12 dicembre 2014 18:14

Arrestano Massimo Carminati, insieme ad altre 36 persone per l’inchiesta della procura di Roma sulla mafia nella capitale. E all’improvviso riprende forma la materialità, la fisicità di quelle persone che stanno dietro ai personaggi di un immaginario che da anni è centrale nel discorso pubblico grazie al successo della serie televisiva Romanzo criminale: banda della Magliana, il Freddo e il Dandi, le batterie neofasciste, e tutto quel mondo diventato un’icona sui poster nelle palestre, nelle bacheche di Facebook, sugli accendini.

Tutti hanno evocato lo schermo, presentando la figura dell’ex terrorista nero: sul suo “personaggio” è modellato Il Nero di Romanzo criminale. Aggiungendo per non essere vaghi “interpretato da Riccardo Scamarcio nel film di Michele Placido” (qui l’articolo di Panorama che pubblica addirittura la foto dell’attore).

La seconda stagione di Romanzo criminale. (Emanuela Scarpa)

Del resto, come nel celebre aneddoto sui mafiosi americani che leggono Il Padrino, Carminati stesso ha ragionato sulla messa in scena di se stesso e, stando al resoconto del Corriere della Sera, in un’intercettazione del 2013 ha espresso un giudizio piuttosto articolato sulle diverse trasposizioni affermando che la più riuscita è sicuramente “quella del film… sì la serie è una buffonata. Ma poi il libro… il libro è abbastanza veritiero… nel senso che… il libro di De Cataldo è abbastanza… veritiero”. L’Oscar, però, secondo Carminati va alla serie di History Channel: “Quella è la storia vera compà, è la teoria del mondo di mezzo compà… ci stanno… come si dice… i vivi sopra e i morti sotto, e noi stiamo nel mezzo…”.

Gli stessi avvocati dell’indiziato neofascista hanno dichiarato: “Siamo all’apoteosi dei luoghi comuni cinematografici. E di questo strabordare di informazioni neanche l’ombra di un elemento, un indizio, una circostanza oggettiva, una testimonianza, un riscontro, una indicazione di massima, una traccia, un segno che si sforzi di dare una parvenza di verità a quanto riferito”. La citazione è tratta da un articolo di Lirio Abbate uscita sull’Espresso a settembre, quando solo sulle pagine del settimanale romano si poteva leggere l’allarme per quello che era diventato il modello Roma.

Sempre la solita storia, antica quanto la Poetica di Aristotele, della finzione più vera del vero? E della verità che non è mai verosimile? L’ex sindaco Gianni Alemanno, da buon seguace di Platone, invece, disprezzava l’arte. Fin dal 2009 aveva affermato: “L’avevo detto fin dall’inizio che alcune operazioni culturali come la serie tv Romanzo criminale o altre simili non aiutano, hanno lanciato delle mode, degli atteggiamenti e dei modi di fare sbagliati. I giovani, invece non vanno lasciati da soli, faremo tutto il possibile per stare nelle periferie”.

E così, per contrastare la sindrome dell’emulazione, Alemanno aveva pensato di mandare Carminati in persona nelle periferie, perché in effetti, e come dargli torto, a imitare la serie si sarebbe ottenuto solo un pallido riflesso della realtà. E i giovani devono imparare con l’esempio, non con la finzione (come si gestisce un campo nomadi diventando ricchi, come si conquista l’appalto della cura dei giardini corrompendo le persone giuste eccetera).

Ma c’è un modo di guardare le cose in cui il Nero e Carminati non finiscono in un perfetto gioco di specchi, e la questione che ne scaturisce è: quale operazione culturale sottende questo modo romantico di raccontare l’eversione nera? Chi ha cominciato a raccontarci i postfascisti con questo taglio cinematografico? È davvero tutta colpa di Romanzo criminale se, in un profilo di Carminati, Daniele Mastrogiacomo sulla Repubblica ha potuto scrivere: “Giovane, silenzioso, discreto… (entra a far parte di) un gruppo compatto, immerso nella militanza attiva, già disposto a tutto. A colpire, uccidere, morire”?

