03 marzo 2010 00:00

Negli ultimi cinquant’anni la morte di un dissidente a Cuba non aveva mai causato così tanti problemi. Il nome di Orlando Zapata Tamayo, un operaio nero di 42 anni, non era nemmeno nella lista dei settantacinque prigionieri politici della cosiddetta primavera nera del 2003. Ma è stato proprio in quei giorni che Orlando Zapata è stato condannato a tre anni di carcere per aver protestato contro la detenzione dei suoi compagni di lotta.

Da quando era arrivato in prigione il suo atteggiamento ribelle gli aveva procurato botte, isolamento nelle celle di rigore e nuove condanne. A metà dicembre del 2009, mentre si trovava nel carcere di Kilo 8, nella provincia di Camagüey, ha deciso di cominciare uno sciopero della fame per chiedere di essere trattato in modo più umano.

I suoi carcerieri hanno reagito spedendolo ancora una volta in isolamento e, per fargli imparare la lezione, hanno ridotto al minimo la sua razione di acqua. Dopo diciotto giorni in queste condizioni, la sua salute si è aggravata irreversibilmente ed è stato trasportato in ospedale, dove ha continuato a rifiutare di alimentarsi. Dopo 86 giorni è morto senza che le autorità avessero detto una sola parola per dimostrare la minima attenzione alle sue richieste.

Morte in diretta

La morte di quest’uomo, nato in una famiglia povera di Holguín, ha anche fatto crollare la segretezza che aveva sempre circondato i prigionieri protagonisti di uno sciopero della fame.

La notte del 1 marzo, quattro giorni dopo la morte di Orlando Zapata, la tv cubana ha intervistato diversi medici che lo avevano visitato. Tra loro c’era una psichiatra che ha dichiarato di aver cercato di convincerlo a raggiungere i suoi obiettivi in un altro modo. Il telegiornale, con un servizio che era un osceno miscuglio di spot per la sanità, velina della polizia e lavoro giornalistico, ha mostrato immagini girate in segreto in cui si vedeva la madre di Orlando, la signora Regla Luisa Tamayo, mentre ringraziava i dottori che cercavano di salvare la vita del figlio.

Ma il telegiornale delle otto non ha trasmesso l’intervista in cui la stessa Regla Tamayo ha dichiarato che suo figlio è stato vittima di un omicidio premeditato. E neanche le sue parole strazianti sul fatto che Orlando chiedeva solo di essere trattato com’era stato trattato Fidel Castro quando era un giovane rivoluzionario, nei 22 mesi di detenzione scontati sotto la dittatura di Fulgencio Batista per aver attaccato con un gruppo armato una caserma dell’esercito il 26 luglio del 1953.

Quello che è venuto alla luce con questa vicenda non sarà più messo a tacere: a Cuba ci sono centinaia di persone che stanno scontando delle condanne per ragioni politiche, il sistema penitenziario dell’isola è in pessime condizioni, vengono commessi abusi e maltrattamenti di ogni tipo e, soprattutto, ci sono persone disposte a tutto per evitare che la situazione rimanga così com’è.

Una rivoluzione tradita

La morte di Orlando Zapata Tamayo ha scatenato accese proteste in Spagna e negli Stati Uniti, i paesi in cui si concentrano le più importanti comunità di esiliati cubani, e molti governi si sono uniti alle proteste e hanno espresso la loro preoccupazione.

Nell’isola una decina di prigionieri politici ha cominciato lo sciopero della fame e l’oppositore Coco Fariñas ha deciso di non voler più bere acqua “fino alla morte” o fino a quando non saranno liberati i prigionieri che avrebbero bisogno di un’assistenza medica specialistica all’esterno della prigione.

La situazione è ancora più complicata per l’avvicinarsi del settimo anniversario della primavera nera del 2003: il 18, 19 e 20 marzo di quell’anno settantacinque oppositori sono stati arrestati e condannati a pene dai 15 ai 28 anni. Sono accusati di non essere d’accordo con il governo: l’unica colpa che i magistrati sono riusciti a dimostrare.

Come se non bastasse, tutto questo succede mentre il paese attraversa una grave crisi economica, che potrebbe cancellare i fragili benefici sociali, sbandierati come eterni e immutabili dall’apparato di propaganda del governo.

E succede mentre cresce l’amara frustrazione di chi aveva sognato che il governo di Raúl Castro sarebbe stato pragmatico e avrebbe introdotto dei cambiamenti strutturali nell’anchilosato sistema burocratico socialista, erede dei peggiori metodi del breznevismo sovietico.

Mai come oggi – neanche durante la tentata invasione statunitense della baia dei porci del 1961, la crisi dei missili sovietici del 1962, i forti flussi migratori del 1980 o del 1994 o dopo il crollo del socialismo europeo – è stata così bassa la credibilità di una rivoluzione che ha passato più di cinquant’anni a giurare di non avere prigionieri politici, di non torturare i detenuti e di non uccidere i suoi oppositori.

Yoani Sánchez è una blogger cubana. Il suo blog è tradotto in quattordici lingue, tra cui l’italiano. Vive all’Avana, dove è nata nel 1975. In Italia ha pubblicato Cuba Libre (Rizzoli 2009). Scrive una rubrica settimanale per Internazionale.

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