in macchina e mettendo qualcuno in campo per sostituirmi. Faccio delle prove abbastanza lunghe, giro molto e stampo molta pellicola (…). In compenso faccio poche inquadrature. Non muovo la macchina. Ci sono registi che, anche se girano con la macchina fissa, usano diecimila obiettivi, registi che quando hanno due personaggi in campo rifanno la scena da tante angolazioni diverse… Il cinema che mi piace di più, quello che trovo più difficile, è il cinema della semplicità, che non significa banalità.
Positif, 1986

Non le pesa raccontare storie tanto intime?
Non è come andare in tv. In un film sono io a scegliere i tempi, i modi e il tono. E riesco a parlare di cose dolorose, come il cancro di Caro diario, o belle, ma sempre intime, come la nascita di Pietro (in Aprile, ndr).
L’Unità, 1998

C’è stato qualcosa che l’ha spinta verso la forma diaristica?
Già con Palombella rossa avevo cercato, dal punto di vista narrativo, altre strade. Non ero scontento di me, ero soddisfatto, ma con La messa è finita mi pareva si fosse esaurita una fase del mio lavoro. Il pubblico tifava troppo per me, mentre il mio personaggio voleva essere l’altra faccia d’una moneta falsa; arrabbiandomi e polemizzando mettevo in scena anche le mie debolezze. In Caro diario il personaggio si annulla. Non sono più quello: non rimprovero, non dò la linea, non voglio essere il direttore etico, estetico e artistico degli spettatori. Non c’è più da una parte un personaggio ingenuo, furente, incorrotto, e dall’altra parte il resto del mondo. Non ci sono toni violenti né indignati. Caro diario mi sembra il meno polemico dei miei film: ho soltanto voluto raccontare quello che mi è successo in un anno (…). Ho scelto io il tono, i tempi, i mezzi espressivi: quindi no, non ho avuto remore. L’ultima seduta di chemioterapia l’abbiamo filmata in sedici millimetri senza neppure pensare a metterla nel film, soltanto per registrare, appunto come in un diario, quanto mi capitava. Eravamo in tre: io sottoposto alla terapia, Barbagallo alla macchina da presa, uno al microfono. Anche le visite mediche, le ricette, i farmaci eccetera: è tutto vero. Non c’è nulla di inventato.
La Stampa, 1993

Non rimprovero, non dò la linea, non voglio essere il direttore etico, estetico e artistico degli spettatori

Questa stessa trasparenza l’ha cercata poi in Aprile per la politica.
Per Aprile ciò che mi interessava da subito era raccontare la politica con trasparenza, e prenderla in giro. Non mi interessava attaccare in maniera decisa e brutale i miei nemici, e non mi importava come la destra avrebbe usato il film. Se volessimo fare una lettura politica delle mie pellicole, anche se sarebbe riduttivo, le prime due erano un po’ il ritratto di una generazione che era vista in maniera rigida, dogmatica e sobria dai mezzi d’informazione. Il successo di questi due film viene dal fatto che, per la prima volta, questa generazione prendeva in giro se stessa e dava di se stessa un altro punto di vista. Ma tra Aprile ed Ecce Bombo il materiale è molto diverso. In Aprile ci sono riunioni, trasmissioni televisive, un’attualità usata non per strizzare l’occhio allo spettatore, ma come documento. In Ecce Bombo, al contrario, c’era la storia di un gruppo di giovani ancorati alla storia di quegli anni, ma non c’era un’attualità precisa. L’attualità era tutta un’altra cosa.

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Quando è uscito Ecce Bombo, per esempio, Aldo Moro è stato sequestrato. E comunque nel 1977 i miei personaggi non erano rappresentativi di tutti gli uomini di sinistra. Era l’anno dei grandi movimenti studenteschi, degli autonomi, un movimento molto violento e piuttosto disperato, soprattutto a Roma. Palombella rossa è un esempio ancora diverso, perché è il mio unico film (a eccezione di La Cosa, che è documentario) dove affronto in maniera diretta il mondo della politica, ma attraverso la metafora della partita di pallanuoto che non finisce mai. Il film non si svolge nella sede di un partito, ma in una piscina… Ecce Bombo, Palombella rossa e Aprile sono quindi tre film in cui, in maniera diversa, la politica è presente, ma comunque rimane sullo sfondo. Non sono un regista strettamente politico, non mi sono mai sentito investito da una missione ideologica o politica, e non apprezzo coloro che si sentono investiti da questa missione (…). Non apprezzo i film che vogliono cambiare la testa delle persone. Più che catartica, il cinema ha forse la funzione di far vedere in maniera differente dal giornalismo o dalla televisione situazioni e immagini di cui senza il cinema non ci renderemmo conto.
Les Inrockuptibles, 1998

