05 maggio 2015 12:44

Fino a poco tempo fa, davo per scontato che la maggior parte delle persone considerasse la propria vita come una storia, un racconto che si sviluppa dalla nascita alla morte – che potrebbe non interessare a nessuno. La banalità delle autobiografie di certe celebrità – cose del tipo Le risate della mia vita o I gol che ho segnato – fanno pensare che di storie affascinanti non ce ne siano poi tante. Ma sono d’accordo con il filosofo Daniel Dennett quando dice che “siamo tutti grandi romanzieri… cerchiamo di rendere coerente tutto quello che ci succede per farne un’unica storia. E quella storia è la nostra autobiografia”.

Che significato avrebbe la nostra vita senza questo senso di continuità, se non fossimo consapevoli di essere la persona che siamo, con la sua infanzia o la sua vecchiaia? Di sicuro nessuno pensa che non ci sia un filo conduttore tra tutte le scene della sua vita – le estati dell’infanzia, i primi baci, i primi dolori.

Ma un altro filosofo, Galen Strawson, sostiene che a lui accade proprio questo, e sospetta di non essere il solo. “Ho un passato, come tutti gli esseri umani, e ricordo un buon numero delle cose che mi sono successe”, ammette in Against narrativity, un saggio del 2004 citato di recente dal comportamentista Jess Whittlestone. “Ma non ho la sensazione che la mia vita sia un racconto con un andamento lineare”.

Strawson non soffre di amnesia, non dimentica continuamente le sue esperienze come fa Guy Pearce in Memento. È solo che non gli sembra che queste esperienze abbiano un legame significativo con il suo io attuale. Anzi, insiste a dire che non gli interessa minimamente sapere la risposta alla domanda “Che cosa ha fatto Galen Strawson della sua vita?”.

È facile cedere alla tentazione di guardare con un po’ di sospetto queste persone – Strawson le chiama “episodiche”, concentrate sui singoli momenti della loro esistenza, in contrapposizione alle “diacroniche”, più concentrate sul variare della storia personale, come accade alla maggior parte di noi. Le persone episodiche saranno capaci di risparmiare per la vecchiaia o di mantenere le loro promesse matrimoniali?

Ma anche essere persone diacroniche ha i suoi lati negativi. Come fa notare Whittlestone, può essere una caratteristica molto vincolante: davanti a un grande dilemma – una svolta nella carriera o nella vita amorosa – siamo tentati di fare una scelta coerente con “la nostra storia”, quando forse un cambiamento radicale sarebbe più opportuno.

Secondo alcuni studi, le persone che non hanno il senso della persistenza del proprio io nel tempo spendono di più in beneficenza, forse perché sentono meno il bisogno di accumulare soldi per il loro io futuro. E poi essere diacronici è deprimente. A me interessa fin troppo sapere che cosa ha fatto Oliver Burkeman della sua vita. In genere trovo alcune decisioni stressanti solo perché temo che il mio Io futuro se ne pentirà. Dubito che diventerò mai un episodico, ma sapere che esistono, e provare a vedere il mondo con i loro occhi, mi fa sentire più leggero. È molto più difficile preoccuparsi per il futuro, o rimpiangere il passato, se non abbiamo veramente la sensazione che ci appartengano.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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