No, non è colpa della serie tv né del film né del romanzo di De Cataldo questa banalizzazione romantica del neofascismo criminale, viene da lontano ma ha il suo momento fortunato, come dire, nei primi anni del nuovo millennio.

Nel 2003 la destra italiana guidata da Gianfranco Fini ridisegnava la sua immagine pubblica, attraverso fantasiosissime azioni culturali al limite del situazionismo. In quegli anni usciva un libro come Fascisti immaginari, e un giornalista di Repubblica come Filippo Ceccarelli lo prendeva sul serio, al punto da firmarne la prefazione scrivendo:

Non si diffida mai abbastanza delle parole che si gridano in piazza. Tra gli slogan più cordialmente gettonati, in un tempo non lontanissimo di clamori e dissennatezze, se ne ricorda uno che diceva: ‘Fascisti carogne, tornate nelle fogne!’. Era un invito, se così si può dire, non solo incivile, un segno non tanto di superbia, quanto di rara e truculenta inesattezza. Politica, ma soprattutto logistica, geografica, urbanistica. Molto semplicemente: non erano fogne. L’opus magnum di Luciano Lanna e Filippo Rossi dimostra, piuttosto, che si trattava di vere e proprie città sotterranee, non di rado anche assai diverse tra loro.

Era il risultato della storia, della migrazione di un popolo al tempo stesso colpevole e sconfitto. Spintonato a vivere laggiù: fra reticoli di gallerie che di colpo si aprivano in volte affrescate, o si perdevano entro cantine polverose, come pure ai margini di ambulacri anche parecchio frequentati. Lì in fondo erano finiti i fascisti. Agli angoli o ai crocicchi dei loro ritiri si notavano insegne che indicavano cunicoli e tunnel, i quali si ricongiungevano secondo logiche imperscrutabili, a loro volta generando slarghi, gradinate, uscite di sicurezza (e di insicurezza). Non mancavano, com’è ovvio, le fogne; né certi pozzi neri maleodoranti e pericolosi. Ma c’erano pure sorgenti, templi, palestre, miniere, teatri, catacombe e luoghi ancora più inaccessibili, comunque utili a capire cosa è stata l’Italia.

Abbiamo avuto gli anni del tormentone politico, ma anche giornalistico, sulla memoria condivisa. Memoria condivisa che avrebbe portato all’istituzione della giornata delle vittime del terrorismo (qui una riflessione sull’argomento). In quel contesto sostenere che le memorie e le storie personali dei post? neo? sempre e comunque? fascisti erano necessarie per capire la storia di questo paese suonava, allo stesso tempo, come un’affermazione forzata e preoccupante.

Forzata: perché il libro di Lanna e Rossi non era certo una ricostruzione storica ma un suggestivo catalogo dei sogni che avevano agitato le coscienze di un minuscolo gruppetto di giovani che erano passati attraverso gli anni settanta e ottanta convinti che alla fine Che Guevara e Fabrizio De André fossero patrimonio culturale loro.

Preoccupante: perché ometteva che in “tutto quello che c’era da sapere sulla destra italiana” c’erano anche, nell’ordine, 1) il porsi fuori dal patto costituzionale, 2) la violenza intesa come pratica politica legittima, 3) l’eversione e lo stragismo. Questi temi scompaiono del tutto nella melassa di una tradizione inventata; al punto che il militante dei Nuclei armati rivoluzionari, Giusva Fioravanti, tanto per fare un esempio clamoroso, appare nel volume solo in due brevissimi passaggi.

Il primo alla voce “Champagne Molotov”, incentrata sulla figura di Enrico Ruggeri: del cantante si evoca un’infanzia difficile “per via degli occhiali”, un’adolescenza segnata dalla prof di matematica fascista, scortata in classe dalla polizia, e da quella di filosofia comunista, “ore e ore su Gramsci”. Un ragazzo che si rifugia nella musica e che nel 2000 non si farà problemi “a mobilitarsi contro la pena di morte nel mondo collaborando assiduamente con Nessuno tocchi Caino, l’associazione dove hanno scelto di impegnarsi gli ex terroristi di destra Francesca Mambro e Valerio Fioravanti” (p. 83).