Del berlusconismo non ci si era resi conto?
Era evidente già molto tempo prima. Questa storia comincia nel 1994, quando prese il potere per la prima volta. Non era mai accaduto che un “tycoon” della televisione diventasse capo del governo mettendo insieme le sue televisioni private e quella pubblica. Un gigantesco conflitto di interessi che la sinistra avrebbe dovuto sollevare subito, prima, durante e dopo le elezioni che comunque furono perse.
La Repubblica, 2011

È per questo che è stato così feroce con i suoi dirigenti?
Nel 1996 ero felice per la vittoria del centrosinistra e mi piaceva il governo Prodi, finalmente un ceto politico di cui non vergognarsi. Volete sconfiggere Berlusconi per via giudiziaria, ci hanno ripetuto per anni, lo ripetono anche ora. Noi, in realtà, volevamo che la legge fosse uguale per tutti e che non si facessero leggi apposta per evitare processi a uno solo. I girotondi li facevamo per ricordare, anche a noi stessi, che ci stavamo ormai abituando a considerare normali cose che in una democrazia non sono affatto normali: per esempio, che un uomo possa essere proprietario di tre reti televisive e in più che possa fare politica, e in più che possa diventare capo del governo.
L’Espresso, 2013

La tv ritorna spesso nei suoi discorsi. In Caro diario, un personaggio che prima la rifiuta, alla fine ne rimane schiavo.
Penso che Gherardo (l’intellettuale nel film, ndr) passi, come succede spesso nella vita, da un atteggiamento estremo al suo contrario, che sono un po’ la stessa cosa. Come regista, faccio fare a Gherardo, in qualche giorno, quello che molti intellettuali hanno fatto in qualche anno. Tra gli anni settanta e gli anni ottanta, molte persone – intellettuali o meno – sono passate da un rifiuto totale della televisione a una sua totale accettazione.
Positif, 1994

Invece, col cinema, con le sale cinematografiche, che rapporto ha?
Sono rimasto uno spettatore assiduo. Guardo tutto ciò che mi interessa, ma forse oggi ci sono meno film che mi interessano. Diciamo che il mio appetito è rimasto lo stesso, ma ha cambiato natura. Mi piace vedere film ben fatti, diretti, costruiti, montati… ma questo non basta. Questo genere di film fa passare due ore in maniera piacevole, e poi ci lascia alle nostre vite e non ci lascia nient’altro. Da giovane guardavo i film in maniera più arida. Il rigore che ammiravo negli altri si trasformava su di me in rigidità. Quando ero giovane, come praticamente tutti i giovani cinefili, a volte mi sforzavo di amare alcuni film. Tutto questo è finito da tempo: oggi se guardo un film che non mi piace, anche se è di un regista che ammiro, non mento più sui miei gusti, e lo dico almeno a me stesso. Ho anche perso l’abitudine di voler sapere tutto sui film prima ancora di averli visti. Preferisco non sapere niente, o il meno possibile. Mi dispiace di dire una cosa così banale, ma non capisco perché tanti spettatori non riescano a spegnere il loro telefono per un’ora e mezzo, mi fa impazzire non solo il rumore ma anche la luce dello schermo.
Libération, 2012

Sembra non essere mai tranquillo, felice. Pensa che la felicità possa costruirsi?
Sì, lo credo: chi è felice, ha senz’altro lavorato con intelligenza. Per quanto mi riguarda, mi accontenterei di fermarmi molti gradini prima: alla serenità. Mi basterebbe poter vivere e lavorare in modo meno scontento o ossessivo.
La Stampa, 1988

L’inadeguatezza, le nevrosi e la ricerca della serenità sono al centro anche di Habemus papam

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In Mia madre pensa di esserci riuscito, ha trovato questo equilibrio?
Fin da quando ho cominciato a scrivere il soggetto, volevo una donna come protagonista. Non mi ha mai sfiorato l’idea di essere io al centro del film. Ma Margherita è il mio alter ego. Mi faceva piacere dare delle caratteristiche maschili a un personaggio femminile. In particolare mi appartiene questo senso di inadeguatezza. Il senso del disagio è qualcosa che conosco molto bene. Pensavo che con il tempo mi venisse il pelo sullo stomaco, come si usa dire con una brutta espressione, invece succede un po’ il contrario. Più il tempo passa e più il disagio cresce e questo non è riposante. Non ho acquisito freddezza e quindi sicurezza, faccio sempre gli stessi sogni. Prima del primo giorno di riprese, ho i dubbi, le angosce, i ripensamenti di 30/40 anni fa.
CinecittàNews, 2015

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