Il secondo passaggio in cui si parla di Fioravanti è a pagina 197, la voce è “Froci”. Un panegirico sulla tradizione tollerante dei missini, a partire da donna Assunta Almirante, che culmina nella partecipazione al World gay pride dell’8 luglio del 2000, nel quale “in polemica con la destra omofobica hanno sfilato pure gli ex terroristi dei Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro”.

Nessuna notizia, nelle seicento pagine del libro, dello stragismo nero, di piazza Fontana o della stazione di Bologna, nemmeno alla voce “Golpe”, che salta in modo disinvolto dal 1968 al 1970 come se nel mezzo non fosse successo niente.

I fascisti immaginari sono i fascisti sognati anche dalla maggior parte dei progressisti italiani, i quali negli anni zero hanno molta fretta di ridisegnare le alleanze politiche culturali nel paese in vista di una possibile alleanza con l’ala moderata del Pdl, incarnata da Gianfranco Fini e dal suo partito nuovo. Così comincia la stagione del recupero delle memorie della destra italiana, stagione che replica quella degli anni novanta, quando i ragazzi di Salò sono equiparati ai partigiani da solerti portavoce di una improbabile quanto impossibile riconciliazione nazionale.

Mentre c’era chi – come i militanti di CasaPound – si proclamava “i fascisti del terzo millennio”, a sinistra sembrava fosse arrivato il tempo di andare avanti con la riscrittura della storia del dopoguerra e dire che anche i postfascisti hanno avuto un ruolo centrale nella costruzione dell’identità nazionale, in primo luogo come vittime, più che come carnefici.

Tra i protagonisti di questa “riscoperta” della destra c’è Luca Telese, che pubblica il suo libro Cuori neri. Il sottotitolo recita: “Dal rogo di Primavalle alla morte di Ramelli, 21 delitti dimenticati degli anni di piombo”. Come ha scritto Valerio Marchi su Carmilla, il libro, “che utilizza un passato doloroso in funzione della più stringente attualità politica”, ha soprattutto una caratteristica, quella di depoliticizzare le storie che racconta.

Se alcune di queste 21 vittime sono infatti totalmente inconsapevoli, come il piccolo Stefano Mattei o lo studente apolitico Stefano Cecchetti, nella maggior parte dei casi si tratta di militanti a tempo pieno, forgiati negli scontri di strada che allora – ed anche oggi, se a qualcuno interessasse leggere la realtà per quel che è – segnavano il paese. E l’opera di banalizzazione della passione politica che Telese compie è tale da mancare spesso di rispetto alle vittime stesse: nel caso di Emanuele Zilli si parla ad esempio di un suo avvicinamento alla Giovane Italia, che ‘nel sud ha un radicamento profondo, legato anche alle attività collaterali, ricreative o sportive. Spesso nelle sezioni del Msi c’è un accessorio ludico che a sinistra sarebbe considerato un segno di pericoloso degrado culturale: il flipper’ (pp. 124-125); Mikis Mantakas ‘non vuole scegliere’, ma poi frequenta un bar vicino la sede del Fuan di via Siena dove conosce ‘una ragazza, poco più piccola di lui e molto carina, che lavora come segretaria nella sede nazionale del Msi’ (p. 220); Sergio Ramelli porta i capelli lunghi e diviene ‘forse proprio per questo un bersaglio’ (p. 269). Anche Mario Zicchieri è una delle ‘vittime’ dei flipper (p. 334), mentre Angelo Pistolesi, fondatore di una sezione missina, viene definito ‘fascista per caso’ (p. 426).

Il libro di Telese introduce così una delle chiavi di lettura più frequenti del racconto dei postfascisti, il vittimismo, che, come vedremo, è diventata una delle più usate anche oggi.

A partire da questo momento i titoli che ricostruiscono le biografie dei postfascisti aumentano in modo esponenziale ed è lo stesso Telese a dirigere la collana di Sperling & Kupfer Le radici del presente, in cui compaiono, tra gli altri: La fiamma e la celtica e Il piombo e la celtica, di Nicola Rao; Sergio Ramelli. Una storia che fa ancora paura, di autori vari; Fascisteria, di Ugo Maria Tassinari; e La notte brucia ancora, testimonianza di Giampaolo Mattei sul rogo di Primavalle. Ma i titoli sono moltissimi e basterebbe scorrere la bibliografia di Fascisti immaginari per farsene un’idea.

È ancora nel 2006 che Angelo Mellone pubblica per l’editore Marsilio Dì qualcosa di destra. Anche qui, come in diversi capitoli di Fascisti immaginari, l’appropriazione indebita di un patrimonio della sinistra (per quanto risibile come la frase rubata a Nanni Moretti) va di pari passo con la negazione dei momenti più drammatici in cui sono stati coinvolti i postfascisti italiani.

E, in un viaggio (effettivamente ben riuscito) che va da Caterina va in città di Paolo Virzì a Paolo Di Canio, Mellone (di destra ma collaboratore del Riformista) racconta come ormai sia venuta meno, e per fortuna, la “retorica dell’antifascismo”, al punto che molti, compresi Walter Veltroni e Vittoria Foa (pp. 128-129), sarebbero concordi nel condannare i silenzi della sinistra sulle sue colpe, dall’omicidio di Claretta Petacci alle foibe.

Crisi, fine dell’antifascismo? La questione diventa centrale in quella che Sergio Luzzatto ha definito la nuova stagione del postantifascismo (qui per una recensione di Andrea Rapini), o ossia quella moda pseudoculturale di sedicenti intellettuali e sedicenti storici che fanno a gara a riabilitare un po’ tutto indistintamente: dalla vicenda delle foibe a El Alamein fino a Almirante.

Ma torniamo a Romanzo criminale, il libro di Giancarlo De Cataldo uscito nel 2002, quando il pop fascismo, per riprendere una definizione di Luca Telese, non è ancora così presente sulla stampa e in tv.

La seconda stagione di Romanzo criminale. (Emanuela Scarpa)

Cosa fa Romanzo criminale? Offre agli italiani un racconto ordinato e comprensibile (oltre che avvincente) di una stagione ancora in larga parte non raccontata. Lo fa con i toni di un mondo noir in cui la politica è un elemento secondario di trame incentrate su individualità fortemente carismatiche: è il segno che è la volontà degli individui, di persone con un nome e un cognome, a determinare la storia.

I movimenti, le idee, le contraddizioni degli anni settanta rimangono (giustamente) sullo sfondo, in una sequenza di episodi che sembrano spiegare da soli tutto quello che è importante sapere: la violenza, le stragi, perfino in qualche modo il rapimento di Aldo Moro, pietra angolare di tutti i “misteri italiani”, da cui nessuno riesce a prescindere nel racconto di quegli anni.

In Romanzo criminale il Nero è uno tra i tanti della banda della Magliana, compare a pagina 160, ed è descritto così: “Uno diverso dagli altri, uno che non sprecava le parole e che alla fine diventò uno di loro, uno giusto (…). Si faceva chiamare il Nero, era alto e secco, come il Freddo e anche di carattere un po’ i due si assomigliavano. Diventarono amici senza troppi preamboli. Quando stavano insieme, non avevano bisogno, per sentirsi vicini, che della compagnia dell’altro”, da cui si evince che pure il Freddo doveva essere un tipo silenzioso.

La politica è poco rilevante di fronte al comune modo di essere, di vivere, pronti a “colpire, uccidere, morire”: destini singoli, in un mondo dominato dalla volontà. Romanzo criminale da un lato, la reductio ad pop di tutto il fascismo italiano del dopoguerra dall’altro: è questo il sostrato su cui cresce un’immagine assai dura da sradicare di un mondo nel quale la politica conta soltanto per chi siede sugli scranni del potere, nelle istituzioni, mentre fuori, nel mondo di mezzo, ci sono i Carminati, il Nero, un personaggio da romanzo, imprendibile fino a oggi anche per la giustizia, come un sogno di celluloide.

Ma poi c’è la realtà, quella dell’alternanza del potere nel Lazio, a Roma: quella che fa le nomine, che sceglie dirigenti fidati a cui affidare strategie politiche, intrecci di relazioni, assegnazioni di appalti anche quando il politico di riferimento all’apparenza non è più al potere. È “il mondo di mezzo” che la lista degli indagati di questi giorni ci ha restituito, in cui lo sdoganamento degli ex fascisti da parte della sinistra non è più riducibile all’editoriale di un intellettuale di destra su un quotidiano di sinistra o viceversa.

Eppure in questa realtà, ancora una volta, la presenza della politica sembra evanescente, come se le mele marce presenti in tutti gli schieramenti fossero il precipitato inevitabile, il correlativo oggettivo, di un romanzo poliziesco che presenta la storia di questo paese, della sua capitale, come un flusso ininterrotto di cattive pratiche di singoli criminali. C’è anche questo, certo, ma soprattutto c’è la graduale omissione colpevole e reiterata dei nessi storici e politici tra la destra e la sinistra a Roma, e il perdurante oblio di quell’ininterrotta genealogia che dagli anni settanta giunge fino a oggi.

Questa genealogia è stata raccontata in diversi saggi da Guido Panvini. Esaminandola ci si accorge che il legame tra violenza, criminalità organizzata e Movimento sociale italiano è strutturale e viene da lontano, almeno dalla metà degli anni settanta, quando nella capitale sorgono formazioni terroristiche come i Nar, Terza posizione e Costruiamo l’azione.

È allora che la base giovanile del partito, dopo il tracollo del Movimento sociale italiano (Msi) in seguito alla scissione del 1976, diventa il bacino di reclutamento dell’eversione nera. “La federazione dell’Urbe del Msi perse il controllo di intere sezioni, spesso fatte chiudere dalla stessa magistratura, mentre la direzione del partito si rivelò incapace di arginare le spinte più violente”.

I dirigenti del partito si strinsero intorno al segretario Almirante e lo scioglimento fu evitato, ma da allora la destra romana si muove su un sottilissimo confine tra legittimo e illegittimo che l’inchiesta Mondo di mezzo ha, ancora una volta, riportato alla luce: del resto Riccardo Mancini, Riccardo Brugia, Gennaro Mokbel (qui brevi profili e ruolo nell’inchiesta) sono accomunati da trascorsi politici lineari. Uno è poco per generalizzare, ma quattro fanno una storia.

Il mito della destra sociale, un’area politica reale ma strumentalizzata da sempre da chi poi ne raccoglie i voti, offusca una semplice verità: il legame tra le speculazioni, le tangenti, lo spaccio e la destra radicale attraversa gli anni ottanta senza sostanziali modifiche. E alcuni delitti considerati come l’esito di una stagione di violenza diffusa (per esempio quello di Valerio Verbano o quello di Fausto e Iaio) in realtà si possono far risalire a questa connessione d’interessi politici e affaristici legati al traffico di eroina e non solo.

Ha scritto Francesco Peloso: “Se oggi un fallimento si deve registrare nella famiglia della destra italiana, è anche quello del mai compiuto rinnovamento finiano che ha seppellito, una volta di più, il mito di una fantomatica destra sociale, quella sindacale dell’Ugl o quella del partito, con radici nell’esperienza del ventennio, e ancor prima nel culto sansepolcrino. Il fascismo italiano porta in sé – in una caricatura di nazionalismo – i germi della corruzione, del malaffare, delle casse rubate e portate via nottetempo dagli ultimi caporioni che fuggono dopo aver trascinato di volta in volta un paese, una città, una regione al disastro e alle macerie”.

Ecco, forse, se a sinistra non si fosse cercato di vedere “volte affrescate”, in quei cunicoli così difficili da percorrere, volendo camminare a testa alta, oggi potremmo raccontare un’altra storia.

Vanessa Roghi è una storica. Insegna all’università di Roma La Sapienza, fa documentari di storia per RaiTre.

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